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TANTISSIMI ANNI FA...
La famiglia del mio quadrisavolo Severino Degiorgi, nel giorno di San Martino del 1832, dal paese di Borgofranco (ora Suardi) si trasferì prima a Cairo, poi a Pieve, poi a Gallia ed infine a Pieve, luogo in cui rimase e permane tutt'ora.
Questa annotazione è datata 1833, dai registri dello "stato della popolazione di Cairo". I racconti orali ed i ricordi non parlano di loro perchè sono vissuti troppi anni fa ma i documenti, civili, religiosi, testimoniano la loro presenza. Sto parlando dei bisnonni di mio nonno Luigi (1878-1965) che faceva lo spazzino, che chiamavano "äl Ciö" e che io non ho conosciuto.
Il mio quadrisavolo Severino Degiorgi (al secolo Pietro Francesco Severino Degiorgi) figlio di Giulio e di Maria Domenica Trabella, nasce a Borgofranco (ora Suardi) nel 1786, di professione fa il "bifolco" (cioè il guardiano, il conducente dei buoi, chi lavorava la terra con i buoi). Conosce Francesca Maria Guarnaschelli figlia di Francesco e Teresa Gagliardi, nata a Cambiò (Loci Campi Beati) nel 1783 che di professione è contadina. Nel 1805 si sposano e dal loro matrimonio, celebrato a Borgofranco, nasceranno 4 figli di cui Felice, nato nel 1820 (quello riportato nel documento) sarà il quartogenito. Felice Fortunato lo battezzano, probabilmente chiamato così perchè fosse di buon auspicio ai suoi tre fratelli nati prima di lui che hanno avuto un crudele destino (una bambina nata morta nel 1806, un bambino morto a 6 mesi nel 1807 e un'altro bambino nato morto nel 1813).
Questa famiglia sarà la prima di una lunga stirpe di Degiorgi rimasti a Borgofranco che cambierà destinazione e che troverò in luoghi diversi da quello di origine.
Difatti, la famiglia di Severino rimarrà a Cairo fino al 1840, anno in cui morirà la moglie.
Severino seguirà il figlio Felice a Pieve, abitando per un ventennio in Contrada dei Mulini (ora via Angeleri) per poi andare ad abitare a Gallia perchè il figlio lavorava come contadino per gli Eredi Cavallini e morirvi nel 1867 ad 81 anni.
E la vita di Felice? Il mio trisavolo... sarà un'esistenza lunghissima (90 anni) e meravigliosa... ma ve la voglio raccontare prossimamente....

TANTISSIMI ANNI FA...PARTE 2
Stavo parlando del mio quadrisavolo Severino Degiorgi.
Un uomo vissuto a cavallo tra il '700 e '800, morto ad 81 anni (tanti per l'epoca e per le condizioni di vita esistenti in quel periodo), sfortunato dal punto di vista famigliare con la morte di 3 figli tra il 1806 e il 1813 e della moglie nel 1840... ecco... tra tutte queste brutte disavventure che la vita gli ha riservato, mi ha lasciato una perla preziosa: un figlio, il suo unico figlio sopravvissuto, Felice, il mio trisavolo (o trisnonno), il nonno di mio nonno.
Felice nasce il 21 settembre 1820 a Borgofranco (oggi Suardi), nasce quando Borgofranco è sotto il Regno di Sardegna, all'epoca in cui Vittorio Emanuele I° di Savoia era sovrano, in quella campagna lomellina povera e contadina, rurale e genuina.
Viene battezzato Felice Fortunato, il suo atto di battesimo è scritto in latino dal Rettore Francesco Bosio (parroco per 32 anni dal 1817 al 1849). Viene annotato Felix Fortunatus Degiorgi, un buon auspicio dopo i suoi 3 fratellini non sopravvissuti. Tutti i registri parrocchiali, fino al 1837 saranno scritti in latino. Dall'anno seguente seguiranno un formulario prestampato in italiano.
Da bambino vive a Borgofranco fino all'età di 12 anni quando la famiglia si sposterà a Cairo, allora comune indipendente da Pieve (lo sarà fino al 1891).
Frequenta la scuola, qualche classe elementare, non tutte perchè, come succedeva, la forza lavoro era, in quel periodo e in quei luoghi, più richiesta e più importante dell'istruzione. I genitori, entrambi contadini e non così giovani (mamma e papà avevano già superato di molto i 40 anni e per l'epoca erano già "vecchi" e provati dalle fatiche) avevano bisogno un aiuto nel duro lavoro rurale.
Nonostante il loro trasferimento a Cairo (da Suardi sono 6 km), buona parte della famiglia vive ancora a Borgofranco e i legami con il paese natale restano vivi e accesi.
Felice affronterà la sua prima grande responsabilità e l'11 maggio 1841, appena ventenne, si sposa con la signorina Rosa Ferrante (figlia di Michele e Teresa Nardi), anche lei ventenne, nata a Tortorolo ma residente a Gambarana. Si sposano infatti li, nella Parrocchia dei SS.Pietro e Biagio.
Sono due giovani sposi, già maturi e responsabili, pronti ad iniziare la loro vita insieme. Vivono a Pieve nella contrada dei Mulini (ora via Angeleri) insieme al padre Severino rimasto vedovo della moglie l'anno prima.
Ecco però la prima grande difficoltà nella vita di Felice, la morte prematura della moglie Rosa appena 4 mesi dopo il matrimonio, il 10 settembre 1841. La giovane sposa muore di polmonite. Felice, nemmeno 21enne è già vedovo e solo.
Sembra tutto finito, due uomini soli, lui e il padre, ma a Felice, il destino, riserverà ancora tantissimi avvenimenti … anche perché come sarei nato io?
(continua)

TANTISSIMI ANNI FA...PARTE 3
Dove eravamo rimasti? Vediamo un po...
Nell'ultimo racconto sulla storia della mia famiglia stavo parlando di Felice Degiorgi (1820-1910) cioè del mio trisavolo. Una vita lunghissima, 90 anni, spesa a realizzare sogni e a lottare per non farli spegnere. Nell'ultimo post ho parlato della sua giovane moglie Rosa Ferrante morta 5 mesi dopo il matrimonio, nel 1841. Lui 21enne, lei 20enne, già vedovo così presto. Il desiderio di metter su famiglia si è spento poco dopo, neanche il pensiero di come iniziare "a diventar grandi" che subito è svanito.
Ma Felice non demorde e l'anno dopo torna a Borgofranco (Suardi) per incontrare una bellissima fanciulla di nome Santina. Immagino i tempi e i modi usati per approcciarsi.
Mi piace fare una riflessione su questo punto. Felice conosceva già Santina e anche la famiglia di Santina in quanto suo padre Giuseppe, compare testimone in alcuni battesimi dei suoi figli come una certa Carazza Teresa (il nome per il momento non dice nulla ma dirà qualcosa più avanti). Fine della riflessione. Torniamo all'incontro.
Felice ha ancora nel cuore Rosa ma è giovane, solo e pensa per la seconda volta di porre il suo cuore nel cuore di di un'altra donna, nel cuore di Santina. Infatti l'anno seguente, il 1°febbraio 1842, si sposa per la seconda volta nella parrocchia di San Bartolomeo a Suardi. Lei è Santina Sozzi, nata il 31 ottobre 1819 a Suardi (figlia di Giuseppe e Caterina Trabella), entrambi 22enni. Dalla loro unione nasceranno 5 figli dei quali il primogenito Giovanni Antonio sarà il mio bisnonno. Nasceranno tutti a Pieve del Cairo nel seguente ordine: Giovanni Antonio nel 1843, Maria Domenica nel 1845, Luigi nel 1848, Caterina nel 1851 e Giulio Ferdinando nel 1855. La famiglia vivrà per un ventennio a Pieve nella contrada dei Mulini (come avevo già accennato nei post precedenti), lavorerá nella Fornace Cavallini e un po' farà il contadino, fino al 1863, anno in cui si trasferirà insieme all'anziano padre Severino, già vedovo della moglie, nella frazione di Gallia a lavorare i terreni per gli eredi Cavallini.
A Santina e Felice intanto, dei 5 figli, viene a mancare Caterina, nel 1857, a soli 6 anni. Ma la fierezza e la costanza della gente a quel tempo non permette di chinare la testa e si deve andare avanti lo stesso. Arriviamo al 1863, anno del trasferimento a Gallia, i figli sono già "grandicelli", Giovanni ha 20 anni, Maria Domenica (chiamata poi semplicemente Maria) 18, Luigi 15 e Ferdinando, il più piccolo, 8 anni. Passano tre anni e in casa Degiorgi succede una nuova disgrazia ovvero la morte della moglie Santina Sozzi all'età di 47 anni, la sera del 25 ottobre 1866. La causa della morte non è registrata.
Il povero Felice è di nuovo solo, vedovo per la seconda volta. Ha 46 anni e dovrà rimboccarsi nuovamente le maniche per andare avanti con i suoi 4 figli e l'anziano padre ancora vivente. Rimarranno a Gallia ancora un anno, fino al 1867, anno in cui succederà veramente di tutto in casa Degiorgi, un anno ricco di avvenimenti (sia belli che brutti) di cui vale la pena aspettare il prossimo post..... (continua)

TANTISSIMI ANNI FA...PARTE 4
Continuando il racconto della famiglia di Felice Degiorgi, il mio trisavolo, sono arrivato al fatidico anno 1867, anno ricchissimi di avvenimenti, belli e brutti.
Mentre in Europa, Karl Marx termina la stesura della prima edizione de IL CAPITALE e Alfred Nobel inventa la DINAMITE, in casa Degiorgi cambiano gli "stati di famiglia" e le situazioni delle persone che vi abitano, subiscono modifiche. Dopo la morte della seconda moglie di Felice, Santina Sozzi, l'anno prima, il 1866, vediamo che quest'anno riserva alla famiglia ben due matrimoni: infatti, il 9 febbraio 1867 è un gran giorno per Felice perchè due dei suoi figli si sposano, lo stesso giorno. Il primogenito Giovanni (1843-1924, il mio bisnonno) si sposa a Pieve del Cairo con Ercolina Volpini (1850-1936, la mia bisnonna) mente la secondogenita Maria Domenica (1845) si sposa a Gallia con Angelo Piumazzi, classe 1839, di Mezzana Bigli dove poi andranno ad abitare. Nei due atti di matrimonio non sono riportati gli orari delle cerimonie ma credo siano stati fatti in momenti diversi per permettere a tutta la famiglia di recarsi prima da un figlio e poi dall'altra.
Come sarà stata la festa? Credo proprio nulla di particolarmente sfarzoso, una festa contadina, rurale fatta di gesti semplici e basilari perchè la vera ricchezza allora era il "volersi bene", niente di più, almeno per queste famiglie comuni alla maggior parte delle altre.
Dopo due avvenimenti lieti e sereni, un crudele destino per il figlio di Felice. Infatto, il piccolo Giulio Ferdinando, il 18 aprile muore, non ancora 12enne. Non è riportata la causa della morte ma all'epoca, la mortalità giovanile, infantile, era molto elevata per tanti fattori (igienici, malattie non ancora curabili come oggi o tragedie in genere). Felice, dopo un momento sereno accusa il colpo della perdita del suo secondo figlio (infatti nel 1857 era morta la piccola Caterina a soli 6 anni).
Non finisce qui purtroppo perchè il 14 ottobre 1867 muore l'anziano padre Pietro Severino all'età di 81 anni. Qui il destino ha concesso, almeno a lui, una vita piuttosto lunga per l'epoca in cui siamo.
Felice ha 47 anni ed è rimasto solo con il figlio Luigi (1848-1925) che ha 19 anni e non è ancora sposato. Sono a Gallia ancora per poco tempo, Giovanni è a Pieve, Maria a Mezzana e tutti gli altri non ci sono più.
La vita di Felice, tra gioie e dolori, minata da tutte le parti da eventi infausti, non finisce qui. Il destino riserverà a lui ancora tanto tempo ed altre sorprese. E il 1867 per lui non è ancora finito.
Un altro nome, nel frattempo, fa capolino nella vita del mio trisavolo: Teresa Carazza, una donna già presente nella famiglia, già diversi anni prima.
A Felice non piace proprio star da solo... (continua)...

TANTISSIMI ANNI FA .... PARTE 5
Eccoci di nuovo qui a parlare di Felice Degiorgi e della sua lunga storia.
Nel precedente post pubblicato mi ero soffermato sui fatti accaduti nella sua famiglia nell'anno 1867. Riassumendo quanto detto finora parlando di questo anno ricordo che ci sono stati i due matrimoni dei suoi due figli, Giovanni (mio bisnonno) e Maria Domenica, la morte del suo ultimo figlio Ferdinando a soli 8 anni e la morte dell'anziano padre Severino ad 81 anni.
Ho concluso il post precedente puntualizzando che il 1867, per lui, non era ancora finito. Infatti è proprio così.
La voglia di vivere e di ricominciare ancora tutto è viva e presente nella personalità del mio trisavolo tanto che, l'11 novembre Felice si risposta, per la terza volta con la signora Maria Teresa Carazza. E' quel nome che ogni tanto salta fuori. Ha 10 anni in più di lui, è nata a Mezzana Bigli nel 1810 ed è vedova di Tenti Giovanni Battista (1798-1858). Questa donna, già presente nella famiglia Degiorgi, compare 3 volte nei documenti di battesimo. Nel 1843 come madrina di Giovanni Degiorgi (il mio bisnonno), nel 1855 come madrina di Giulio Ferdinando e anche come madrina di Carolina Alessi (1853-1942) che nel 1874 sposerà Luigi Degiorgi (1848-1924, fratello del mio bisnonno), figlio di Felice, l'ultimo rimasto in casa con lui a Gallia dopo tutti i virtuosi fatti del 1867. Maria Teresa era vicina di casa di loro, abitavano nella stessa via, la Contrada dei Mulini, fin dal 1848 quando vi abitavano ancora Severino con la sua famiglia e lei con suo marito. E' probabile che, all'epoca, le famiglie si frequentassero di più rispetto ad oggi perchè tutti si aiutavano vicendevolmente nella buona sorte ma anche nelle sventure.
Lui ha 47 anni, lei 57. Ovviamente, non tanto per l'età di lui ma per l'età di lei, non hanno figli. Vivranno 12 anni insieme, lui si trasferirà con la terza moglie da Gallia a Pieve nella vecchia casa ai Mulini con il figlio Luigi. nel 1871, come nel 1875, lo troviamo proprietario di quella casa e nel 1878 risulta una nuova costruzione di due vani su due livelli (particelle 866 e 867). Grazie alle ricerche fatte dall'amico Mario Angeleri (dal suo ultimo lavoro La dove c'era ... ora c'è,,,) apprendo queste cose come il sapere che quella casa passerà al figlio Luigi che ci abiterà con la sua famiglia e di conseguenza passerà a suo figlio Carlo (Sivirìn) che ci vivrà con la sua famiglia. Il resto di questa famiglia sarà quel ramo dei Degiorgi che andrà in Argentina a cercar fortuna (e chissà se l'avrà trovata... sto cercando di scoprire qualcosa perchè le mie ricerche sono costantemente in corso...)
Tornando a Felice, nel 1879 è nuovamente vedovo perchè il 20 aprile 1879, alle 7 della sera, la terza moglie muore all'età di 68 anni.
A quasi 60 anni, Felice è di nuovo alle prese con la sua "insopportabile" solitudine che sarà visitata da altri avvenimenti, sia belli che brutti: un prezzo da pagare per chi ha la fortuna (o la sfortuna) di vivere così a lungo.
Vivrà ancora 31 lunghi anni e i suoi occhi vedranno ancora molti cambiamenti. (...continua)

Prosegue il racconto, un po' romanzato, della vita del mio trisavolo Felice Degiorgi.
Siamo nel 1879 e alla vigilia dei suoi 60 anni, che compirà l'anno dopo nel 1880, Felice attende fiducioso il susseguirsi degli eventi, accettando di buon grado tutto quello che gli succederà da qui in poi.
Facciamo un digressione intanto e torniamo indietro di circa 11 anni. Felice scopre la gioia di diventare nonno quando, nel 1868, nasce il suo primo nipote, Pietro, figlio di suo figlio Giovanni (Pietro era il fratello di mio nonno Luigi, äl Ciö). Fino al 1888, per 20 anni, i tre figli di Felice, Giovanni con Ercolina Volpini (i miei bisnonni), Luigi con Carolina Alessi e Maria Domenica con Angelo Piumazzi, diedero a nonno Felice (nonu Filicìn) ben 16 nipoti rispettivamente: 8 da Giovanni, 6 da Maria Domenica, 2 da Luigi. In futuro i 3 rami dei figli di Felice saranno il mio che discende da Giovanni, i Piumazzi di Mezzana Gigli che discendono da Maria Domenica e il ramo argentino che discende da Luigi perché sia il figlio che il nipote emigrarono rispettivamente in terra americana nel 1900 e nel 1930.
Di queste generazioni però non voglio parlarne ora ma tratterò di loro in altri post.
Siamo arrivati intanto nel 1888 e l'ultimo nipote sarà Carlo Degiorgi, mio omonimo che sarà il "Cärlin ad lä Furnasä". Intanto Felice invecchiava e abitava nella contrada dei Mulini con il figlio Luigi fino al 1900. Arriva il nuovo secolo, il '900 e Felice ha 80 anni, è vecchio, stanco, provato dal duro lavoro e dalla vita lasciata alle spalle. Questo secolo sarà per Felice un altro motivo di gioia in quanto vedrà convolare a nozze diversi suoi nipoti e conoscerà anche alcuni pronipoti. Nel 1902 si sposerà Secondo Degiorgi (sìu Sicond, 1875-1967) figlio di Giovanni, con Amalia Veniale (1881-1947) e del loro matrimonio nasceranno Felice nel 1903 e Gisella nel 1907. Il primo pronipote porta il suo nome. Nel 1907 si sposerà Maria Degiorgi (1885-1974) con Giovanni Barca (1883-1948) e nel 1910 nascerà Rosa. Nel 1908 si sposeranno Francesco (1881-1909) con Antonia Tebaldi (1883-?) a Milano e Luigi (mio nonno, 1878-1965) con Teresa Gatti (1890-1976) e nel 1909 nasceranno Amalia da Francesco e Giovanni da Luigi.
Tornando a Felice, dal 1901 andrà a vivere con il figlio Giovanni alla fornace Cavallini dove egli lavorava restando quasi un decennio fino al 15 ottobre 1910, giorno della sua morte avvenuta alla veneranda e gloriosa età di 90 anni.
Finisce qui la vita di un uomo semplice ma straordinario, un uomo che vide il Regno di Sardegna espandersi, tre guerre di indipendenza, la spedizione dei Mille di Garibaldi, la proclamazione del Regno d'Italia, la breccia di Porta Pia e tanti altri avvenimenti che cercarono di fare grande una Nazione. Nacque sotto Pio VII e morì sotto Pio X, attraverso sette pontefici quasi alla vigilia di quella Grande Guerra che non conobbe mai.
(fine del racconto.... ma non la fine della storia...)

TANTISSIMI ANNI FA …. PARTE 7
La storia che vi voglio raccontare riguarda un mio prozio, Francesco Pietro Degiorgi, uno dei fratelli di mio nonno Luigi (äl Ciö). Nei post precedenti ho parlato della lunghissima vita di Felice Degiorgi, nonno di Francesco, morto a 90 anni nel 1910. Contrariamente a quanto scritto prima, la vita di Francesco sarà piuttosto breve ma ve la voglio raccontare.
Nato a Pieve del Cairo il 28 giugno 1881; sarà conosciuto da tutti come “sìu Cesco”, personaggio ricordato da tutti i suoi nipoti (papà compreso) come lo “zio mai conosciuto” perché “l’è mort giùn”. Dall’archivio parrocchiale emerge un’annotazione in calce al suo atto di battesimo: si sposa nel 1908 nella chiesa della SS. Trinità a Milano con Tebaldi Antonia. L’annotazione mi viene confermata dall’atto di matrimonio della suddetta parrocchia, n. 218/tavola 51 del 27 agosto 1908. Lei è milanese nata il 15 agosto 1884, da padre “ignoto” (come indicato nell’atto) e da Giselle Tebaldi (la madre le ha dato il cognome).
Dall’atto di nascita del Comune di Pieve del Cairo si apprende che Francesco emigra a Milano il 15 luglio 1900, a soli 19 anni. Da Milano si trasferisce a Barzanò (oggi in provincia di Lecco) nell’alta Brianza dove trova lavoro come commesso (precisamente in un negozio di cappelleria). Dal matrimonio con Antonia Tebaldi nascerà una figlia, AMALIA OLGA GIUSEPPINA (ricordata da papà come la cugina Lia) che nasce il 5 aprile 1909 a Barzanò.
Appena assaporata la grande soddisfazione di diventare padre, Francesco si ammala di bronco alveolite (un’infiammazione dei bronchi e degli alveoli polmonari spesso di natura tubercolare) e muore a Barzanò il 14 Settembre 1909 a soli 28 anni nella sua casa in Villa Maria alle ore 16.30 pomeridiane. A dare l’annuncio e ad essere testimoni della sua morte sono Luigi Confalonieri, amico di famiglia e il fratello Luigi (mio nonno) che, pover uomo, giunge a Barzanò da Pieve del Cairo.
Lascia la moglie 25enne e la piccolissima Amalia di appena 5 mesi che non conoscerà mai suo padre. Francesco lascerà sconforto nella sua famiglia, i genitori Giovanni ed Ercolina (i miei bisnonni) e l’anziano nonno Felice (il mio trisavolo, che nel 1909 aveva 89 anni), tutti i fratelli, cugini, nipoti.
Una vita, quella di Francesco, intraprendente ma breve, alla ricerca di una condizione migliore per se stesso e per i suoi cari, lasciando il suo paese agricolo a soli 19 anni per cercare una soluzione diversa, quella della città, in una Milano socialista, tumultuosa di lotte operaie ma anche centro intellettuale del futurismo italiano.
Della moglie Antonia Tebaldi sono giunte fino a noi, notizie molto scarse se non quelle parole di mio nonno Luigi che affermava: “era una donna bellissima e benestante”.
Purtroppo anche la sua discendenza non avrà molta fortuna. La figlia Amalia si sposerà nel 1936 a Lomazzo con Gigli Francesco ma non avrà figli. Morirà giovane a 36 anni nel settembre del 1945, appena finita la Guerra, all’ospedale di Como sempre per problemi polmonari, probabilmente una condizione genetica ereditaria o magari una circostanza sfortunata. Papà la ricordava bene perché passò, da ragazzo, alcune estati a casa sua. Il marito, bergamasco di nascita, si risposerà più avanti (riporto questo dai racconti di papà) ma la mia famiglia non saprà più nulla di lui. Quello di zio Francesco rimarrà per tutti coloro che lo ricordano senza averlo mai conosciuto, un crudele destino e dell’albero genealogico della nostra famiglia, un ramo seccato troppo in fretta.

TANTISSIMI ANNI FA … PARTE 8
Felice Degiorgi, il mio trisavolo, vissuto tanto a lungo da vedere con i suoi occhi cambiamenti incredibili dal punto di vista storico, politico, geografico, un uomo che ha percorso quasi interamente tutto l’800 per finire nel primo decennio del ‘900, avrebbe potuto avere dei fratelli e delle sorelle ma è rimasto solo. Ed era strano, in quell’epoca, essere figlio unico perché, si sa, le famiglie erano numerosissime quanto era frequente la mortalità infantile. Nel periodo in cui nacque Felice, il 1820, a Borgofranco (äl Bùrg) nascevano circa 40/45 bambini l’anno ma almeno la metà non arrivavano all’anno di vita. Malattie, condizioni igieniche precarie e alimentazione fatta di cibi poveri di tutto. La fierezza dei genitori non permetteva di chinare la testa per queste disgrazie che venivano viste sicuramente come eventi funesti e tristi ma anche come un volere di Dio. E alla volontà divina, nessuno, a quel tempo, si opponeva.
La famiglia del mio trisavolo ha sperimentato, purtroppo, questa brutta situazione. Severino Degiorgi (1786-1867) e Francesca Guarnaschelli (1783-1840) si sposano a Borgofranco nel 1805 e come ogni genitore di quell’epoca, una delle cose che dava veramente valore al matrimonio era quella di avere dei figli. Nel 1806 il primo lieto evento. Nasce una bambina, in casa e l’ostetrica (o levatrice) Marianna Dall’Occhio si accorge che qualcosa non va, la battezza (perché loro avevano questa possibilità quando si trovavano di fronte “ob imminens mortis periculim”) e muore poco dopo (“ob morbus repentinus”). Alla bambina non viene dato alcun nome e tutto questo accade il 4 febbraio 1806. Severino e Francesca diventano genitori per la seconda volta, il 12 aprile 1807 con la nascita di Giuseppe Degiorgi che però, ahimè, morirà nello stesso anno, il 20 ottobre a soli 6 mesi.
Dopo la “botta” morale di queste due gravi perdite, passano 6 anni e ci riprovano ma il 16 giugno 1813 nasce un bambino morto (“vix natum mortus” recita l’atto e anche “parvo corpus ad caelum evolavit” annota l’allora rettore Desiderio Arpiani). In preda allo sconforto più totale, i poveri Severino e Francesca hanno ormai perso le speranze e pensano di non riuscire a diventare genitori quindi non avranno una discendenza. Lasciano passare altri 7 anni e il 21 ottobre 1820 (Francesca ha ormai 37 anni e Severino ha qualche anno in meno, quindi due genitori non più tanto giovani per l’epoca in cui siamo) nasce Felice, il mio trisavolo, il loro quarto figlio che sarà però l’unico figlio che sopravvivrà.
Felice Fortunato (“Felix Fortunatus”) lo chiamano, e il nome gli ha portato proprio bene. La sua vita, 90 anni, come ho già raccontato nei post precedenti, è stata ricca di avvenimenti. Ed è proprio anche grazie a lui che io sto scrivendo.
Questo post lo voglio dedicare non tanto a Felice e alla sua vita straordinaria ma a tutti i bambini “sine nomine”, senza un nome, (come i suoi fratellini) perché hanno avuto una vita inesistente o comunque così tanto breve da non lasciare traccia da nessuna parte se non nel cuore lacerato di una madre che, come la mia quadrisavola Francesca, per ben tre volte, ha portato in grembo tre semi che non sono mai sbocciati.

TANTISSIMI ANNI FA … PARTE 9
Prima di affrontare quel passato con la P maiuscola che riguarda i miei antenati ancora più indietro nel tempo, vorrei parlare di una figura fondamentale della mia famiglia che pochi hanno conosciuto perché è morto nel 1924: il mio bisnonno Giovanni Antonio Degiorgi, figlio quel Felice Degiorgi (1820-1910) morto a 90 anni del quale ho parlato in modo approfondito nei post precedenti.
VITA DI GIOVANNI ANTONIO DEGIORGI (1843/1924)
Giovanni Antonio Degiorgi è il primogenito di Felice, nasce il 9 marzo 1843 alle 11 di mattina a Pieve del Cairo. Alle ore 6 “della sera”, viene presentato in Chiesa un fanciullo di sesso “mascolino” e viene battezzato dal parroco Giovanni Cerra alla presenza dei genitori e del padrino Francesco Ferrari fu Michele di professione sarto (non ci sono affinità di parentela con questo Ferrari ma spesso ci si affidava alla presenza di qualcuno che facesse da testimone ad un evento, non sempre era della famiglia). Nel sul atto di battesimo si legge il numero, 26. Vuol dire che il 9 marzo del 1843 erano già stati battezzati 26 bambini (considerazione puramente statistica: un dato, questo, che oggi è raggiungibile in due anni molto buoni, non certo in 3 mesi. Basti pensare che nel 2020 a Pieve sono stati celebrati 2 battesimi, 2 in un anno. Fine della considerazione statistica).
Giovanni Antonio è stato il primo Degiorgi (della mia famiglia s’intende) a nascere a Pieve del Cairo. Tutti i suoi predecessori, padre compreso, sono nati a Borgofranco. Facendo una breve digressione storica ricordo che Severino Degiorgi (1786-1867), suo nonno, è stato il primo a trasferirsi da Suardi a Cairo e poi a Pieve con la famiglia per poi rimanervi e dare spazio a quella discendenza di Degiorgi di cui faccio parte anch’io. Fine della digressione storica.
Dicevo: Giovanni Antonio, ricordato come “nònu Giuänìn” nasce ben 178 anni fa, in un’Italia non ancora fatta, divisa in tanti piccoli stati che però sono in fermento dai primi moti risorgimentali. La Lomellina è ancora sotto il Regno di Sardegna ed il sovrano è Carlo Alberto di Savoia. In questo contesto storico, Giovanni nasce, cresce e va a scuola. Papà Felice e mamma Santina, oltre al mio bisnonno che era il primogenito, avranno altri 4 figli: Maria Domenica nel 1845, Luigi nel 1848, Caterina nel 1851 e Giulio Ferdinando nel 1855. Tralascio il ramo generazionale dei suoi fratelli e faccio più luce su di lui, il bisnonno Giovanni Antonio. Il 9 febbraio 1867, giovane 24enne, sposa la appena 17enne Maria Rosa Ercolina Volpini (1850-1936), la mia bisnonna, che papà ricordava benissimo come “Màmä ‘Rculinä” (quando è morta lui aveva 14 anni). Si sposano a Pieve del Cairo e il matrimonio sarà celebrato dal Curato Coadiutore Don Giovanni Gambarana per conto del Parroco Don Giuseppe Galassi. Giovanni Antonio risiedeva a Gallia in casa Eredi Cavallini e vivrà poi a Pieve dove poi, sempre rimarranno. Dal loro matrimonio nasceranno ben otto figli dei quali Luigi, sarà mio nonno (“Nonu Ciö”). Della loro numerosa prole, 2 bambine moriranno piccole ma gli altri avranno quasi tutti modo di aggiungere alla famiglia altri membri fino ai giorni nostri.
I figli di Giovanni ed Ercolina sono i seguenti: Pietro (1868-1947), Maria Santina (1870-1872), Teresa Maria (1874-1874), Secondo Luigi (1875-1967), Luigi (1878-1965, mio nonno), Francesco (1881-1909, quello del racconto “parte 8”), Maria (1885-1974), Carlo (1888-1963). Quando Carlo nasceva, Pietro aveva già 20 anni. Personalmente, a parte un lontanissimo ricordo di Maria Degiorgi (che chiamavamo tutti “sìa Märìä ‘dla Barcä”, perché maritata Barca), morta quando avevo 3 anni nel 1974, non ho conosciuto nessuno di loro, neanche mio nonno Luigi, purtroppo. Attraverso le mie ricerche però posso tranquillamente parlare di loro come se li avessi qui davanti a me.
E anche la vita di Giovanni non scherza, quindi, non prendete impegni e seguite i prossimi post …

TANTISSIMI ANNI FA … PARTE 10
Nel post precedente stavo parlando di Degiorgi Giovanni Antonio, “nònu Giuänìn” per tutti i suoi nipoti, mio papà compreso. La vita del mio bisnonno è stata, come la maggior parte degli uomini vissuti in quel periodo, una vita piuttosto sacrificale, dedita al lavoro per se stesso, per la sua famiglia, per i suoi figli e per il grande senso del dovere. Di professione era contadino ma ha lavorato successivamente anche alla Fornace Cavallini, dove poi ha risieduto con parte della sua famiglia insieme all’anziano padre Felice Degiorgi (il mio trisavolo vissuto 90 anni). Giovanni ed Ercolina, giovani sposi, hanno dedicato tutta la loro vita a questo. Ai loro 8 figli (2 bambine morte piccole e un terzo, Francesco, giovane uomo morto a 28 anni) sono stati trasmessi i veri valori della vita in cui il lavoro, la famiglia e la fede li hanno sempre contraddistinti come “brava gente”. Anche se alcuni di loro, vissuti anche a lungo, si sono dimostrati piuttosto intraprendenti e le attività lavorative che hanno svolto sono andate un po’ al di fuori dai canoni della vita rurale di un tempo. L’avvento del nuovo secolo, il ‘900, ha dato più ampio respiro alle diverse scelte e all’emigrazione in altri luoghi con l’abbandono del paese natio alla ricerca di una vita più moderna, diversa, migliore per tutti. Il primogenito Pietro, il più vecchio della famiglia (1868-1947) abbandonerà Pieve per andare a lavorare nelle fiorenti fabbriche milanesi per poi risiedere anche a Milano con una donna che non sposerà mai ma che sarà la compagna per tutta la sua vita. Di lei mio padre parlava poco ma se la ricordava come la Zia Mina (Sìä Mìnä, non ho mai saputo il suo nome, magari Beniamina?), quella “zia dei dolci” (sìä di duls) che, quando arrivava a Pieve dalla grande città, portava ai suoi nipoti (acquisiti) caramelle e leccornie di ogni genere. Era di una condizione medio borghese, più benestante della nostra famiglia ma, come ricorda papà, era una donna gentile, umile amorevole e dolce, soprattutto con i bambini perché non hanno potuto avere figli. Lei morirà prima dello scoppio della guerra, a Milano. Lui a Pieve all’età di 79 anni nel 1947. Un altro figlio di Giovanni che non rimane a Pieve è Secondo Degiorgi (1875-1967) che si sposa nel 1902 con la pievese Amalia Veniale (l’origine della famiglia, da quello che ho potuto rinvenire dai documenti è della vicina Valeggio). Avranno un figlio nel 1903, Felice (prenderà il nome del suo bisnonno) nato a Pieve e una figlia, Gisella che nascerà a Milano nel 1907 e sarà la Degiorgi più longeva della nostra famiglia. Morirà a 96 anni nel 2003 (buon sangue non mente, anche Secondo morirà alla vigilia dei suoi 92 anni). Al contrario, il povero Felice Degiorgi, suo figlio e fratello di Gisella, morirà a soli 21 anni nel 1924. Papà lo conobbe solo tramite una sua vecchia fotografia. La discendenza di Secondo vive ancora a Milano.
E Giovanni, il mio vecchio bisnonno, vede un alternarsi di vicende in cui diversi suoi figli se ne andranno da Pieve. Anche Francesco (1881-1909) se ne andrà a Milano, poi a Barzanò in provincia di Lecco dove morirà giovane a 28 anni con la piccola Amalia (Lia) in fasce.
Ma altri rimarranno a Pieve: mio nonno con la sua famiglia, sposato nel 1908 con mia nonna Gatti Teresa (di Ottobiano) e nasceranno Giovanni (1909-1976, sìu Giuänìn), Maria (1913-2004, sìa Märijn) e mio papà Adriano (1922-2008, äl Dego);
E Maria Degiorgi che abiterà, dopo il matrimonio nel 1910 con Barca Giovanni (di Ceretto Lomellina), tutta la vita in Via Carlo Alberto, ora via Matteotti. Lui era un impresario edile. Dal loro matrimonio nascerà Rosa Barca nel 1910 ed Ercolina nel 1913 che nascerà morta.
E poi Carlo (1888-1963), il mio omonimo che si sposerà nel 1914 con Rosa Cristiani (nipote, da parte materna, di quella famiglia di falegnami pievesi di cognome Bettaglio). Lui era il “Cärlìn ‘dla Furnàsä” perché la famiglia ha abitato li per tanti anni e anche lui. Sarà padre di Carolina (1920-2004, sìa Linä) maritata Bellazzi. La sua famiglia ora abita a Vigevano.
La lunga vita del mio bisnonno Giovanni ha visto nonni, genitori, fratelli e sorelle morire, anche figli e nipoti morire, una vita piena di vicissitudini, di cambiamenti, nato in quel secolo tumultuoso di scontri, moti, guerre, lotte per l’unità d’Italia e per una più completa libertà. Ha visto, da anziano, la prima guerra mondiale dove alcuni suoi figli, mio nonno compreso, hanno combattuto e, fortunatamente, hanno portato a casa la pelle. Ma il mio bisnonno ha compiuto il suo dovere fino in fondo e il suo nome, 10 giorni prima di morire, compare nei votanti di quelle Elezioni Politiche del 6 aprile 1924 che vide la Lista Nazionale (Listone) di Mussolini, vincere con oltre il 60% dei voti. Giovanni Antonio Degiorgi o, come scritto nell’atto di morte, solo Giovanni, morirà il 15 aprile alle 4 del pomeriggio, alla Fornace Cavallini, all’età di 81 anni. La mia bisnonna Ercolina (mamä ‘Rculìnä) rimarrà sola ed andrà a vivere in Via Carlo Alberto con la figlia Maria (sìä Märiä dlä Bàrcä) fino alla sua morte, avvenuta nel 1936 ad 86 anni.
La racconto della vita di Giovanni finisce qui … ma non finisce di certo la storia …

TANTISSIMI ANNI FA … PARTE 11
Voglio parlare di un ramo della mia famiglia che discende da uno dei 5 figli di Felice Degiorgi (1820-1910) e di Maria Santina Sozzi (1819-1866), precisamente di Luigi Degiorgi (1848-1925), terzogenito dopo Giovanni (mio bisnonno) e Maria Domenica maritata Piumazzi vissuta poi a Mezzana Bigli.
LUIGI DEGIORGI (1848-1925)
Luigi nasce nel periodo detto “Primavera dei Popoli” ovvero durante i moti del 1848, periodo in cui l’Italia, ancora divisa in tanti piccoli stati, lottava contro i regimi assolutisti di quel periodo. Lo chiamano Pietro Luigi, (è il fratello del mio bisnonno Giovanni) al n.27 degli atti di battesimo della Parrocchia di Pieve del Cairo (si pensi che in quell’anno ci furono 97 battesimi e non fu uno dei più “prolifici”). Pietro perché era uno dei tre nomi del nonno paterno (Pietro Francesco Severino) e Luigi perché era ricorrente nella famiglia, magari a ricordo di uno zio morto piccolissimo nel 1860, fratello della mamma Carolina (se l’atto di battesimo fosse stato in latino avremmo letto “Aloisius” ma era già in italiano). Durante la sua vita, il nome Pietro non lo usò mai e verrà sempre ricordato come Luigi, Bigìn e come lo chiamava mio papà, “sìu Bìgiu” (ne parlava spesso ma l’ha mai conosciuto). Luigi rimarrà sempre a Pieve, non cambierà mai residenza, dalla Contrada dei Mulini (ora via Angeleri) e si sposerà con la pievese Maria Carolina Alessi (Màmä Cärö’, 1853-1942, figlia di Carlo e di Gobbi Teresa) il 7 febbraio 1874 nella Parrocchia di Pieve del Cairo, lui 26enne, lei 21enne. Per conto del parroco Don Giuseppe Gallassi, il matrimonio fu celebrato dal Curato Coadiutore Quaron. In questo stesso anno, il 1874, nasce il loro primo figlio, il 13 novembre e gli vengono messi i nomi di Giovanni Battista. Padrino lo zio Giovanni Degiorgi (il mio bisnonno) e il 10 settembre 1877 nascerà il loro secondo (ed ultimo) figlio Carlo Degiorgi (conosciuto ai posteri con il nome “Sivirìn”, probabilmente dal nonno paterno, Severino Degiorgi che però lui non conobbe assolutamente perché morì 10 anni prima che lui nacscesse, nel 1867) e per differenziarlo successivamente dall’altro Carlo Degiorgi figlio di Giovanni, fratello di mio nonno Luigi che arrivò fino a noi con il soprannome di “Cärlìn d’la Furnàsä”. Due Carlo quindi, Sivirìn figlio di Luigi e Cärlìn figlio di Giovanni, omonimi e cugini “in seconda” perché erano i loro padri cugini di primo grado. Il nome Carlo ad entrambi può derivare dal fatto che per il primo Carlo (il figlio di Luigi) hanno dato il nome del nonno materno Carlo Alessi (padre di Carolina), mentre per il secondo Carlo (il figlio di Giovanni) hanno dato il nome sempre del nonno materno Carlo Volpini (padre di Ercolina Volpini, mia bisnonna).
La generazione di Luigi sarà quella che collegherà l’Italia all’America, l’Argentina per esattezza. Il primogenito Giovanni Battista sarà il primo pioniere della nostra famiglia ad andare in Argentina nel lontano 1900 e non ritornare più a casa. Partirà dal porto di Genova con la nave “Mendoza” per la volta di quella terra lontana, in quel viaggio interminabile che credo sia durato almeno un mese (se non di più).
Molto probabilmente si sposa prima di partire con la signorina Francesca Gorani (non era di Pieve, pertanto non so dove si siano sposati, per il momento, ma lo scoprirò). Attraverso il portale www.Ancestry.com, sono venuto a conoscenza di 3 atti di battesimo dei suoi figli nella Parrocchia Nuestra Segnora de Balvanera in Buenos Aires, figlio che tra l’altro sono nati nei primi anni del ‘900 e che portano tutti i nomi tradizionali della famiglia. Il primogenito è Juan Bautista nato nel 1905 ed ha lo stesso nome del padre, poi Angela Carolina nata nel 1906 (Carolina era il nome della nonna Carolina Alessi, ancora vivente a Pieve) e Luis Josè nato nel 1909 (Luis, cioè Luigi, era il nome del nonno Luigi Degiorgi, ancora vivente a Pieve). Di Giovanni Battista non conosco la sua data di morte e dei suoi figli non so nulla eccetto i rinvenimenti degli atti di battesimo. Considerando la data della nascita, nessuno di loro è più in vita, sarebbero troppo vecchi. Di Giovanni Battista Degiorgi, classe 1874, al comune di Pieve, non è giunta alcuna comunicazione se non l’annotazione della data di emigrazione del 1900, scritta sul suo atto di nascita. Le ricerche, piuttosto laboriose, sono ancora in corso. Non c’è, purtroppo, la comodità di avere “tutto in casa” come le normali ricerche genealogiche nei luoghi limitrofi.
E Giovanni Battista Degiorgi, primo emigrante in Argentina della famiglia, farà strada per altri discendenti, suo cugino Luigi (mio nonno, äl Ciö, che andò ma poi tornò) e il nipote Luigi che emigrò nel 1930 e rimase là senza tornare più a casa. Ma di loro parlerò dopo.
Purtroppo di chi è andato là, eccetto nonno Luigi, la mia famiglia non ha conservato nulla se non dei racconti orali di mio padre, dei miei zii e dei suoi cugini che hanno conosciuto qualcuno. Sono ricordi vaghi, poco vissuti, sentiti da altri e poi raccontati. Grazie a queste seppur poche informazioni, si ricostruiscono a fatica le vicende famigliari potendo così dare spunto ai ricordi del cuore. Lontani per sempre ma sentiti vicino a noi attraverso i racconti, le storie.
La storia della discendenza di Sìu Bìgiu termina qui, per ora, ma riprenderà nel prossimo post.
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TANTISSIMI ANNI FA … PARTE 12
Il racconto della vita e della discendenza di Sìu Bìgiu prosegue in questo post. Stavo parlando del suo primogenito, Giovanni Battista Degiorgi, classe 1874, emigrato in Argentina nel 1900 del quale ho scoperto, per ora, 3 figli che sono comunque rimasti la e, da quello che so io, non hanno mai riallacciato rapporti con l’Italia. Per un periodo, mi diceva papà, dato che Giovanni Battista aveva un fratello, Carlo (il famigerato “Sivirìn”), è molto probabile che le notizie “fresche” venivano recapitate, con tutte le difficoltà di comunicazione non immediata di quel periodo, arrivavano a lui direttamente e, successivamente alle generazioni dopo di lui.
Papà sapeva qualcosa di quella famiglia lontana ma non così tanto da saper raccontare una storia vera e propria. Calcolando che papà non conobbe affatto Giovanni Battista, il cugino di suo padre, se non per “sentito nominare”, non avrebbe potuto fornirmi informazioni così dettagliate a riguardo. Giovanni Battista era argentino, aveva le sue origini italiane ma ormai in Italia non sarebbe mai più tornato, come diceva il fratello Carlo.
Parlando di Carlo, Sivirìn, papà lo ricordava bene, era nato il 10 settembre 1877 a Pieve, secondo figlio di Luigi Degiorgi e Carolina Alessi, ed era vissuto sempre a Pieve. A contatto con la nostra famiglia. Ha vissuto, ereditando poi la proprietà prima del bisnonno Severino, poi del nonno Felice, poi del padre Luigi, nella contrada dei Mulini, che poi si chiamò Via Antonio Angeleri, fino all’anno della sua morte, il 1954. Carlo si sposa nel 1905 con la signorina Maria Maddalena Lugani (1883-1938, figlia di Giulio, nato a Sorgane-Firenze e di Coggiola Teresa di Castelnovetto). La famiglia della moglie era residente alla cascina Mercurina, sotto Pieve del Cairo. Dal loro matrimonio nasceranno 2 figli: Luigi nel 1906 e Teresina nel 1920. Luigi, una volta cresciuto, avendo probabilmente un po’ di ambizione e coraggio, seguì le orme dello zio Battista e nel 1930 emigrò anche lui in terra d’Argentina. E’ presumibile pertanto che nel 1930, Battista fosse ancora vivente. Un altro Degiorgi emigrato all’estero e un altro ramo della famiglia lontano e, magari, perduto. Difatti, come Battista, Luigi non tornò più in Italia e di lui, attualmente, non conosco nulla di preciso. I contatti con l’Argentina rimasero abbastanza frequenti per diversi anni interrompendosi però nel 1938 quando la madre Maddalena Lugani, moglie di Carlo “Sivirìn” morì. E’ probabile che i rapporti tra Luigi e il padre Carlo non fossero dei migliori, almeno così ricordava papà, come ricordava abbastanza bene Luigi, quando andò via aveva 8 anni. Racconta anche che, una volta stabilitosi in Argentina, mandò a casa, in Italia, un disco 78 giri con la sua voce in cui salutava tutta la sua famiglia, i suoi cugini, i suoi zii e ancora la nonna Carolina (che morirà nel 1942). Papà diceva che questo disco era in possesso alla famiglia Lugani, la famiglia della madre ma di questa famiglia non c’è più nessuno e ogni ricordo di questo ramo famigliare è svanito con essa. Di Luigi c’è solo l’annotazione della sua partenza, di fianco al suo atto di nascita (“emigrato in Argentina nel 1930”). Il 24 dicembre 1930, Luigi parte per l’Argentina, si imbarca sulla Mendoza, come suo zio 30 anni prima, dal porto di Genova. Dalle liste d’imbarco del CEMLA (Centro de Estudios Migratorios Latinoamericanos) ha 24 anni, paese di provenienza Pavia, professione jornalero (lavoratore a giornata). Luigi, classe 1906, sicuramente deceduto (avrebbe oggi 115 anni) lascia l’Italia per cercare fortuna. Se fosse tornato a casa sarebbe stato, magari, soprannominato “ciäcärè” ma non tornò più a Pieve. Non era andato nel Chaco ma chiunque fosse emigrato in Argentina, a quel tempo, veniva soprannominato in questo modo (ciäcärè, da Chaco, regione estesa ed agricola dell’Argentina). E quanti a Pieve erano chiamati così. Luigi aveva anche una sorella più piccola, l’unica che avrebbe potuto sapere qualcosa di più, Teresina, nata nel 1920 ma scomparsa prematuramente nel 1946, all’età di 26 anni per una peritonite. Papà conobbe Teresina, probabilmente gli aveva anche raccontato qualcosa ma a me non è giunto nulla e, purtroppo, a papà non posso più chiedere nulla.
Teresina, classe 1920, a pieve, negli anni prima della guerra, formava un trio di amiche inseparabili, tutte nate nel 1920, coetanee e compaesane composte da lei, Teresina, Lina Degiorgi (cugina di mio papà) e Rosa Degiorgi (mamma dell’amico Mario Angeleri). Erano “le tre Degiorgi”, tre giovani ragazze con tante belle speranze per il futuro. Due di loro, Rosa e Lina morirono anziane, Teresina purtroppo no. Una pagina della famiglia Degiorgi troncata, fermata dal tempo, dal destino, dalla distanza, da tante cose.
E il padre, Carlo Degiorgi (Sivirìn), una volta morta la moglie Maddalena Lugani nel 1938, si risposerà nel 1947, rimasto solo dopo la morte della figlia, con la signora Maria Giuseppina Cei (1890-1967) nativa di Gallia, per passare la sua vecchiaia in compagnia. Lui morirà nel 1954 all’età di 77 anni, lei alla stessa età ma nel 1967.
E’ stato l’unico ramo della famiglia Degiorgi ad andare in Argentina, di altri rami, nessuno è emigrato ma nella generazione di Luigi Degiorgi e Carolina Alessi ci sono stati questi due spunti, quello del figlio Giovanni Battista nel 1900 e quello del nipote Luigi nel 1930.
Dove saranno oggi questi Degiorgi? Non lo so. I ricordi passati non ci sono più, i racconti di papà, dei suoi cugini, non possono più avere voce, purtroppo.
E la storia di quell’uomo “pio e laborioso, padre esemplare” di Sìu Bìgiu (come è scritto sulla sua lapide) si placa nel 1925, con la sua morte, a 77 anni. La moglie Carolina morirà nel 1942 ad 89 anni, durante la seconda guerra mondiale.
Il loro ricordo vive in me, in chi li ha conosciuti e in quelle due generazioni in Argentina, lontane dagli occhi ma, sicuramente, vicine al nostro cuore.

TANTISSIMI ANNI FA … PARTE 13
Vorrei parlare della storia di Felice Degiorgi. Il lettore attento direbbe: “Ancora? Hai già trattato l’argomento in diversi post, vuoi ancora parlare di lui? Basta per favore!!!”.
Nonostante il mio trisavolo, vissuto 90 anni, meriti una cronaca “massiccia” questa volta non è di lui che voglio parlare da del suo omonimo pronipote, chiamato come lui, Felice Degiorgi, classe 1903, l’unico di tutta la linea generazionale di papà e di tutti i suoi cugini, ad averlo conosciuto perché, alla morte del bisnonno, Felice aveva 7 anni.
Saranno stati dei ricordi di un bambino ma sicuramente avrebbe potuto raccontare, di lui, fatti concreti e vissuti insieme a lui. La differenza fra i due, a parte lo sbalzo generazionale di circa 80 anni, era nel secondo nome. Felice Fortunato era il mio trisavolo (e il nome gli ha portato bene) e Felice Anselmo era il suo pronipote, cugino di mio papà (non ha avuto la stessa fortuna).
Felice Anselmo nasce a Pieve del Cairo il 13 maggio 1903 alle 3 del pomeriggio da Secondo Degiorgi (1875-1967, sìu Sicònd) e da Amalia Veniale (1881-1947, sìä Màliä la Fräulònä) e viene battezzato 4 giorni dopo, il 17 maggio dal curato coadiutore Don Francesco Cei per conto del parroco Don Gerolamo Avanza. Padrino è Anselmo Veniale, il fratello della madre e madrina è Degiorgi Maria, la sorella del padre.
La famiglia di Felice, nel 1907, si trasferisce nella grande città, Milano, dove nascerà, in questo stesso anno, il 13 agosto, Gisella Celestina Degiorgi (1907-2003). La famiglia rimarrà a Milano, a Pieve tornerà regolarmente a trovare i nonni, gli zii e i cugini ma, di fatto, saranno per tutta la loro vita milanesi a tutti gli effetti. La generazione di Secondo Degiorgi sarà poi concentrata, dove la troviamo ancora oggi, un po’ nel grande centro cittadino, un po’ nell’hinterland. Sarà sempre, per noi e per papà, quel ramo benestante della famiglia dovuto al matrimonio di Gisella con il Cavalier Alfonso Masciadri nel 1936, proprietario di un importante stabilimenti di vernici e pitture (Ditta Fratelli Masciadri, fondata nel 1933 dalla famiglia).
Tornando a Felice, purtroppo, le cronache che si hanno su di lui sono molto scarse in quanto sarà uno dei Degiorgi a non vivere a lungo. Per circostanze non molto chiare, morirà il 12 ottobre 1924, durante il servizio militare, all’età di soli 21 anni. Dietro una cartolina con la sua foto, unica testimonianza che mi rimane di lui, le parole indirizzate alla famiglia a Pieve, scritte e firmate dai genitori e dalla sorella: “una giovane vita che avrebbe meritato miglior destino”. Un vero peccato, per lui, per la famiglia, per tutti perché sarebbe stato un prezioso testimone di un passato che nessuno della generazione di papà ricordava e lui nascendo nel 1903, avrebbe raccontato fatti che soltanto con i suoi occhi di bambino ha visto e vissuto.
I suoi resti mortali, come tutti quelli della sua famiglia, di papà Secondo, di mamma Amalia, della sorella Gisella e del marito, riposa nel grande Cimitero Monumentale di Milano.
Soltanto Gisella, la sorella ultranovantenne morta nel 2003 a 96 anni, che io ho avuto il piacere di conoscere, parlava di lui lucidamente e lo ricordava nell’età della sua giovinezza, come il fratello “bellissimo, generoso e tanto buono” ancora con le lacrime agli occhi dopo così tanti anni.

TANTISSIMI ANNI FA (parte 14)
Rispetto a Felice Degiorgi sono passate 2 generazioni e i fatti che andrò a trattare non saranno così “attempati” come quelli precedenti, anche se vado indietro di un bel po’.
Risalendo le generazioni una per una trovo mio nonno Luigi Degiorgi (nònu Ciö), figlio di quel Giovanni Degiorgi (1843-1924), mio bisnonno e nipote del Felice Degiorgi (1820-1910), il mio trisavolo (quello di cui ho largamente parlato nei precedenti post).
Quest’uomo vissuto a cavallo tra ‘800 e il ‘900, non l’ho conosciuto e non ho alcun ricordo di lui se non alcune foto, i racconti di papà e le ricerche che ho fatto. Il suo personaggio rimane vivo in me solo attraverso queste testimonianze. Quinto degli otto figli di Giovanni Degiorgi (1843-1924) ed Ercolina Volpini (1850-1936), Luigi nasce a Pieve del Cairo il 1° marzo 1878 alle 10 del mattino. In questo stesso anno muore Vittorio Emanuele II e succede al trono Umberto I, muore Papa Pio IX dopo 32 anni di pontificato e gli succede Leone XIII. Viene battezzato il giorno dopo, il 2 marzo dal Curato Don Carlo Grossi per conto del parroco Don Giuseppe Galassi. Nell’atto di battesimo non c’è nessun padrino, solo la madrina Ubertis Carolina (di Giuseppe). Un giorno di festa quello del battesimo di Luigi, in casa ci sono i genitori, i suoi due fratelli Pietro di 10 anni, Secondo di 3 anni. Eccetto nonna Santina, morta nel ’66, ci sono ancora gli altri 3 nonni, il nonno paterno Felice Degiorgi (1820-1920) e i nonni materni Carlo Volpini (1824-1887) e Giuseppa Lodola (1826-1890). Saranno sicuramente intervenuti anche lo zio Luigi Degiorgi (1848-1925) con la zia Carolina Alessi (1853-1943) con i piccoli Giovanni Battista di 4 anni e Carlo di 1 anno.
Non ne sono certo ma mi piace pensare che, anche di fronte ad una famiglia di certo non benestante, si sia potuto fare un momento di aggregazione magari “sutä lä tòpia” a ridere, scherzare e a parlare del futuro, quel futuro incerto per quei tempi ma molto più carico di valori umani rispetto ad oggi.
Luigi vive in una famiglia di contadini e, mentre gioca, cresce, va a scuola e impara, diventa grande e conoscerà una bellissima fanciulla dai capelli neri, una bellezza d’altri tempi, mia nonna Teresa, nativa di Ottobiano (1890-1976). Il secolo passa, arriviamo nei primi anni del ‘900 e Luigi è attirato da un ideale, da un progetto che tantissima gente aveva a quel tempo dove le ore di lavoro erano tantissime ed i salari erano bassissimi: andare all’estero, emigrare per fare un po’ di soldi e tornare con qualcosa in più per vivere meglio. Nonno Luigi, probabilmente convinto dal cugino Giovanni Battista, va e torna dall’Argentina per ben due volte. Papà non ricordava nulla di questi fatti, non era ancora nato e mio nonno parlava poco di quel periodo (avrà fatto sicuramente dei sacrifici enormi). Era il 1906, aveva 28 anni e partì per l’Argentina con una solenne promessa: sposare, al ritorno, quella bellissima ragazzina di 16 anni che era la nonna. Avevano 12 anni di differenza ma la nonna, da quello che diceva lui, sembrava più grande di quella che effettivamente era.
In Argentina si fermò 1 anno e tornò sul finire del 1907, proprio per sposare la nonna l’anno dopo, il 1908. Lui 30enne, un giovane uomo già maturo, lei una giovanissima adolescente di 18 anni desiderosa di coronare il suo sogno.
Infatti, il 10 agosto 1908, nonno Luigi sposa nonna Teresa, al secolo Gatti Maria Teresa (nonä Tirisìn) , nata ad Ottobiano il 17 Luglio 1890, figlia di Andrea Gatti (1851-1910) e di Maria Gatti (1854-1943). Entrambi Gatti di cognome ma rami diversi di famiglie distinte, il primo da Valle Lomellina, il secondo da Lomello.
Dal loro matrimonio nasceranno 3 figli tra i quali, il primogenito sarà Giovanni, il 23 maggio 1909 (sìu Giuanìn). Nonno Luigi ha ancora bisogno di soldi, quelli che ha guadagnato in un anno fuori casa (1000 lire) non bastano. Ritorna in Argentina per un altro anno tra il 1910 e il 1911. Quando torna ha 2000 Lire e si compra la casa. E’ del 5 febbraio 1911 infatti il Rogito Carlo Curti, notaio in Lomello, del passaggio di proprietà da Panizzardi Giovanni e Chiocca Caterina a Degiorgi Luigi in cui compra per la somma di L. 1200 l’abitazione ed il terreno ad uso orto. L’anno dopo, l’8 agosto 1912, con una scrittura privata, compra un piccolo fabbricato in pietra per 100 Lire ad uso “latrina”, indispensabile per poter espletare i bisogni fisiologici nella massima igiene e sicurezza (“unä voltä ällä fàvän no in cà mè ädès”). Tale “istrumento” è in comune con gli Eredi Sempi, proprietari della parte confinante a quella di nonno Luigi.
Luigi, con le sue 2000 Lire guadagnate con fatica e sudore, acquista quindi casa, l’orto, la latrina e ne avanza ancora. Le altre 700 Lire le terrà per se, per la famiglia e come un buon “bagaglio” di sicurezza per un bel po’ di anni consentendo anche una ulteriore crescita famigliare con l’arrivo di altri 2 figlio negli anni successivi.
E il nonno raccontava a papà questo fatto: “in dü àn ö guädägnà dümilä lìr, se ä stavä là äncurä un an, purtavä ä ca quatär milä lir e pudìvä crumpà äncä lä cùrt e’l pòrti” (in due anni ho guadagnato duemila lire, se stavo là un anno in più ne portavo a casa quattro mila e potevo comprare anche il cortile ed il portico)
Ma lui voleva tornare perché la nonna era a casa da sola con Giovanni, ed avevano bisogno, entrambi, lei di un marito vicino e il piccolo Giovanni di un padre presente
… e la storia continua ...

TANTISSIMI ANNI FA ... PARTE 15
Nonno Luigi Degiorgi è a casa, nella sua Pieve, e non si sposterà più. L’Argentina rimarrà un ricordo, un faticoso momento della sua vita ma anche il risultato per un futuro migliore. E arriva il 1913, anno in cui nasce un altro figlio, stavolta una bambina, Maria Degiorgi (1913-2004, sìa Marijn), 4 anni dopo Giovanni.
Gli anni difficili, si alternano ad anni di gioia, i momenti difficili e quelli di gioia si alternano, come un’altalena che va su e giù lasciando ricordi belli e ricordi tristi.
Se la nascita di Maria è un lieto evento, arriva presto un altro triste e duro momento nella vita di Luigi e della sua famiglia, la Prima Guerra Mondiale (1915-1918) e Luigi, all’età di 37 anni, viene richiamato alle armi e costretto a partire per tre lunghi anni. La vita della famiglia Degiorgi si ferma, i bambini sono piccoli e per nonna Teresa, pur rimanendo una bellissima donna dai capelli neri e raccolti, passano gli anni tristi della guerra in totale solitudine, lei con i suoi due bambini di 8 e 4 anni. Papà non è ancora presente nella vita del nonno, nascerà qualche anno dopo. E’ ancora presto!
Intanto sopraggiunge un brutto momento, non solo per nonno Luigi e per la sua famiglia ma per la storia in generale. A Sarajevo, il 28 giugno 1914, l'Arciduca Francesco Ferdinando e la moglie Sofia vengono uccisi da un attentatore serbo. Questo avvenimento sarà la goccia che farà traboccare un vaso già colmo di problemi, di scontri, di tumulti e scoppierà la Prima Guerra Mondiale (1915-1918). E il nonno purtroppo dovrà assaporare l’amaro calice della chiamata alle armi e la lontananza da casa per 3 lunghi anni. Ma gli andò piuttosto bene rispetto ad altri.
Il nonno, durante la guerra, lavorerà nella ferrovia come addetto ai rifornimenti militari. Avendo già quasi 40 anni, non lo hanno “sbattuto” in prima linea a combattere come i poveri e sventurati ragazzini, pieni di incoscienza e paure, tanti dai quali non diventeranno mai grandi.
E la guerra passa, lasciando dolori e perdite a tante famiglie. Nonno Luigi è stato fortunato, è tornato a casa ricominciando di nuovo la sua vita lavorativa e famigliare. E nel 1922, all’età di 44 anni diventa padre per la terza volta: infatti il 6 settembre 1922 nasce Adriano, mio papà (chiamato Adriano Pietro) di cui parlerò in modo più approfondito nella prossime pagine.
Nonno Luigi, sicuramente, se non ci fossero stati gli anni dell’emigrazione in Argentina per 2 volte, gli anni della guerra che lo portarono lontano da casa, avrebbe avuto sicuramente qualche figlio in più. Da Giovanni a Maria ci sono 4 anni, gli anni in cui tra il 1909 e il 1913 andò di nuovo in Argentina. E tra Maria e Adriano ci sono addirittura 9 anni, tra il 1913 e il 1922, gli anni del primo conflitto mondiale che destabilizzò non poco tutta l’umanità e sicuramente anche la sua vita.
Oltre al contadino, nonno Luigi ha fatto anche lo spazzino, in età più avanzata, lavorava per il Comune, teneva pulite le strade ma non con i mezzi che abbiamo adesso ma con la scopa di saggina, la cosidetta “rämàsä” in dialetto pievese. Fino a non molti anni fa, quando alcuni anziani erano ancora in vita e potevano raccontare le cose che avevano vissuto mi dicevano: “quänd ä ghèra äl mond to nonu Ciö, al päis l’erä pulid. Ades, cun i mächinari muderän l’è pü me primä”.
Una dimostrazione molto bella, ancora a distanza di tanti anni. Oggi si chiamano “operatori ecologici” (un parolone) ma all’epoca erano semplicemente gli “späsìn”.
Lavoro utile quanto indispensabile, come tutti i lavori che una persona svolge.
E mentre nonno Luigi invecchiava, i figli diventavano grandi: Giovanni (sìu Giuänìn) si sposa nel 1934 con Anna Francesca Albertina De Paoli (classe 1914, figlia di Giuseppe e di Marchesi Beatrice) nella parrocchia di Cervesina e andrà poi ad abitare a Valenza, Maria (sia Märijn) si sposa nel 1933 con Pietro Arturo Borghini (sìu Bälòs, classe 1906, figlio di Luigi e di Protti Carolina) ma rimane a Pieve, papà si sposerà molto più avanti e il nonno non lo vedrà sistemarsi come magari avrebbe voluto (l’importante è che si sia sposato, altrimenti io non starei qui a scrivere).
Papà mi raccontava sempre l’ultimo ricordo che aveva del nonno; la sera della sua morte, l’ultimo giorno dell’anno, il 31 dicembre 1965, volle improvvisamente un sigaro (lä sigàlä), gli venne voglia di “tirare” un’ultima boccata: fu proprio l’ultima perché pochi minuti dopo, era il tardo pomeriggio, nonno Luigi spirò dolcemente. Mio papà mi diceva sempre: “il nonno è morto sano, si è spento piano piano come una candela che finisce di bruciare”
TANTISSIMI ANNI FA ... PARTE 16
La storia continua, il tempo passa inesorabile ed i personaggi che vado a trattare sono quelli cari al mio cuore. Parlerò di una persona che ho fatto appena in tempo a conoscere: mia nonna Tirisìn (al secolo Maria Teresa Gatti), ovvero la mamma di mio papà Adriano (äl Dègo) e moglie di Degiorgi Luigi (1878-1965, nònu Ciö, trattato nei 2 post precedenti a questo). Teresa Gatti è la terzogenita dei tre figli di Andrea Gatti (1851-1910) e di Maria Gatti (1854-1943). Mio papà diceva simpaticamente: “I mè nònu ièrän dü Gàt” e aveva ragione, infatti entrambi portavano lo stesso cognome. La famiglia chiaramente non era la stessa. Erano Gatti differenti, la famiglia del mio bisnonno arrivava da Valle Lomellina, Semiana, Sartirana mentre quella della mia bisnonna da Lomello, Scaldasole e Sannazzaro. Non ho ancora oggi elementi sufficienti per poter dare una giusta collocazione a queste persone perché, purtroppo, fanno parte di quella categoria di individui che ogni anno cambiavano casa, paese, destinazione e, quando si è di fronte a questo tipo di problema, diventa difficoltoso risalire alle notizie e a creare un quadro genealogico chiaro. Nonostante questo sono riuscito, a fatica, a ricostruire qualche generazione. Sto lavorando perché questa lacuna venga colmata al più presto. Gatti a parte (non in senso felino ma famigliare), proseguo a parlare della mia nonna Teresa.
Quella della nonna è una famiglia come tante, con riscontri comuni a molte altre famiglie dell’epoca in Lomellina. Contadini, lavoratori instancabili, persone “rette” e “giuste”, animi sinceri e volenterosi. Una volta si doveva lavorare per vivere ma bastava poco per essere felici. Non esisteva il superfluo e non lo si andava nemmeno a cercare perché, lo diceva la parola stessa, era superfluo e, in quanto tale, non serviva. La concretezza era alla base della vita, nient’altro che quello.
Nonna Teresa nasce il 17 luglio del 1890. E’ in questo anno che Oscar Wilde pubblica “Il ritratto di Dorian Gray”, l’anno in cui in Europa si celebra la prima festa dei lavoratori, l’anno in cui muore Vincent Van Gogh, l’anno in cui nascono Agatha Christie e Carlo Collodi (il padre di Pinocchio). In questo stesso anno, l'enciclica Sapientiae christianae di Papa Leone XIII invita i cattolici a vivere secondo la morale cristiana sia nella vita privata sia nella vita sociale e a non osservare le leggi dello Stato se non corrispondono all'insegnamento della Chiesa.
Parallelamente a questi fatti più autorevoli, ad Ottobiano, un piccolo paese lomellino non molto distante da Pieve del Cairo, nasce mia nonna. Viene battezzata 2 giorni dopo la nascita, il 19 luglio, nella chiesa parrocchiale di San Michele Arcangelo dal parroco di allora, Don Giuseppe Colli. Il padre (il mio bisnonno) è Andrea Gatti (figlio di Pietro e della fu Maria Berta o Berti), nativo di Torreberetti e la madre è Maria Gatti (mamä Mäjìn, la mia bisnonna, figlia del fu Giovanni Battista e di Francesca Tardani) nativa di Lomello.
Prende i nomi di Maria Teresa, il nome della sua nonna paterna (che non ha conosciuto perché nel 1890 risulta già deceduta) e il nome Teresa della madrina Casè Teresa (del vivo Siro).
La nonna, fin da bambina, andava già a lavorare in campagna e come raccontava lei a papà: “quäntä ùr päsà insimä äd un cärät dä ca nòsä ä lä cämpàgnä, tüti i dì l’istësä strà”. Il lavoro, anche per i più piccoli, era una “forza maggiore” e lo studio veniva lasciato un po’ in secondo piano. A quel tempo (dopo la Legge Coppino del 1877) l’obbligo scolastico era solo per la classe elementare fino ad almeno 3 anni di frequenza. Le scuole erano presenti nei comuni, anche piccoli, e i bambini erano tenuti ad andare a scuola almeno per quel periodo considerato obbligatorio. E’ certo che le famiglie come quella di mia nonna non erano in grado di seguire i loro figli nel loro breve ciclo di studio quindi le cose si imparavano in “una quéi mänèrä”. Sta di fatto che mia nonna, in molti documenti che la riguardano trovo scritto: “firma con segno di croce perché si dichiara illetterata” quindi non sapeva scrivere e probabilmente nemmeno leggere.
Tanti bambini, purtroppo, a quel tempo, pur avendo attitudini allo studio, non sempre potevano studiare. Il tasso di analfabetismo, maggiore nei decenni precedenti, all’inizio del ‘900 era ancora piuttosto elevato ma andava, seppur lentamente, scendendo.
La nonna Teresa aiutava in casa, lavorava la terra, dalla mattina alla sera e gli piaceva molto cucire e ricamare perché, come diceva lei: “Am l’hà mustrà mé màmä täntä temp fa, quänd sèrä giùnä”.
E la storia della nonna incontra le vicende della vita quotidiana, i fatti comuni di ogni giorno. Da Ottobiano la famiglia della nonna si trasferisce alla Riccagioia (sotto Pieve del Cairo), quando era una ragazzina, nei primi anni del ‘900. Qui conoscerà il suo futuro marito, Degiorgi Luigi, mio nonno e all’età di 18 anni, nel 1908, esattamente il 10 agosto si sposerà nella Chiesa Parrocchiale di Pieve. Di solito il matrimonio veniva celebrato nel paese natale della sposa quindi si sarebbe dovuto svolgere ad Ottobiano ma ho ragione di credere che tutta la famiglia era già emigrata in altri luoghi e quindi non avevano più legami con Ottobiano per ritornare. La famiglia Gatti, facendo le ricerche la scopro molto girovaga (ierän pròpi di girundlòn) per necessità, per lavoro, ovviamente, non certo per futili motivi o perché avevano soldi “dä trà vìä” (da buttare).
Qui il racconto si fa lungo quindi mi fermo e do appuntamento ai lettori nel prossimo post … continua …
TANTISSIMI ANNI FA ... PARTE 17
Stavo parlando di nonna Teresa Gatti, ora proseguo.
La nonna fa parte di una famiglia di tre figli, pochi per l'epoca, se vogliamo dirlo. Lei è l'ultima nata, i primi due sono Giovanni nato nel 1882 e Francesco nato nel 1884, sempre nati ad Ottobiano, come la nonna.
Dei due fratelli , Giovanni si stabilità con la famiglia Pellegrina di sotto, poi a Galliavola e poi alla Riccagioia (di Pieve del Cairo), un gruppetto di case ancora oggi presenti sulla strada che conduce a Sannazzaro.
Francesco invece sarà uno di quelli emigranti in terra d’Argentina. La nonna, che papà si ricordava, non ha mai parlato in modo approfondito di Francesco e le notizie che ho su di lui sono scarse se non addirittura inesistenti. L'unica testimonianza che ho di Francesco è una lettera del 1908 scritta al cognato Luigi (mio nonno) che chiede notizie sulla sua famiglia in Italia e al termine della letteratura quella brutta parola “Addio”, una certezza, un presagio di “non ritorno”. Così è stato: Francesco non tornò più in Italia. Sappiamo che si sposò ed ebbe dei figli ma di loro non sappiamo proprio nulla. Ho due foto di lui, la prima da solo, vestito con abbigliamento da gaucho argentino e la seconda è insieme alla moglie, una foto importante, probabilmente il giorno delle sue nozze, entrambi vestiti i scuro, molto eleganti.
La nonna raccontava sempre con tanta nostalgia di questo fratello che non ha più potuto riabbracciare. La lettera che ho citato è datata 1908 pertanto, quando la nonna si è sposata, il fratello non era già più in Italia.
Nonno Luigi scrive il 23 novembre 1908 una lettera a suo cognato Francesco Gatti per mandargli a dire che il fratello Giovanni si vuole dividere dalla moglie e che in Italia le cose non vanno così bene.
Lui era appena tornato dall’Argentina con un po’ di soldi ma non gli bastavano. Lui, Francesco, risponde in questa lettera che se suo fratello di vuole dividersi che lo faccia pure e che i genitori non dovranno interferire nelle sue decisioni. Scrive anche a mio nonno che se è per i soldi non c’è problema perché a breve lui ne avrà in quantità sufficiente per mandarli in Italia ed aiutarli. Nella sua lettera dice “voglia di tornare non ne tengo, per ora”. Ma quel “per ora” durerà “per sempre” e quell’addio scritto sarà la pura verità cioè quella che non tornerà più a casa.
Le cose poi andranno diversamente per il fratello Giovanni in quanto non se ne andrà, rimarrà con la moglie ed avranno 3 figli, Pietro Gatti (1913-2007), Rosetta e Primina Gatti (gemelle nate nel 1920, la prima morta in Argentina alla fine degli anni ’90 e la seconda morta nel 1962 a 42 anni).
E la nonna Teresa continua la sua vita con Luigi. Non voglio riparlare dei fatti che ho già trattato per nonno Luigi perché sarebbero gli stessi della nonna, ovviamente.
Siamo nel 1910 e al Policlinico San Matteo di Pavia morirà il padre Andrea Gatti, a 59 anni. E’ il 24 dicembre, la vigilia di Natale e come dice la nota dell’atto di morte, il mio bisnonno muore per una setticemia prodotta da una cistopielite (infezione urinaria). Oggi sarebbe stata più facilmente curabile ma oltre 100 anni fa no, a giudicare dal funesto evento.
Nonna ricordava a papà della perdita di suo padre avvenuta quando lei aveva 20 anni, lo perse presto e ricordava un'altra triste situazione dicendo queste parole: “Ag vurivä tròp sòld pär purtàl ä ca dä Päviä che all’umä näncä püdù purtà ä ca”. Andrea Gatti purtroppo non trovò riposo nella sua terra natia ma fu seppellitto probabilmente in un campo comune del cimitero di Pavia. E nonna, con tanto rammarico, parlava sempre di questo episodio con dolore, rabbia, rassegnazione e tanta tristezza, ancora a distanza di tanti anni dal fatto.
I fatti tristi della guerra portano nonno Luigi lontano da casa, per i tre anni del conflitto. Intanto erano nati Giovanni e Maria e all’appello mancava solo papà che sarebbe arrivato non prima del 1922.
E nel 1933 si sposerà Maria, sia Marijn, alle 5.30 del mattino perché poi avevano la “corriera” che li avrebbe condotti in Garfagnana, dove abitava la sorella del marito Pietro Arturo Borghini per una sorta di “viaggio di nozze”. Sia Marijn raccontava sempre un fatto divertente: nell’anno in cui doveva sposarsi, il 1933 appunto, andò in chiesa per informare Prevosto Avanza e l’allora curato Don Battista Cordara (al Curaton) che non la prese molto suo serio. Infatti quando la zia disse al curato “Siur curat, a ma spusi”, lui le rispose “Mangia di michin che l’è mei”.
Poi il matrimonio ebbe luogo, al di là della simpatica battura di Don Battista che la vide così giovane, 20 anni, che gli venne proprio naturale assecondarla in questa affermazione.
E nel 1934 l’anno dopo, la nonna e il nonno videro sposarsi anche Giovanni, il primogenito, a Cervesina con la signorina Anna De Paoli.
La nonna e il nonno rimasero soli con quel ragazzino nato nel 1922, il mio papà. Papà raccontava un episodio simpaticissimo riguardante la sorella Maria che era in Toscana e ci rimase per un bel po’. Quando prendevano il treno per andarla a trovare, lui la nonna e il nonno, papà, seduto sulla sua poltrona spingeva i piedi in avanti per far andare più forte il treno. Veniva ripreso dalla nonna ma lui le diceva: “se ä ponti i pè, äl treno äl va püsè fort e ä rivi prima dä lä me Lèlä” (era il nome con cui papà chiamava sua sorella). E la nonna ricordava un altro episodio singolare. Quando erano tutti in casa e papà era piccolino, la zia Maria era già una ragazzina e toccava a lei dar da mangiare a mio papà. La nonna fece un tortino che sarebbe stato il pranzo per il piccolo Adriano. La zia lo mise sul divano ma in quel momento venne il vicino di casa, Sandro Chiocca, amico e coetaneo della zia (1913) a giocare e si sedette, non vedendolo, sopra il tortino.
La nonna si arrabbiò molto e sgridò la zia Maria perché non era stata attenta. E preoccupata perché il piccolo non avrebbe potuto mangiare, la zia staccò dai pantaloni di Sandro quel tortino e lo fece mangiare a papà. Lui era piccolo e non si accorse dell’incidente e mangiò tutto. Ovviamente, una volta, o mangiavi quello che c’era o non mangiavi (“o at mängiavä lä mnésträ o ät saltavä la fnésträ”).
La nonna e il nonno vissero ancora tanti anni, felici, papà non aveva nessuna intenzione di “accasarsi” e sistemarsi. Nel 1965 morirà il nonno (come avevo già trattato). La nonna invecchiava, rimanendo sempre una gran bella donna. Poi papà nel 1970 si sposò finalmente, nacqui io l’anno dopo (menomale) e la fine dei giorni della nonna lo vedremo nel 1976, un anno molto infausto per papà e per la nostra famiglia.
Nonna Teresa morirà il 7 novembre 1976. La ricordo bene, avevo 5 anni ma il ricordo che ho di lei è molto chiaro. Papà non fece in tempo a riprendersi che la sera stessa che la nonna spirò, telefonarono da Valenza che il fratello Giovanni (siu Giuanin) stava molto male: infatti 2 giorni dopo, il 9 novembre moriva anche lui lasciando nello sconforto l’intera famiglia.
Due lutti in 2 giorni, un anno terribile per papà il 1976.
Ma la vita sarebbe continuata, nel nitido e vivo ricordo che la dolcissima nonna aveva lasciato in tutti noi.
… la storia non si ferma e continua…
TANTISSIMI ANNI FA … PARTE 18
Non cambio il titolo alla rubrica, anche se parlerò di fatti e persone molto più recenti. Lo lascio così perché parlerò, più avanti, di fatti molto molto più vecchi di quelli di cui ho parlato finora.
Faccio contenta mia cugina Luigina che, ogni mattina, impaziente, controlla i miei post per leggerli e commuoversi un po’ (Luigina, tenä dür).
In questo caso la persona che vado a trattare è per me un gigante (non tanto di statura quanto di levatura morale), una colonna, una roccia, una quercia, un perno molto molto solido e una delle persone più straordinarie che abbia mai avuto la fortuna di conoscere: il mio papà.
Si, proprio lui, Adriano Degiorgi, “äl Dègo” per i pievesi, per i suoi amici, per tutti. Lo chiamavano anche “äl pitùr” perché di professione ha fatto, per almeno 40 anni, l’imbianchino, il tappezziere, il decoratore. Ha fatto anche altri lavori prima ma vorrei arrivarci passo per passo.
E’ superfluo dire che sono felicissimo di poter parlare di lui e anche se papà non è più con me da quasi 13 anni, non mi rattrista affatto pensarlo, anzi, mi rallegra e mi rende sempre più orgoglioso di lui.
L’avventura di questa “indimenticabile” persona inizia il 6 settembre 1922 alle 10 pomeridiane (le 22), quando viene al mondo da Teresa Gatti (nònä Tirisìn) e da Luigi Degiorgi (nònu Ciö).
E’ il terzogenito della famiglia, prima erano nati Giovanni (siu Giuanìn) nel 1909 e Maria (sia Marijn) nel 1913, lui arriva nel 1922, dopo i duri anni della prima guerra mondiale che hanno visto il nonno allontanarsi da casa per 3 anni, anni in cui la vita quotidiana di ogni persona si era fermata per far spazio agli avvenimenti storici che, solo Dio sa, quanti morti hanno lasciato in uno scenario Europeo e Mondiale.
Papà nasce a Pieve del Cairo, nella casa di Via Benzo Benzoni allora al n. 19 (oggi è il 60) già “Contrada Ramponata” prima di avere questo nome.
Nonno Luigi ha già 44 anni mentre la nonna ne ha 32. Ci sono già due figli di 13 e 9 anni e lui arriva in una calda giornata pre-autunnale. Casa Degiorgi sentirà di nuovo i vagiti di un neonato dopo diversi anni.
Viene battezzato l’11 Settembre nella Parrocchia B.V. della Consolazione dal curato Don Nicola Ansaldi per conto del Prevosto Gerolamo Avanza e gli vengono dati i nomi di Adriano Pietro. Pietro è un nome che nella famiglia Degiorgi è comunissimo, quasi in ogni linea generazionale se ne trova uno ma Adriano è un nome che non è mai stato attribuito a nessuno fino ad ora. Papà non mi ha mai detto perché fosse stato chiamato così. Padrino e madrina furono Alessi Ambrogio (di Giovanni) e Tosini Pierina (di Pietro), entrambi pievesi e residenti a Pieve.
In questo stesso anno, mentre papà “strillava come un forsennato” (come tutti i bambini), poco più di un mese dopo, ebbe luogo la “Marcia su Roma”, manifestazione armata organizzata dal Partito Nazionale Fascista: 50.000 camice nere si diressero sulla capitale rivendicando dal sovrano la guida politica del Regno d’Italia. Si concluse con la nascita del governo Mussolini… ma la storia la sappiamo…
Ritorno a parlare di papà: frequenta l’asilo tra il ’25 e il ’28 e poi va a scuola frequentandola con buoni risultati fino alla quinta elementare che finirà nel 1933. La sua insegnante era la Maestra Bice Penacchi (classe 1908, era una giovanissima ragazza che aveva appena iniziato ad insegnare) “lä Bìce” o “signorina Bìce” perché non si sposò mai.
Conservo ancora la sua cartella di scuola di vellutino marrone con le bretelline e la maniglia (non certo uno zaino dell’Invicta come oggi) con tutti i suoi quaderni di italiano, storia, grammatica, matematica. Quaderni dalle copertine a tinta unita, marroni, neri, blu. Dentro c’è ancora un portamatite di legno con dentro la gomma, il coltellino per fare la punta alla matita, la matita bicolore (blu e rossa) e una matita copiativa di colore nero (quella di cui le tracce non si potevano cancellare). Dentro anche un penna con pennino ancora bello. Insieme ai quaderni, un contenitore con dei fogli bianchi, ancora da usare e 2 strati di carta assorbente per l’inchiostro.
Papà, termina la scuola ed ha il suo “pezzo di carta”, un diploma elementare che non tutti, negli anni prima di lui, riuscivano ad ottenere. Era il pieno “ventennio fascista” dove nasceva la ONB (Opera Nazionale Balilla) per l'assistenza e per l'educazione fisica e morale della gioventù, suddivisa per età e per sesso in vari corpi. Papà fu “figlio della lupa” (tra i 6 e gli 8 anni) e poi “Balilla” dagli 8 anni fino a quando finì la scuola. So da lui che non frequentò avanguardisti o altri gruppi giovanili. Spesso, in quel periodo, i ragazzi erano attirati da questi ideali “obbligatori” che come diceva lui: “ä ti mätìvän in téstä sensä näncä ciämàt äl pärmés”.
Erano gli anni intorno al 1935-36 e papà, giovane adolescente, entrava nel magico mondo del lavoro.
E la sua storia continua …
TANTISSIMI ANNI FA … PARTE 19
Stavo parlando di papà e sono arrivato agli anni 35-36 che sono stati quelli in cui ha iniziato a lavorare. E di lavori ne ha fatti diversi prima di diventare quello per cui sarà sempre conosciuto: l’imbianchino. Prima ha fatto il “mistrìn” (cioè l’aiutante di coloro che erano più esperti) diventando poi bravo ed autonomo nel suo lavoro. Ma prima di arrivare a questo vorrei trattare alcuni anni spensierati della vita di papà, anni che non durarono molto perché da li a poco sarebbe scoppiato il secondo conflitto mondiale.
Nel 1936 passa alcuni mesi lontano da casa e precisamente, coincidenza di due matrimoni delle sue due cugine di primo grado Gisella Degiorgi (1907-2003, Giséla) e Amalia Degiorgi (1909-1945, detta Lia), alcuni mesi a Milano ed altri a Barzanò (in provincia di Como), paese in cui andò ad abitare lo zio Francesco Degiorgi (1881-1909) tanti anni prima.
In quel soggiorno milanese, lo zio Secondo Degiorgi (1875-1967, papà di Gisella e fratello del nonno Luigi) lo porta a visitare molti luoghi caratteristici della città: il castello Sforzesco, il teatro alla Scala dove lui aveva l’abbonamento nel loggione perché gli piaceva tanto la musica classica, la galleria Vittorio Emanuele e quello che gli rimase più impresso, il Duomo (äl Dòm). Il giorno che ci andò, c’era una grande celebrazione presieduta dal Cardinal Schuster e dato che zio Secondo cantava nel coro, portò anche papà con lui. Ricordava un particolare che mi diceva con orgoglio: l’arcivescovo passando a benedire i fedeli, si fermò vicino al coro e lo vide, così giovane in mezzo ai cantori tutti più vecchi di lui, gli diede un libretto e gli disse: “Bravo giovanotto, canta anche tu mi raccomando. Ti benedico”. Papà ringraziò e rimase soddisfatto di questo incontro che non dimenticò mai. Quel cardinale sarebbe stato un grand’uomo durante la seconda guerra mondiale, di animo caritatevole aiutò tanta gente bisognosa e salvò la vita a tante persone dando loro asilo e protezione senza guardate tanto i pensieri religiosi o politici.
E’ qui che papà conobbe il Cavalier Alfonso Masciadri, marito della cugina Gisella che gli mostrò lo stabilimento di colori e vernici di cui era proprietario insieme ai fratelli e con un capitale davvero ragguardevole. Papà lo ricorda come una persona veramente benestante, seria, distintissima, elegantissima ma molto gentile. Diceva “l’erä siùr mé’l màr mä brav mé un toc äd pän”. Era talmente importante il Masciadri che le trattazioni di Borsa non iniziavano senza di lui (così si diceva). Il soggiorno milanese di papà durò quel periodo, solo quell’anno per poi andare a Barzanò, a metà tra i due laghi di Como e Lecco, dalla cugina Lia che si era sposata con il signor Gigli Francesco, un giovane bergamasco vecchio stampo, deciso, tenace, irruento, che prese molto a cuore papà e insieme passarono “delle bellissime giornate”, così raccontava.
Un periodo un po’ diverso per papà, un qualcosa di differente rispetto alla vita pievese e poi, era rimasto solo a casa con mamma e papà perché Giovanni e Maria si erano sposati (ovviamente più vecchi di lui) e avevano messo su famiglia. Lui, giovane 14enne pieno di curiosità e voglia di vedere il mondo. Era giovane ed era già zio, a 12 anni nel ’34 di Luigina Degiorgi (la figlia di Giovanni) e a 13 anni, nel ’35 di Carla Borghini (figlia di Maria). Per lui, ovviamente, era presto per pensare alla famiglia. Da li a poco arriveranno altri nipoti, nel ’39 Luigi Borghini, nel ’43 Giuseppe Degiorgi e nel ’44 Teresio Borghini.
Dal ’37 al ’40 lavora come applicato in comune, come scrivano, postino, messo, insomma, un po’ tuttofare. Lavoro che non durerà a lungo perché poi arriva la cartolina, la chiamata alle armi che, purtroppo per lui, coinciderà con l’appena iniziata Seconda Guerra Mondiale. Il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra e papà, pochi mesi dopo riceverà la chiamata, quando compirà i 18 anni il 6 di settembre 1940. La chiamata alle armi degli uomini mise in crisi le famiglie che si trovarono senza manodopera per i lavori nei campi e senza quel minimo di introito che garantivano un normale bilancio famigliare. Ci fu un grande sforzo da parte di coloro che restarono in paese e, in molti casi, si ebbe dimostrazione di un grande senso di solidarietà. Un ruolo fondamentale lo ebbero le donne che moltiplicarono i loro sforzi adattandosi a fare anche lavori tipicamente maschili ed andando a “giornata” nelle altre famiglie in cambio di soldi o comunque di aiuto per i lavori più duri come l’aratura e la mietitura.
In questo contesto papà, giovane e inesperto in tutto, con una valigetta di cartone, partirà per un’avventura che, neanche lui lo sapeva, lo porterà via dalla sua casa e dalla sua Pieve per cinque lunghi anni.
I primi mesi del ’41 ad Asti, poi circa 2 anni a Palermo, dal ’42 al ’43, al campo base organizzato nel complesso dello Stadio “La Favorita” (ex Stadio “Littorio”), gli ultimi 2 anni, dal ’44 al ’45, prigioniero in Inghilterra nei pressi di Birmingham. Anni duri, sia quelli in Sicilia che quelli nel Regno Unito, lontani da casa. Solo una volta, nel ’43, dalla Sicilia tornò a casa in congedo perché avevano ricoverato il nonno in ospedale per una brutta polmonite che si pensò fatale ma che poi guarì, grazie a Dio e alla tempra fortissima di quell’uomo d’altri tempi.
E papà in Inghilterra imparerà abbastanza bene l’inglese, un po’ per necessità e un po’ anche per attitudini alla lingua che diceva: “äm piàsä pròpi pärlà inglès”, lingua che usava quando doveva farsi capire in mezzo anche a tantissimi commilitoni stranieri. Nonostante la lontananza da casa, per fortuna, non era il solo italiano, come lui ce n’erano tantissimi che erano stati fatti prigionieri di guerra e dovette arrangiarsi, “at vö murì brav om?” o era così o era così lo stesso.
La gioia di papà fu quando, nel ’45, la guerra era finita e tutti potevano tornare a casa. In Inghilterra tutti i giornali inneggiavano alla fine del conflitto e la gente del posto gridava: “Musso is dead” (Mussolini è morto). E anche la guerra era morta e papà, dopo 5 anni di privazioni, di sacrifici, di dolore e di sconforto, poteva tornare finalmente a riabbracciare mamma e papà e tornare nella sua amata Pieve. Aveva 23 anni, era giovanissimo ma tante erano già state le vicissitudini della sua vita.
E la storia continua…
TANTISSIMI ANNI FA … (ma ora un po’ di meno) PARTE 20
Riprendo a parlare di papà. Tornato a casa dalla guerra, dopo 5 lunghi anni via da Pieve, è pronto ad iniziare davvero la sua vera vita di giovane uomo di 23 anni. Il lavoro in comune non c’era più perché era partito per il militare proprio negli anni più sbagliati che potevano capitare. La sua permanenza sotto le armi quindi non era stata di una durata “standard” ma più lunga per via della guerra.
Fortunatamente non ha avuto la peggio come tanti altri ragazzi che persero la vita sui fronti, nelle prigioni o perché magari si erano ammalati gravemente durante le prolungate permanenze sotto le armi, in condizioni igieniche assolutamente pessime. Dalla corrispondenza che ho potuto trovare, sono sembrati anni duri di paure, di preoccupazione ma vissuti con intelligenza, lucidità, rassegnazione e con un po’ di quella “sana incoscienza”, tipica forse dell’età.
E papà una volta tornato a Pieve fa il barbiere, prima da apprendista, da aiutante e poi da solo. Questo lavoro lo terrà fino alla metà degli anni ’50.
Nella testa di papà, ormai superati i 30 anni, non balena la benché minima avvisaglia di metter su famiglia, “äg l’avä näncä in ment”. Il suo pensiero era la casa, il lavoro, gli amici e sicuramente (lo vorrei sperare) anche le donne. Ma non voleva legami e la sua vita correva ancora indisturbata da tali incombenze e “fastidi”. Con i suoi amici, d’estate non andavano al mare o al lago, andavano a Po, a fare il bagno (lä nödä) perché quello era il loro mare o magari anche qualche roggia (lä rùsä) andava bene lo stesso. Il divertimento era assicurato, con quel poco ottenevano tanta felicità.
Papà non aveva la macchina, non prese mai la patente, neanche sotto le armi, quindi il suo mezzo di locomozione principale era “la biciclätä” e il suo inseparabile Vespino azzurro metallizzato con quel micidiale parabrezza (che non riparava soltanto dal freddo e dalla pioggia ma probabilmente impediva anche quella già poca aerodinamicità che il mezzo aveva).
Ma stando a Pieve non serviva così tanto avere mezzi particolarmente avanzati e anche perché, se serviva qualcosa di più, c’erano gli amici, i “veri amici” che erano sempre pronti per ogni cosa si avesse bisogno. E chi erano gli amici di papà? Ne potrei menzionare diversi, sia della sua leva (il ’22) che altri più giovani o anche più vecchi. Nella vita di papà sono state tante le persone care al suo cuore e me ne ricordo diverse: Cécu Mänfrèd, Luigi Pezzali (äl Digäl Nò), Pino Milani (mobiliere e restauratore di alto livello), Oreste Broglia (äl pesadù, suo grande amico e coetaneo che a noi bambini dava i gettoni per le giostre), al Tugnass, Bràgiu, Turibio Ghezzi, Guido Volpi detto Cràmer (il più anziano del ’22, ancora vivente), Märtè, Vintälòn, Walter Barbieri (al savatìn), gli amici del municipio Giovanni Maiolio (Giuanìn), Giovanni Casone (Cäsòn), Romano Tusìn, uomo di un’umanità incredibile, senza tralasciare il geometra Angelo Garberi (Gàble), Remo Merli (al Marlìn, äl sartù), Pietro La Gnàgä che faceva il “ciclista” e guidava anche il carro funebre. Come dimenticare Primo Bonizzoni (al Primin), Ugo e Pelo Broglia, Ivo Massarotti e la Pinin, äl Bòno, äl Murät, äl Mùff, l’ävucàt Belòn, äl dutùr Stürlä (che chiamava amichevolmente Dino), äl Gino Sfundrìn cun lä sò Emma, Pipàs, al Pieròt, al Carlòt, Burgògnä, al Giuänìn al mäslè, Ciändelòne, Pipìn Gälänt e la sò Cesarina, i Sigulìn, äl Barbunìn (con quest’ultimo anche parenti di terzo grado per via della nonna paterna), tutti grandi amici di papà. Uno dei più vecchi era, che ho conosciuto da ragazzino, Giuan Bärśiśä, quasi di una generazione più avanti rispetto a lui e ai suoi amici ma che ricordo con piacere perché erano sempre insieme (da piccolo, all’oratorio mi comprava “lä pulèntä” come li chiamava lui ma erano i “Rodeo”). E poi ancora, il Carleto Mänfrèd (al tulé), il capomastro Pece, Ugo Piacentini e i suoi indimenticabili risotti alla Casa del Giovane. E come non ricordare il vicino di casa ed amico Sandro Chiocca e altro e l’amico poeta Francesco Boneschi (Cicòt). Tutte persone scomparse purtroppo ma che hanno lasciato un segno nella sua vita. Quanti nomi, soprannomi, nomignoli, vezzeggiativi che riportano automaticamente alla persona, senza passare dal loro esatto nome anagrafico (tante volte sconosciuto alla maggior parte della gente). Lui, per esempio, era conosciuto da tutti come “äl Dègo äl pitùr”, e quando era ragazzo era “äl fiö däl Ciö”, non l’Adriano Degiorgi… chi è l’Adriano Degiorgi? Con il suo nome non veniva così facilmente identificato così come con il soprannome.
Tra tutto questo “ben di Dio” di nomi papà vive indisturbato la sua giovinezza nella sua amata Pieve.
Ma l’incontro con il suo amico Francesco Manfredi, al Cécu, sarà un rapporto di lavoro ed amicizia che durerà per tutta la vita (ricordo con tanto piacere sia lui che la sua Giacumìnä)
Iniziano insieme a fare gli imbianchini, dopo la metà degli anni ’50 a Mede, per il signor Aldo Audazio prima e poi, il suo datore di lavoro storico, il Commendator Erminio Tondi per il quale lavoreranno sodo tantissimi anni insieme lui e il Cécu. Ogni mattina, Tondi li veniva a prendere e li portava a destinazione, poi li riportava a casa, con quel Camioncino, un Fiat 238 grigio (poi in Fiat 1100 sempre grigio) che faceva da pulmino e da deposito di bidoni di vernice (tulòn), rulli, pennelli e pennellesse (pnèl).
Papà lavorava giorno e notte e nel 1961, quando lui ha 39 anni e il nonno ne ha già 83 e la nonna 71 (già anziani) decide di fare lavori di ampliamento alla casa di via Benzo rendendola un po’ più confortevole e comoda, soprattutto per due persone anziane. E’ del 1953 il rogito in cui avviene il passaggio di proprietà della sua casa tra il nonno Luigi e papà che diventa l’intestatario dell’immobile, cose burocratiche fatte per un futuro prossimo o lontano, che dovevano essere fatte.
Lui non ha assolutamente intenzione di sposarsi quindi, per il momento, io non esisto ancora (e non ero minimamente nei suoi pensieri). Gli piaceva fare il “giunòt”. Vediamo quindi come andrà a finire… la storia continua…
TANTISSIMI ANNI FA … (ma ora un po’ di meno) PARTE 21
Anni 50-60: Sono gli anni intraprendenti di papà durante lo svolgimento del suo lavoro, tutti i giorni, dal lunedì alla domenica e di nuovo. Mai fermo, lavorare per gli altri, per se stesso, sia durante le sue ore lavorative che fuori, sempre lui e il Cècu, sempre insieme. Durante la settimana lavoravano con Tondi, il sabato e la domenica sempre a fare “visìg” per tutti, uno da una parte, uno dall’altra e spesso anche insieme. Quanti lavori hanno fatto che oggi non si fanno più tipo mettere la carta da parati (quelle a righe, anticate, con i fiori, le tinte unite forti), fare gli zoccoletti di legno, le perlinature, gli stucchi ai soffitti, i rosoni ai lampadari e quante porte seccate dal sole sverniciate, stuccate e con due mani di vernice lucida per legno (äl flàtìn) tornavano come nuove perché una volta non si buttava via nulla ma si metteva a posto, si recuperava. E quei lavori fatti con gioia, passione, con calma, non come oggi che quando inizi un lavoro la prima cosa che ti chiedono è “ma lei quando ha intenzione di finire?”. E la retribuzione non era mai abbondante, era sempre onesta, pesata, ponderata, spesso anche gratis, per il piacere di farlo (intanto venivano sempre ripagati con quello che era giusto). E tra lo stipendio e i lavoretti extra la famiglia non sopravviveva ma viveva dignitosamente, senza sfarzi o eccessi s’intende, ma con una certa stabilità economica, quella che manca ormai quasi a tutti, oggi.
Intanto nonno Luigi inizia ad accusare i duri colpi della vecchiaia, non della malattia perché era sano come un pesce ma è il 1965 e nonno Luigi ha 87 anni, tanti. La vita che ha fatto, in cui non si è risparmiato in nulla, lo ha provato, debilitato, stancato e piegato su se stesso. La sera dell’ultimo dell’anno, il 31 dicembre 1965 in casa Degiorgi non si festeggia, anzi, si piange e si prega perchè nonno Luigi non soffra troppo. Papà è lì con lui, con la nonna e non so chi ci fosse quella sera ma sicuramente saranno accorsi anche altri parenti.
Papà, alla richiesta del nonno: “A gh’ö vöiä dä fümà” lo accontenta senza farsi troppe domande e senza quell’inutile preoccupazione nei confronti della sua salute. Nonno prende in mano “lä sigàlä”, tira una mezza boccata e dice: “Bàstä, än nä vöi pü”. E pochi minuti dopo il nonno spira dolcemente, quasi come addormentarsi. Papà lo diceva sempre: “S’ha smursà mé nä cändìlä”. L’unico cruccio del nonno è stato quello di non aver fatto in tempo a vedere il suo Driàno sposarsi. Aveva già avuto 5 nipoti (Luigina e Giuseppe Degiorgi, Carla, Luigi e Teresio Borghini) e 2 pronipoti (Cristina, figlia di Luigina Degiorgi e Giovanna, figlia di Carla Borghini) ma gli mancavano gli eredi di mio papà (in sostanza mancavo ancora io). Purtroppo parlo del nonno solo per “sentito dire”, per ricordi che mi hanno raccontato perché non l’ho conosciuto.
Ma arriverà anche il momento per papà e verso la fine degli anni ’60, a Pieve già da diversi anni, lavorava per il signor Combi (un caseificio con produzione e vendita al dettaglio dei loro prodotti), a Cairo, una giovane donna dai bellissimi occhi scuri e dai lunghi capelli neri, una ragazza che veniva dall’Oltrepò Pavese, da Zavattarello per la precisione. Tranquilla, educata, molto bella (sono un po’ di parte ma era veramente bella); sto parlando della persona che sarebbe stata, da lì a poco, la donna della sua vita: la mia mamma.
Non conosco molto bene i fatti ma credo che li abbiano letteralmente “buttati insieme” perché sia lei che lui, arrivati ormai lei alla soglia dei 40 anni e lui a quasi 50, non avevano nessuna seria intenzione.
Gliel’hanno fatta conoscere, si parla di un primo appuntamento che, come potrebbe sembrare, andò piuttosto bene. A questo primo ne seguirono altri e finirono per frequentarsi, mettersi insieme, fidanzarsi e sposarsi.
Era il 2 giugno 1970, la mamma abitava a Cairo e si sposarono lì. Il matrimonio fu celebrato dal Rettore Giovanni Sozzani (lä Vän’tä). Grande festa quel giorno, una cinquantina di invitati tra parenti ed amici (conservo ancora intatto il loro album di nozze). Mamma era splendida con quell’abito bianco e anche papà non scherzava con la sua “müdä” scura. C’erano ancora nonna Teresa, nonna Costantina (la Danesin, veneta fino al midollo ma con nessuna flessione veneta nella parlata), lo zio Benedetto e la zia Felicina da Bagnaria e tutti i parenti ed amici di papà e mamma (dalle foto riconosco tante persone che non ci sono più: Balòs, Gatòn, äl Tugnàs, Stänùsä, l’Oreste äl pesädù, al Cécu, Pidrìn Schiena, äl dutùr Stürlä e alcuni altri di cui mi sfugge il nome).
I testimoni furono il signor Erminio Tondi di Mede (il datore di lavoro di papà) e zio Guido, fratello di mamma (che faceva il “cäntuniè”). Purtroppo mancavano all’appello nonno Giovanni e nonno Luigi, morti rispettivamente nel 1962 e nel 1965.
E finalmente papà ce l’ha fatta. Non si parlava di “viaggio di nozze”, assolutamente. A casa c’erano nonna Teresa, 80 anni, anziana e con tanti problemi di salute, da accudire e da sorvegliare.
Papà e mamma non erano più ragazzini, avevano quasi 40 anni lei e quasi 48 lui. Mamma era felice, una persona di animo buono, generoso, stupendo, una donna che non ha mai pensato a se stessa ma solo al bene degli altri. E papà? Beh, che dire… papà era contento di essere arrivato a sposarsi, felice, orgoglioso ed innamorato della sua “Tìnä” (ricordo le sue parole: “Carlo, äm räcumändi, fa no mé mì, spusät no vég”).
Era un uomo ancora giovane che aveva faticato, aveva fatto la guerra, sapeva cosa volesse dire “responsabilità e dovere”. Sarebbero stati molto felici insieme, due persone diverse ma molto simili caratterialmente, due persone di un’estrazione sociale umile, povera, vissuti però sempre con la testa sulle spalle.
Giunti entrambi a questo punto della loro vita, dovevano pensare al loro futuro e ad un erede … senza perdere troppo tempo.
Con l’arrivo del loro figlio Carlo il 18 giugno 1971 (praticamente chi sta scrivendo questi post) la famiglia Degiorgi è completa. Della mia storia non parlerò per il momento, è troppo contemporanea, scontata e non interesserebbe a nessuno… credo…
La storia di papà termina qui … ma il racconto dei fatti continua.
TANTISSIMI ANNI FA … (ma non così tanti) PARTE 22
Quale storia potrei raccontare adesso se non quella di una donna straordinaria che era la mia mamma? Ecco, questo sarà il prossimo argomento, basta parlare dei Degiorgi, cambiamo un po’.
Le ricerche su questa famiglia sono un po’ il mio “pallino”, quasi un chiodo fisso, un’ossessione “positiva” che mi fa stare bene quando le faccio ma ciò non mi ha impedito di cercare anche oltre questo cognome e spingermi verso la famiglia di mia mamma: la famiglia Ferrari.
Un cognome comunissimo, troppo comune, quasi come i Rossi, i Bianchi. In Italia ce ne sono in ogni regione, da nord a sud e anche nelle isole (senza contare tutti quelli che sono andati in giro per il mondo, soprattutto nei tempi delle grandi emigrazioni). I Ferrari, quelli di mia mamma sono originari dell’Oltrepò Pavese e il paese dove ho trovato gli antenati diretti più lontani che mi hanno permesso di arrivare fino a lei, è stato il piccolo centro montano di Rocca De’ Giorgi, situato in Valle Scuropasso (nei pressi di Broni).
Alla fine del ‘600, attraverso gli atti parrocchiali, scopro i coniugi Giovanni Battista Ferrari e Marta Calatroni (JoBatta Ferrari et Martha Calathrona jugalibus), che considero i due capostipiti della famiglia di mia mamma.
La storia andrebbe veramente per le lunghe, tra racconti, date, nomi ma vorrei arrivare a parlare di mia mamma perché, a differenza dei Degiorgi, condividerei informazioni, seppur interessante dal punto di vista della ricerca, poco appetibili per il pubblico “pievese”. Pur avendo un “mare” di notizie, di date e di nomi, non ritengo opportuna questa sede per analizzarli ma, lo farò, promesso!!!
La mia mamma non è di Pieve ma è come se fosse sempre stata una “pievese” perché il suo modo di parlare non faceva capire da dove provenisse.
Il 25 Luglio del 1930, nasce in un bellissimo paesino dell’Oltrepò Pavese, Zavattarello (Ŝävätärè), precisamente alla frazione Moline (äl Müléen).
Zavattarello oggi ha poco più di 1000 anime, situato a circa 600 metri di altezza, nell’Alta Val Tidone. Il nome deriva dalla professione che facevano gli abitanti del borgo, i produttori di ciabatte (Ŝävätärè deriva da ŝavatte, ŝävàt, producevano le ciabatte).
Mamma nasce alle 2 del mattino e verso sera viene battezzata, nella chiesa Parrocchiale del capoluogo dedicata a San Paolo Apostolo. E’ figlia di Giovanni Ferrari (1891-1962, mio nonno) e di Costantina Danesin (1899-1977, veneta di Martellago, vicino a Mestre). Alla bambina vengono dati i nomi di Albertina Maria Giuseppina. La madrina è Maria Bonini di Luigi e il padrino è Giuseppe Buzzi di Davide (papà di Vincenzo, il falegname). Il parroco era Don Carlo Leardi. Anche il nonno era nato a Zavattarello, precisamente alla frazione Bozzeda (lä Busèdä) ed era andato a prendere moglie, nonna Costantina Danesin, fino a Martellago in provincia di Venezia nel 1920 (aveva fatto la prima guerra mondiale nel veneto e quindi la conobbe in quelle circostanze). Il nonno di mia mamma, Giuseppe Ferrari (nònu Pipö) papà di nonno Giovanni invece era nato a Rocca de Giorgi come pure tutti i suoi antenati. Fu lui a spostarsi dalla Rocca a Zavattarello con tutta la sua famiglia perché aveva conosciuto e poi sposato una zavattarellese D.O.C., Filomena Maria Matilde Delbue, nònä Filö (un cognome radicato sul territorio da oltre 400 anni, documenti alla mano che hanno permesso di ricostruire la genealogia della mia bisnonna materna fino ai primi del ‘600, rinvenuti sempre a Zavattarello).
Nel 1930 Zavattarello e Valverde sono uniti. La mamma, difatti, nasce a Zavattarello Valverde (come risulta negli atti). La mamma non è la prima figlia, il nonno e la nonna avevano già Guido (1921-2013), Maria (1924-2002) e Amelia (1928-2011). Dopo la mamma nascerà ancora Enrica (1935-2006) che andrà, insieme a tutta la famiglia del marito Teresio Caffetti (di Romagnese) in Argentina e precisamente nel paese di Eldorado Misiones, al confine nord della nazione, vicino al Rio Paranà. Il destino per Enrica sarà quello di rimanere in quella terra lontana senza riuscire più a tornare (nonno Giovanni morirà “cun äl còl ä stòrt”, cioè col dispiacere nel cuore per non aver più rivisto la figlia).
La mamma vive la sua infanzia e la sua adolescenza tra le Moline e Zavattarello, avanti e indietro, su e giù per quelle ripide salite, tipiche strade dei luoghi non pianeggianti come la nostra Lomellina.
Mamma riceverà la sua Prima Comunione nel 1939 e la Santa Cresima nel 1942, in piena seconda guerra mondiale, da S. E. Monsignor Egisto Melchiorri (madrina la sorella Amelia, di due anni più grande).
Mamma durante la seconda guerra mondiale è lì alle Moline, è una ragazzina impegnata nei lavori in casa, ad aiutare la nonna mentre il nonno era via per vari lavori. La sua istruzione scolastica non è delle più fervide perché non ha terminato la terza elementare; serviva la manodopera lavorativa e a casa erano rimaste solo lei, la zia Amelia e la piccola Enrica (zia Maria era già venuta a lavorare in Lomellina) e l’unico figlio maschio, zio Guido, in quegli anni non c’era perché era lontano, impegnato sotto le armi, nella Campagna di Russia dal 1941 al 1943. Uno dei suoi racconti lasciava il volto segnato da tante lacrime, un dramma scampato per una serie di fatti fortuiti che gli permisero di tornare a casa sano e salvo a differenza di tanti ragazzi morti assiderati in quelle sterminate pianure lontane. Come diceva lui, sempre con tanta riconoscenza e un pizzico di “pél d’ocä”, se non era per una famiglia russa che lo salvò da quei 40 gradi sottozero, se non era per quella santa donna che gli prese piedi e mani congelate portandoseli al petto per scaldarle, lui non c’era più e non sarebbe campato 91 lunghi anni. Quando quella maledetta spedizione finì, tornò a casa trovando la sua Moline e i suoi luoghi così cari in brutte condizioni perché la guerra non era ancora conclusa e la presenza di milizie ostili incombeva in quei territori di montagna.
A Zavattarello in quegli anni si viveva il terrore e mamma se lo ricordava bene. Quella “brütä gent” come diceva lei, le faceva rivivere ancora a distanza di tanti anni, la paura che aveva quando era bambina. Le bastava ricordare un nome, “mongoli”, per rabbrividire di nuovo come in quei lontani giorni di guerra.
Questa storia vale la pena di essere raccontata quindi … ora … non mi dilungo perché vorrei essere più esaustivo nel prossimo post. (continua…)
TANTISSIMI ANNI FA (… ma non così tanti) PARTE 23
Stavo trattando un discorso particolarmente interessante e storico riguardo all’adolescenza di mia mamma alle Moline di Zavattarello, la frazione dove lei è nata nel 1930. In quegli anni, in cui la mamma era un’adolescente, la seconda guerra mondiale ha lasciato un segno indelebile, sia fisico che psicologico in tutte quelle persone che oggi, purtroppo, non sono più tra noi a raccontare certi fatti. Ma tramite i loro racconti sulle storie che hanno vissuto e, spesso, subìto in prima persona, noi, oggi, possiamo fare memoria e anche una chiara e corretta, seppur poco efficace perché non l’abbiamo vissuta, esposizione dei fatti.
Perché questo termine “mongoli”, menzionato nel post precedente, desta così tanto scalpore e curiosità? Perché, a Zavattarello, come nelle zone collinari dell’Oltrepò e del vicino Piacentino, c’erano questi personaggi: cattivi, crudeli, senza scrupoli, orrendi anche nell’aspetto, sanguinari.
Le truppe tedesche li avevano in “dotazione”, erano chiamati “i cani di Hitler” perché erano veramente, con tutto il rispetto per il termine, “animali”. Massacri, saccheggi, stupri erano all’ordine del giorno. Tra le truppe nazifasciste impegnate in questa operazione spiccarono per ferocia gli uomini della divisione Turkestan, ex prigionieri di guerra russi delle regioni asiatiche, che per la popolazione locale saranno identificati, con terrore, come "i möngul". Queste furie “arrivano al combattimento ubriachi, urlando, e quando entrano in un villaggio predano, stuprano le donne di qualsiasi età. Ne hanno libertà per una preventiva intesa con il comando tedesco” (da un libro di Clemente Ferrario “Le cascine sono date alle fiamme”, Guardamagna 2009).
I mongoli, per definizione, arrivano da molto lontano. Tra la fine del 1941 e l’estate del 1942, dopo la caduta di Leningrado, i comandi tedeschi organizzano le Ostlegionen (legioni dell’Est), unità volontarie formate da prigionieri sovietici. Alcuni scelgono l’arruolamento per scampare alla prigionia e alla morte, altri, soprattutto tra le popolazioni che hanno subito la feroce repressione staliniana, pensano di allearsi con i nazisti per liberare le loro terre dal regime comunista.
Il 20 aprile del 1942 viene istituita la Legione turkmena, che poi sarà inserita nei resti della vecchia 162esima divisione dell’esercito tedesco: nasce così la 162esima divisione Turkestan, composta da prigionieri per lo più musulmani: calmucchi, uzbeki, azerbaigiani, tartari, ucraini, kirghisi, georgiani… Sono i tratti asiatici di alcune di queste etnie a rimanere impressi nelle popolazioni che li incontreranno. Ma per tutta la gente di quel territorio, mia mamma compresa, saranno ricordati come “i mongoli”. Alcuni partigiani erano spaventati dal loro “bestiale ululare”, come “gli urli di un branco di bestie scatenate sulla preda” (dai diari sulla resistenza di alcuni partigiani del luogo).
Era una doverosa parentesi storica che volevo fare, un passato che ha fatto parte della vita della mia mamma, un tratto di vita non molto felice e spensierato. Ora parlerò nuovamente di lei.
Il lavoro, nella comunità di Zavattarello ma anche in tutti quei territori, soprattutto per le donne, era piuttosto precario ma “avevano sentito dire” che giù a valle, nella pianura, il lavoro non mancava e le ragazze giovani potevano essere impiegate come “mondine” (o “mondariso”) a giornata in quei campi “scaccheggiati di acqua e terra”.
Da questo spunto inizia la storia della mia mamma in Lomellina, nella Pianura Padana (quella che Dante, nel XXVIII° canto dell’Inferno definisce “…lo dolce piano che da Vercelli a Marcabò dichina”)
Per la volta di Pieve del Cairo, partì prima Maria (siä Märiä däl Ciòiä) nel 1939 a soli 15 anni, poi Amelia che andò a Mede e poi nel 1948 la mamma che raggiunse Maria in “quel di Pieve”. Maria nel frattempo si era sposata con Carlo Sonvico (al Ciòiä) e aveva avuto una figlia, Luisa.
Mamma era giovane, aveva 18 anni. Era una bella “muntägnìnä” dagli occhi e i capelli scuri ma non gradiva molto quella piatta campagna. Ben presto dovette abituarsi a quel lavoro che gli permise di vivere. In quegli anni anche zio Guido aveva guadagnato un posto di lavoro come “cantoniere” in Lomellina e ci andò volentieri, per essere vicino alle sorelle, portando con se anche papà e mamma.
A Zavattarello rimase Enrica che andò a vivere nella vicina Bagnaria (tra Ponte Nizza e Varzi) dallo zio paterno Benedetto Ferrari che aveva una figlia, Orietta.
Mamma aveva abbandonato il suo paese, Zavattarello, quel luogo in cui la gente era ospitale, cordiale, genuina, come il buon vino che si beveva ed il salame che si mangiava. L’aria faceva venire appetito in quelle zone e mamma aveva veramente un bell’aspetto quando venne in Lomellina. Mamma incontra campagne a distesa, strada lunghe, sterrate, a ciottoli (lä risà) e soprattutto “piatte” e abbandona quel dialetto oltrepadano misto al piacentino, diverso dal nostro lomellino (per intenderci, per dire “qui, li, la” dicono “chi mò, là mò, lì mò”) ma il dialetto di Zavattarello a mamma non è mai entrato in testa ed ha subito imparato quello di Pieve del Cairo. A lei piacque subito il dialetto della Bassa Lomellina e non si è mai capito, quando parlava, da dove arrivasse veramente. Anche la sorella Maria non aveva quella flessione a differenza di Amelia, Guido ed Enrica (anche se dopo tanti anni via dall’Italia) che rimase in loro per tutta la vita.
Mamma va a fare la “mundìnä”, passa gli anni della sua giovinezza con i piedi nell’acqua, tra umidità e zanzare, tra canti, lavoro, fatica ma molta spensieratezza, sorvegliate a vista dal “pädròn”, tutto il giorno. E nei dormitori, tutte le ragazze, al termine della giornata lavorativa, erano stanche ma contente, con quello spirito di condivisione ed amicizia che non è più presente oggi. E quel canto delle mondine che inneggiava sempre anche lei era “siùr padrùn da li beli braghi bianchi, förä li palànchi c’andumä ä cà”. E la schiena ricurva tutto il giorno a strappare erbacce e piedi e gambe inzuppate le favoriranno quei “rumàtic” (reumatismi) e quella “därnérä” (mal di schiena) che non sarebbero andati mai più via, per tutta la sua vita.
Diversi anni durò questo impiego: le dava un sostentamento economico e le permetteva di vivere in maniera normale. Fin quando il caseificio locale di Luigi Combi a Cairo, ebbe bisogno di una commessa, di una domestica che facesse il lavoro di vendita al dettaglio dei loro prodotti (latte, burro, formaggi ed avevano pure i maiali). Così mamma, per un lungo periodo, lavorò li e la sua condizione cambiò un pochino: mai più erbaccia da strappare, mai più zanzare (muschìn, päpätàs, sins’os), mai più piedi nell’acqua “ä möi”.
Siamo intorno alla metà degli anni ’50, mamma ha circa 25 anni, è giovane, bella, ma nel contempo è piuttosto introversa e timida. La classica brava ragazza che non ha grilli per la testa, sempre alle prese con la casa e con il lavoro. Sarebbe un’età giusta per conoscere dei ragazzi, avere una relazione, cercare un fidanzato per poi sposarlo e mettere su famiglia ma, a mamma, queste cose, per il momento non interessano e … passeranno ancora un po’ di anni prima delle decisioni importanti.
… e la storia continua …
TANTISSIMI ANNI FA (… ma non così tanti) PARTE 24
Verso la fine degli anni ’50 la vita di mamma è segnata da alcuni fatti importanti: si sposa Amelia con Angelo Cei a Zavattarello e la sorella più piccola si sposa con Teresio Caffetti di Romagnese. Lui, subito dopo il matrimonio, dopo una bellissima festa che si svolse a casa loro, alle Moline, partirà per la volta dell’Argentina nel 1957 e lei lo seguirà l’anno dopo e non faranno più ritorno in patria.
Da Amelia nasceranno due figli: Patrizia Cei (1960) e Roberto Cei (1965). Oggi vivono rispettivamente a Mede e a Sannazzaro. Zio Guido, che era il più vecchio dei figli, non era ancora sposato.
Apro una parentesi su Enrica (quella zia Enrica che non ho mai conosciuto e che mamma sentiva un paio di volte l’anno, durante le festività importanti).
Teresio Pietro Arrigo Caffetti (chiamato semplicemente Teresio, 1930-2015) era un giovane di Romagnese che aveva grandi ambizioni ma si arrese agli occhi verdi di una creatura bellissima: Enrica. Il 9 marzo 1957, la sposò, a Zavattarello ma dopo poco tempo il destino li separò subito. Lui aveva 27 anni, lei 22. Teresio, che in quegli anni ha fatto anche il servizio militare in Sicilia, radunerà tutti i suoi fratelli e i suoi genitori in America del Sud, terra di promesse e speranze. Con il fervido desiderio di cercare un posto migliore in cui vivere, pensando prima di tutto al benessere di tutta la sua famiglia, i genitori e i quattro fratelli, Teresio e le rispettive famiglie, emigrarono prima a Buenos Aires per poi stabilirsi definitivamente nella provincia di Misiones, nella città di Eldorado, al confine nord tra Argentina e Paraguay.
Enrica è rimasta in Italia ancora per un altro anno, a Zavattarello nella sua Moline per poi seguire definitivamente il marito Teresio in Argentina, dove non lo avrebbe più abbandonato per il resto della vita. Zio Guido accompagnerà personalmente Enrica al porto di Genova per un viaggio “di sola andata”. Nonno Giovanni non andrà, era un passo troppo duro da affrontare. Zio Guido, dopo ancora tantissimi anni, avrà sempre le lacrime agli occhi quando penserà a quel maledetto giorno in cui quello sterminato oceano rapì la sua Enrica per sempre. Tutta la famiglia, felice da una parte e triste dall’altra, vivrà questo distacco con dolore, rabbia, rassegnazione. A nonna Costantina e a nonno Giovanni si spengerà per sempre quella luce di speranza, quella speranza di poter riabbracciare un giorno la loro figlia. Mamma pianse tanto quel giorno, tutti piansero pensando alla loro giovane sorella che se ne era andata, per sempre e papà Giovanni che continuava a ripetere quelle parole: “lä mé fiölä ällä vädi pü!”.
In Misiones, Teresio, imprenditore, costrì un business di famiglia chiamato CAFFETTI SACIFIA dedicato alla lavorazione del legno, produzione molto redditizia nella provincia. Enrica e Teresio avranno due figli che sono i miei cugini di primo grado (che non conosco se non solo per fotografia o immagini dai social network), Pierino (1960) e Ana Maria (1963).
La società di Teresio ha cessato di esistere nel 1989, e ogni fratello e la sua famiglia seguì la sua direzione. Enrica ha sempre sognato di tornare a visitare la sua famiglia in Italia ma ha sempre avuto paura di volare (“ä g’hö päghürä äd l’äviòn” diceva).
Parlava spagnolo ma ricordava ancora perfettamente il dialetto di Zavattarello, quello della sua Moline e con mia mamma raccontava, quando si sentivano telefonicamente, una delle festività importanti, Maria Bambina, l’8 settembre ed Enrica le diceva: “Bärtìnä t’ät ricòrdi là mò ä Zävätärè lä féstä d’lä nòsä Märiä Bämbénä?”. Tra l’altro Zavattarello, come Pieve del Cairo, festeggiava e festeggia tutt’ora la Natività di Maria, l’8 settembre appunto.
Solo nel 1995, quando forse si decise ad intraprendere quel viaggio, quando aveva già preparato tutti i documenti necessari, una crudele quanto rapidissima malattia, la fermarono per sempre e si spense all’Ospedale di Buenos Aires il 3 settembre 1996 a soli 61 anni (il destino ha voluto che la più giovane della famiglia morisse per prima).
Da quel giorno zio Teresio perse la voglia di vivere, le sue giornate passavano circondate dall’affetto di figli e nipoti ma Enrica non era più con lui. Tutti i fine settimana visitava il sepolcro in cui riposava Enrica pregandola, augurandole la pace e ripetendole che la amava ancora come il primo giorno.
Mamma quel giorno pianse talmente tanto che non riuscimmo a calmarla. La speranza di rivedere l’amata sorella era persa per sempre, per lei, per zia Maria, per zia Amelia e per zio Guido. Tutti sconvolti dal dolore, restarono ammutoliti, attoniti, increduli, delusi.
Così la storia di Enrica ha percorso un ciclo di vita parallelo a quello di mamma Albertina che da quel lontano giorno del 1958 non è più riuscito a convergere, ad unirsi. L’immenso oceano Atlantico divideva due vite, due famiglie, due culture ma non riuscì mai a dividere le stesse origini, lo stesso sangue, lo stesso profumo di quella terra montana che diede a tutti loro i natali e quella “beata gioventù”.
A mamma è sempre mancata Enrica, sempre, e non ha mai smesso di pensarla, di parlare di lei, ogni giorno della sua vita (diceva sempre “l’èrä bélä me’l sü lä mé Enricä,”).
Nel 1962 mamma perde un riferimento importante della sua vita: suo papà Giovanni, il nonno, e in questo stesso anno va in crisi. Legatissima al nonno, non ancora sposata, faceva ancora molto affidamento su di lui, per tutto. Fu un momento di depressione che durò parecchi mesi e per mamma fu un periodo molto duro della sua vita…ma…ne venne fuori, piano piano.
A Pieve c’era la sorella Maria, il fratello Guido, la sorella Amelia e la sua mamma, nonna Costantina. Anche lei, diversi decenni prima, nel 1920, aveva vissuto un episodio analogo ad Enrica, lasciando il suo paese, Martellago, vicino a Mestre in provincia di Venezia, per venire in Oltrepò Pavese e non fare più ritorno in quella terra lagunare, culla della sua infanzia e compagna della sua adolescenza. Nonna era del 1899, quindi, nel 1920 aveva 21 anni; nessuno in quel paese la ricorda ma le ricerche mi hanno permesso di sapere molto su di lei, sulle sue origini venete (per ora sono arrivato alla fine del ‘700, al trisavolo di mia nonna ma non ho ancora finito le ricerche).
Faccio una menzione speciale: non smetterò mai di ringraziare l’amico Federico Manente di Martellago, conosciuto sul magico mondo del web che mi ha letteralmente “fatto” la ricerca e credo che, appena ci sarà la possibilità, appassionato com’è, riprenderà e mi darà ancora tante informazioni: grazie amico mio!!! Fine della menzione.
Scusate, ora riprendo.
Tra il ‘62 e il ’68, quella “timida ragazza di provincia” inizia a “buttarsi un po’ fuori”, partecipando alla vita della comunità, andando a ballare con la sorella Maria (a loro piaceva tanto) e presenziando anche alle varie feste che il paese proponeva come la festa patronale di Pieve (lä Marìä Bämbìnä), quella di Cairo (lä Mädònä däl Càrmin), i momenti di aggregazione a “lä sucietà” o “lä cà däl pòpul”.
Anni belli quelli e, verso la fine degli anni ’60 avvengono le proteste e le rivolte studentesche (il ’68), che però a mamma, all’età di 38 anni non riguardavano più. Si sposerà il fratello Guido con Maria Camisasca (di Villabiscossi) e dal loro matrimonio nascerà Giovanni Ferrari che ora ha 53 anni e vive a Mede (zia Maria ha 88 anni e sta ancora bene).
Nella vita di mamma, intorno al 1968-69, fa capolino un personaggio importante, si fa strada un “ragazzino” (insomma mica tanto), diciamo un giovane uomo già adulto, quasi 50enne di nome Adriano (äl Dègo, mio papà) che, spronato da molti dei suoi amici che insistevano nel vederlo sistemato (lui non ci pensava proprio), le chiese di uscire. Mamma, già quasi 40enne ma sempre molto timida e riservata gli disse: “Si, volentieri”.
Albertina e Adriano avevano rotto il ghiaccio e da lì in poi sarebbe stato tutto molto più facile e naturale arrivare a quel fatidico giorno, il 2 giugno 1970, quando convoleranno a nozze nella chiesa di Cairo.
Ho già trattato questo argomento quando ho scritto in alcuni post precedenti della vita di papà.
Mamma era una donna bellissima, felice, matura, responsabile e da lì a poco sarebbe diventata madre, a 41 anni e papà a 49.
A quell’età, nel 1971, quando nacqui io, era un avvenimento un po’ fuori dal normale, le donne si sposavano quasi tutte molto giovani e magari, all’età sua, avevano già diversi figli. Non conosco così nel particolare la realtà dei fatti, non so in modo preciso come andarono veramente le cose ma quello che è successo tra mamma e papà l’ho potuto constatare durante la loro esistenza, vivendo con loro ogni santo giorno, condividendo con loro ogni momento della giornata. Ho sempre visto, fino alla fine, due persone innamorate, che vivevano l’uno per l’altra. Papà è mancato nel 2008 ad 86 anni (per una polmonite) e da quel giorno, come una lampadina che si spegne, ho visto mamma lasciarsi andare, come se mancasse quell’indispensabile carburante per poter camminare, pensare, muoversi, vivere. Quattro anni dopo, nel 2012, ad 82 anni anche lei mi avrebbe lasciato a causa di quell’orribile Morbo di Parkinson che la immobilizzò a letto rendendola inerme, vulnerabile, fragile.
Quello che non si spense, fino all’ultimo giorno, fu il suo sguardo, quei due occhi penetranti che parlavano da soli senza dire una parola.
Quanta fortuna ho avuto ad avere due genitori così, veramente tanta. Per questo mi mancano ogni santo giorno. La storia conclude qui perché ho gli occhi lucidi.
Ma i racconti continuano …
TANTISSIMI ANNI FA … PARTE 25
Di chi dovrei parlare adesso? Francamente non lo so ma intanto che scrivo mi verrà in mente qualcosa. E’ curioso che inizi a farlo non sapendo ancora di cosa parlare ma, spesso, gli argomenti prendono forma mentre stai per pensarli.
Ero partito con il presupposto di non parlare di me e vorrei mantenere la promessa. Nel libro che sto scrivendo, tratterò anche di me ma lo farò solo allora e non qui, non in questa sede.
Parlando della mia famiglia, la famiglia Degiorgi appunto, ho cercato di partire da un punto preciso della mia genealogia e il riferimento più attendibile è stato quello di Severino Degiorgi (1786-1867) che da Borgofranco (Suardi), nel 1833 si sposta a Cairo e poi a Pieve con la sua famiglia. Praticamente ho scelto quel momento storico che ha permesso di collegare due realtà (Suardi e Pieve) per poter partire a raccontare della mia famiglia. Una famiglia povera quella di Severino e Francesca, essenziale, bifolco lui, contadina lei, di estrazione molto popolare entrambi, lui un “burgsän” (di Suardi) e lei una “cämbiulìna” (di Cambiò). Due paesi molto vicini che hanno permesso interscambi umani, sociali, lavorativi con le persone in un modo molto semplice e diretto.
I racconti orali di mio papà, dei suoi zii, di mio nonno, avevano sempre asserito che al Burg (Suardi) c’erano i Degiorgi ricchi e i Degiorgi poveri senza additare negativamente né agli uni né agli altri. Mio nonno diceva a papà: “Nüm ä sùmä sèmpär stài povär e sùmä mai gnì siùr mä äl Burg äl ghèrä äncä di àltär Degiorgi ch’i stavän bèn”.
Il nonno aveva ragione e i documenti che ho trovato, molti anni dopo, hanno suffragato i suoi memorabili racconti.
Quello che ho immaginato è che, in un ben preciso periodo, due rami si divisero e diedero origine a due discendenze: i facoltosi e i meno abbienti. Scoprendo poi di discendere dai secondi, non dai primi, mi sono messo il cuore in pace e ho pensato: “beh, nònü Ciö g’àvä räsòn”.
E i Degiorgi a Suardi ci sono sempre stati, non dalla notte dei tempi ma almeno dalla prima metà del ‘400, come si evince dai primi nomi rinvenuti attraverso la lettura dell’interessante libro “Profilo storico di Borgofranco Lomellina oggi Suardi: avamposto di Bassignana sulla sponda sinistra del Po” (Fagnani-Torti, 1982). Questo libro, molto ben scritto, racconta tra tanti fatti e personaggi, della presenza di Giorgi, non Degiorgi, che ho ragione di credere che si trattino di ascendenti della mia famiglia, alcuni indiretti ma almeno uno di questi, diretto, cioè il riferimento da cui è partito il ramo della mia famiglia fino a me e a mio figlio Simone che sarebbe la 16ma generazione dopo quel famigerato Antonio Giorgi (ricavato solo dai figli di lui nati o morti dopo il 1580) che ho trovato nei primi atti parrocchiali di Borgofranco (mio ascendente diretto). Purtroppo non ho il collegamento con i primi Giorgi rinvenuti nel libro citato prima perché tra lui e questi ci sono circa 150 anni di dati mancanti. Purtroppo saranno dati non verificabili per mancanza di fonti. Mi dovrò pertanto accontentare di brevi riferimenti, cenni, annotazioni senza grandi approfondimenti.
Andare più indietro si può perché esistono gli “archivi di stato”, gli archivi privati delle famiglie” (quelle importanti ovviamente). Parlando dei primi, sono accessibili ai ricercatori, agli studiosi e ce n’è uno per provincia. Negli archivi di stato si possono trovare documenti antecedenti il concilio di Trento, si può arrivare anche al ‘300-‘400 (qui l’amico Mario Angeleri può essere molto più preciso di me). Ma ahimè (…tanto per citare alcuni cognomi locali facoltosi di un tempo) non mi chiamo Paltineri, Gattinara, Ferrari Trecate, Crosio, Maino, Isimbardi ma semplicemente Degiorgi, uno dei tanti Degiorgi, quel “ramo contadino” che non ha avuto un passato così importante da essere menzionato su importanti atti notarili (anche se l’ascendenza di questo cognome porta ai Giorgi di Pavia, agli Zorzi di Venezia e a tanti personaggi illustri, io parlo del mio ramo). Non siamo mai stati proprietari terrieri, ereditieri, latifondisti ma soltanto semplici ed umili uomini e donne della “bassa” che hanno vissuto la loro esistenza senza sfarzo e glorie ma con la semplicità che li ha sempre contraddistinti. Negli atti notarili custoditi negli archivi di stato, antichissimi, potrei trovare qualche fortuito cenno se qualcuno di loro fosse stato testimone di qualche fatto, teste in qualche atto di compravendita. La ricerca, in questo caso, risulterebbe veramente scarna di notizie se non qualche curiosa citazione che li riguardi.
Tutto questo è stato reso possibile grazie, soprattutto, ai Registri Parrocchiali, libri che raccolgono i dati relativi a battesimi, matrimoni e funerali officiati in una parrocchia, e che costituiscono una fonte documentaria insostituibile per le epoche in cui non esisteva l’anagrafe civile. Fu il Concilio di Trento nel 1563 a ordinare ai parroci la loro compilazione per quel che riguardava battesimi e nozze; per i registri dei decessi la normativa fu invece dettata nel 1614 anche se, diverse parrocchie, possiedono registri di morte più vecchi rispetto a questa normativa. Gli archivi che ho visitato sono circa una cinquantina. Per citare i paesi più vicini: Pieve, Cairo, Gallia, Gambarana, San Martino la Mandria, Suardi, Galliavola, Lomello e quelli accessibili meno agevolmente li ho gestiti tramite corrispondenza. Queste ultime non sempre hanno dato esito soddisfacente in quanto il ricevente, o ha risposto “picche” o addirittura non ha mai trovato il tempo (o la voglia) di rispondere.
Papà diceva sempre, riguardo a queste cose: “Se ät vö truà un quéi cos, cèrcäl tì pärchè se t’äspèti i’altar ät vènän i cavì biänc” (e su questo, al di la del parere puramente personale, aveva ragione).
Il bello delle ricerche è “farsele”, non “farsele fare” perché i “tuoi tempi” non coincideranno quasi mai con “i tempi degli altri”. In tutti questi anni di ricerche ho trovato persone squisite, gentilissime, disponibilissime ma anche persone ostili, alcune per mancanza di tempo, altre per mancanza di interesse.
Questo non importa perché la mole di dati che ho a disposizione mi fa capire che, difficoltà a parte, sono riuscito lo stesso – seppur con qualche lacuna storica – a raggiungere il mio obiettivo.
Un mio caro amico dice sempre: “AVANTI TUTTA” quindi, con piacere, seguirò il suo “motto”. Come in tutte le cose, la strada è lunga, tortuosa e la mia lo è stata ma, dopo oltre 30 anni di “testa bassa”, di “schiena ricurva sui registri” e di polvere negli occhi, dentro al naso e sulle mani, sono contento del risultato che ho ottenuto. Senza pretese e presunzioni, il mio lavoro ha dato i suoi frutti. Non sono uno storico, un genealogista, un archivista, un ricercatore esperto tantomeno un bravo scrittore ma nel mio piccolo posso ritenermi soddisfatto.
… e la storia continua …
TANTISSIMI ANNI FA … PARTE 26
Argomentare su temi complessi e poco interessanti non mi va, assolutamente. Mi sono sempre chiesto come possa un social network come Facebook avere degli spunti interessanti di discussione.
Scrivere fatti, storie, avvenimenti del proprio passato non è cosa da tutti, non è una scelta attuata da tutti. A me piace molto fare questo perché parlando del mio passato e della mia famiglia, come ho fatto fino ad ora, scopro un piccolo mondo che non è solo mio ma che è un mondo comune fatto di trascorsi, di vissuto, di gente comune, di modi di vivere comuni a seconda dei periodi storici. Parlando di un membro della mia famiglia vissuto nel ‘600 sarebbe come parlare della vita lomellina di quel periodo perché il mio personaggio è un riferimento “standard”, uno dei tanti uomini, donne, fanciulli vissuti in un determinato periodo storico e il racconto personale di ogni individuo della mia famiglia si contestualizza con il modello di vita di un tempo in quei luoghi e la storia di ognuno di loro, seppur insignificante (per me non lo è ovviamente) scorre parallela a quella storia “che conta”, alla storia “grande”, ai fatti importanti.
Narrando dei miei Degiorgi parlerò quindi di un intero territorio che è il borgo (Suardi) in cui li ho sorpresi già fin dalla seconda metà del ‘500.
E riprendendo il titolo del post “Tantissimi anni fa”, la storia della mia famiglia fa un balzo all’indietro di quasi 450 anni scoprendo che in questo luogo vivevano già i Degiorgi, rinvenuti come “Giorgi” attraverso i documenti nel locale archivio parrocchiale ma di cui si fa già menzione agli inizi del ‘400 in vari testi storici che ho letto. Oltra a loro, altri cognomi esistenti tutt’ora erano già presenti: Trotti, Biancardi, Trabella, Cavezali (o Cavezzali o Cavezzale), Burzi, Grossi, Lodi (anche Allodi), Alliori, Arrigoni (o Arigoni o Rigoni), Arpiani (o Appiani). Dal ‘700 in poi compare Garavelli, Cigallino o Cigalini, Casone, Beltrami. E altri spariti del tutto come Abbove, Turcani, Vassalli, Millo (o Milo), Falabrini, Malaterra, Gramelotti, Dallocchio (oppure Dall’Occhio, latinizzato in “Ab Oculo”).
Una curiosità sul cognome Trabella; fino alla metà del ‘600 il cognome era annotato come Oltrabella. Da quel momento in poi è tramutato in Trabella: ne ignoro assolutamente il motivo.
E almeno un Degiorgi ha avuto un rapporto di parentela, seppur minimo, con questi altri cognomi citati. A Suardi credo di essere stato imparentato con molte famiglie che oggi ci sono ancora e che in passato hanno avuto un legame stretto con la mia famiglia. Oggi si dice “pärènt ä lä lòngä” proprio perché, rispetto ad oggi, è una parentela lontana.
Per far capire meglio il rapporto di parentela di cui ho parlato, faccio un chiarissimo esempio (forse le persone di Suardi che stanno leggendo, capiranno di chi sto parlando): la bisnonna dell’impiegato comunale storico di Suardi, lo stimatissimo ed amatissimo Francesco Beltrami, si chiamava Rosa Sozzi che aveva sposato Giuseppe Beltrami, il suo bisnonno. Facendo le ricerche genealogiche sono venuto a scoprire, con il grande stupore di entrambi, che Rosa, la sua bisnonna, era la sorella di Santina Sozzi, la bisnonna di mio papà ovvero la moglie di Felice Degiorgi (i miei trisavoli). Ecco perché la parentela è definita “ä lä lòngä” cioè, nel passato, eravamo parenti. Rosa e Santina erano sorelle, Felice e Giuseppe erano cognati. Una parentela stretta, diretta, siamo intorno alla metà dell’800 quando le due sorelle hanno sposato una, un Beltrami e l’altra, un Degiorgi.
La felicità è stata tale che Francesco, la sera stessa, telefonò a papà dicendogli, quasi gridando: “Driàno, ä sumä pärènt” e continuando “i nòs dü bisnòn ierän surél”. Indimenticabile Francesco, per chi lo ha conosciuto: ho avuto la fortuna di lavorarci insieme per quasi due anni, mi aiutò anche nelle ricerche, vivendo e provando la stessa curiosità ed emozione che provavo io. Era un uomo straordinario, di una discrezione unica. Potrei definirlo il Tosini di Suardi (i pievesi capiranno molto bene il riferimento).
Le generazioni che ho ricostruito sono 15 e devo dire che non è stato affatto semplice collegare ogni nome tra di loro, dividendo la parentela diretta con quella collaterale (o indiretta).
Il primo nome rinvenuto è stato “Ant.” o “Antonj” (Antonio), l’antenato più lontano da me, l’ascendente diretto più indietro nel tempo che ho rinvenuto ed insieme alla moglie “Marga” (Margherita) Torre li considero i “capostipiti” e la base di partenza per il mio “impegnativo” albero genealogico. I dati anagrafici di queste due persone non li ho, nascono prima della compilazione dei registri parrocchiali (1580), nascono presumibilmente tra la prima metà e la metà del ‘500 (tra il 1535 e il 1550) e reperisco i loro nominativi dagli atti dei loro figli. Di loro non ho trovato atti di morte, so soltanto che entrambi, al momento dei matrimoni di due dei loro figli, nel 1608 erano ancora vivi mentre nel 1617 erano “quondam”, letteralmente, “una volta” (???) quindi “deceduti”.
La narrazione di questi due personaggi del passato scorre attraverso i dati dei loro figli, dai loro battesimi, dai loro matrimoni e dalle loro morti. Cosa facessero di preciso lo si può immaginare dal contesto storico di Borgofranco in pieno XVI secolo.
Verso la fine del ‘400, durante il ducato di Ludovico Maria Sforza detto il Moro, nuove colture vengono introdotte in Lomellina, in particolare quella del riso, già tentata da Galeazzo Maria attorno al 1470. Grande diffusione ha la coltura del gelso, le cui foglie sono indispensabili per l'allevamento del baco da seta, anch'esso introdotto in età sforzesca. La produzione serica acquista rapidamente importanza, diventando, per quasi quattro secoli, la maggiore fonte economica della zona. Proprio a seguito di questo sviluppo dell'agricoltura vengono costruiti nuovi complessi rurali, le cascine, per i quali si utilizza la classica tipologia "a corte chiusa".
Nel periodo in cui vivono Antonio e Margherita, i nostri capostipiti, c’è un andirivieni degli eserciti di Francesco I di Francia e di Carlo V d'Asburgo che causa qualche guasto in Lomellina, ma sono scaramucce alle quali la nostra terra è da sempre abituata. E’ ducato di Milano ma ancora per poco. Nel 1535 il ducato, e con esso la Lomellina, con la morte di Francesco II passano definitivamente agli spagnoli e rimangono a quella monarchia per quasi due secoli, fino al 1713. Benché la Lomellina sia stabilmente inglobata in uno stato (il ducato spagnolo di Milano), la sua posizione di marca di confine la espone ai continui passaggi di eserciti tra spagnoli, francesi, piemontesi e poi austriaci.
Le condizioni di vita non sono affatto buone e la gente, anche a Borgofranco, vive come può. I nostri due personaggi, Margherita ed Antonio, “äs rängiän mé ch’i pödän” ma nonostante tutto riusciranno, loro e le generazioni che verranno, a differenza di tanti altri contadini girovaghi di paese in paese, a rimanere stabili per oltre due secoli e mezzo, nello stesso borgo (un colpo di fortuna per un ricercatore). Soltanto nel 1833 avverrà per la nostra famiglia un cambio di residenza.
La storia dei nostri Antonio e Margherita (“Antonj et Marga” nel latino degli atti) prosegue nel prossimo post…. Continua…
TANTISSIMI ANNI FA … PARTE 27
Prosegue il racconto dei miei antenati Antonio Degiorgi e Margherita Torre (vissute nel pieno ‘500 e parte del ‘600), due persone così lontane da me che non riesco nemmeno ad immaginare come possano essere state nell’aspetto, nel carattere, nei modi; sono soltanto menzionati in qualche vecchio registro parrocchiale, unica ed indispensabile fonte storica ed anagrafica sulle persone.
Di loro compare soltanto il nome ma si hanno fonti certe e soprattutto documentabili che si sono sposati ed hanno avuto sei figli.
Sono loro i primi riferimenti certi della mia genealogia e, da alcuni di loro sono partiti quei rami famigliari ancora oggi presenti tra i quali anche il mio. Con il trascorrere dei secoli, alcune linee generazionali si sono fermate, hanno cambiato le parentele (se si trattava di donne hanno perso il cognome), la maggior parte sono rimasti contadini, alcuni hanno avuto più fortuna di altri, chi è vissuto a lungo, chi pochi anni, pochi mesi, pochi giorni, chi è addirittura morto subito o anche nato morto “sine nomine” (senza nome).
Ogni persona è una storia, un racconto, una dignità e dignità vuol sempre dire rispetto da parte di tutti. Per quel che mi riguarda, ricercatore da oltre 30 anni ma sempre e costantemente “in erba”, vengo travolto da queste interessanti notizie che mi sorprendono, mi incuriosiscono, mi appassionano e mi stupiscono ancora, come il primo giorno.
Stavo parlando di Antonio e Margherita, i capostipiti. Dal loro matrimonio, che non ho trovato perché antecedente i registri parrocchiali, sono nati 6 figli (calcolando che Ambrogio nasce nel 1573 circa, il matrimonio sarà stato almeno un anno prima). E qui ha luogo la grande scoperta, molto emozionante, della prima documentazione di battesimo dell’archivio di Borgofranco datata 14 maggio 1580 e dice quanto segue: “Ego presbiter Bianco de’Magiis Rector Parocha Sancti Bartolomei Burgi Franchi, baptezavi Elisabeth De’Georgj filia Ant. et Marga Torre (…) ad hoc idonei die 14 mensis Maj annorum 1580”. Il segno (…) è una parte tutta macchiata, non si leggono il padrino e la madrina ma si dice che sono idonei a questo scopo. Il sacerdote reggente è Bianco Maggi (rettore di Borgofranco dal 1578 al 1591) e ha battezzato Elisabetta, figlia di Antonio e Marga Torre. Elisabetta è la prima persona annotata nei registri parrocchiali. Prima di lei, ad Antonio e Marga, sono nati altri due figli: Ambrogio e Jacopo e dopo Elisabetta, sono nati Pietro, Camilla e Giovanni. Ora li elenco tutti dal primo all’ultimo: Ambrogio (1573-1643), Jacopo (1578-1648), Elisabetta (1580-1639), Pietro (1582-1653), Camilla (1586-1647), Giovanni (1593-1594). Di Ambrogio e Jacopo non ci sono gli atti di battesimo ma la loro data di nascita (seppur non così precisa) l’ho ricavata dalla loro età quando sono morti. Eccetto l’ultimo figlio, Giovanni (“Jo”), morto bambino all’età di un anno, tutti gli altri hanno dato vita a generazioni che sono arrivate, quasi tutte, fino a noi. Eccetto i Degiorgi maschi che conserveranno il cognome, Camilla, nel 1608 sposerà Bartolomeo Abbove (un cognome scomparso a Borgofranco) e dal loro matrimonio nasceranno sei figli. Pur avendo a disposizione i dati di questa famiglia, non mi dilungherò più di tanto. Dei sei figli, non tutti saranno continuatori della discendenza e chi, tra loro, ha vissuto e si è sposato, ha generato famiglie che poi sono scomparse definitivamente intorno alla metà del ‘700. Camilla morirà a 61 anni nel 1647 a Borgofranco mentre il marito Bartolomeo a 48 anni nel 1629, sempre a Borgofranco.
Vengo al dunque parlando di Pietro, il quartogenito. Anche lui si sposa nel 1610 con Angela Barbieri, classe 1590 e dal loro matrimonio nasceranno tre figli, tre maschi, che daranno tutti origine a discendenza ma, come per la sorella Camilla, la famiglia si estinguerà intorno alla prima metà del ‘700 perché molte saranno femmine e altri moriranno bambini.
La sorte sarà diversa (menomale) sia per il primogenito che per il secondogenito, Ambrogio e Jacopo (o Giacomo). I Degiorgi presenti oggi a Pieve del Cairo, a Gallia e anche quel ramo dei Degiorgi rimasti a Suardi che si sono spostati a Mede, arrivano direttamente da loro. La mia famiglia discende da Ambrogio mentre i Degiorgi di Gallia, famiglia dalla quale deriva l’amico Cesare Degiorgi (figlio del dottor Francesco) discende da Jacopo. Una parentela molto “ä lä longä” che da una mia prima analisi (però errata) pensavo si fosse divisa molto più tardi (intorno alla metà del ‘700) ma, contrariamente a quanto supponevo, non è così. La divisione delle famiglie Degiorgi (quella di Cesare e la mia) è da ricercare proprio alle origini dei miei racconti, ai capostipiti “Antonj et Margha” e dai loro primi due figli. Papà me lo diceva sempre: “Sùmä no pärènt cul dutùr ma äncä lur, mé nüm, i vènän däl Bùrg”. I racconti di papà, dei suoi zii, del nonno, fino ad ora si sono rivelati tutti veri e fondati, come il racconto dei Degiorgi “siùr” e i Degiorgi “pòvär”.
E proprio questi due rami portano a quanto asserito dai racconti: stessa origine ma due destini molto diversi, con tenori di vita differenti. Se la discendenza di Ambrogio è sempre stata costantemente composta da “fitàul”, villici, contadini, conduttori di terreni “sùtä pädròn”, agricoltori, quella di Jacopo, nata nello stesso modo, ad un certo punto, intorno alla prima metà del ‘700, cambia condizione sociale: trovo possidenti, locatori di terreni, notai e quel benefattore di nome Paolo Degiorgi (1793-1850) che, chi conosce la storia di Borgofranco, lasciò, alla sua morte avvenuta senza eredi, tutti i suoi beni (soldi e terreni) all’esistente Ospedale di Carità San Giacomo dei Pellegrini, poi diventata Opera Pia Degiorgi e successivamente Opera Pia San Giacomo che dava assistenza ed asilo ai poveri del paese.
Da Ambrogio e da Jacopo, discendenti di “Antonj et Margha” nasceranno le nostre realtà di oggi che, per ora, aspetteranno fino al prossimo post per essere narrate… continua…
TANTISSIMI ANNI FA … PARTE 28
Riprendo da dove avevo lasciato.
Ambrogio Degiorgi è il mio ascendente diretto. Da lui, generazione dopo generazione, si arriva fino a me e a mio figlio Simone.
Faccio un bello “scivolone” di circa 400 anni e mi trovo al 1617, anno in cui Ambrogio ha all’incirca 44 anni e si sposa. Già vecchio per sposarsi e, controllando tutti gli atti di matrimonio di Borgofranco, non è stato sposato con nessun’altra donna prima di Barbara Cavezali (con una “z” soltanto, ma non fa testo, avrei potuto trovare scritto anche “Cävsàl” dialettizzato oppure “De’Cavezalis” latinizzato), figlia di Giovanni Bartolomeo (“Jo Bart”) e Domenica Cavezali (nell’atto di battesimo entrambi hanno lo stesso cognome ma, il parroco, potrebbe aver omesso il cognome della madre ed indicato solo il cognome della famiglia del marito). Dalle poche notizie che ho sulla famiglia Cavezali, per ovvi motivi, perché sono agli inizi delle annotazioni parrocchiali, scopro che ha una sorella, Marta, nata nel 1592 (mi fermo qui perché non so altro).
Barbara ha 22 anni, classe 1595, una giovane ragazza nata e vissuta a Borgofranco, in una famiglia di contadini. E’ un periodo molto buio, brutto per le terre della Lomellina e i miei lontani antenati si imbattono in tanti tumultuosi avvenimenti non tanto per il Borgofranco ma per quelle terre attorno ad esso. Vivono di riflesso una situazione che potrebbe non averli coinvolti direttamente ma, diciamo che, quando “ci si trova in mezzo”, non è mai una bella situazione.
Nel 1612, alla morte di Francesco Gonzaga, duca di Mantova e marchese del Monferrato, il duca di Savoia, Carlo Emanuele I, avanza pretese di successione; si accorda con Enrico IV re di Francia, ed ottiene il suo impegno militare contro la Spagna in Italia. Dal canto suo, il governatore di Milano, il conte Fuente de Ezevedo, raccoglie un forte esercito in Lomellina. Ne viene fuori una guerra che si concluse nel 1617, lasciando il tutto come prima. Queste scorribande di eserciti nella Lomellina dal 1614 al 1617 spiegano la presenza in questo periodo di molti disertori spagnoli e napoletani. Anche negli archivi parrocchiali si può notare la presenza di diverse annotazioni di morte con cognomi non proprio lomellini del tipo Rodriguez, Garcìa (spagnoli) e Cirillo, Russo (napoletani). Sostanzialmente in Lomellina quindi, nei borghi in cui vivevano i miei avi, nessun assetto cambia, né territoriale, né politico.
Parentesi storica a parte, a mio parere sempre doverosa, Ambrogio e Barbara si sposano, il giorno 8 gennaio 1617, lui 44 anni e lei 22.
A celebrare le loro nozze è il sacerdote Don Bernardo Bocchio (“Rector Bernardus Bochio, Parocha Sancti Bartolomei Apostoli loci Burgi Franci”), rettore di Borgofranco (in carica per 35 anni, dal 1592 al 1627). Nell’atto di matrimonio vengono annotati tre testimoni e precisamente “Sebastianj Trabellis, Matheo Ab Oculo et Margha de’Trotj” (Sebastiano Trabella, Matteo Dall’Occhio e Margherita Trotti, cognomi prettamente suardesi).
Immagino il loro matrimonio quel giorno, un momento famigliare molto semplice, conviviale, alla presenza di genitori, fratelli e sorelle sia di lui che di lei e pochissimi altri intimi. Tutto ruotava, almeno per le famiglie così povere, intorno al significato del “sacramento” in sé e non alla “festa”. Una giornata comunque gioiosa e spensierata per Ambrogio e Barbara, almeno quel giorno. Poi si ricominciava tutto da capo: lavoro, famiglia e poi … numerosa prole. Difatti, Barbara ed Ambrogio avranno nove figli di cui otto femmine e un solo maschio, unico continuatore della discendenza. Il ramo da cui discendo io si sarebbe potuto interrompere già quattro secoli fa ma, per fortuna, le cose sono andate diversamente (ed io sono qua che scrivo).
Da una visita pastorale fatta dal vescovo di Pavia nel 1635 risulta che Ambrogio Degiorgi é tesoriere della Confraternita di Santa Maria della Misericordia o di San Giovanni Decollato (“Profilo storico di Borgofranco di Lomellina oggi Suardi”, Fagnani-Torti, 1982, pag.172) quindi il mio antenato non era proprio un “pòvr’òm” ma “äl sàvä lës, scrìv e fà i cünt”. E per i ceti sociali meno abbienti non era cosa da poco.
E dei nove figli di Ambrogio e Barbara, sono gli atti parrocchiali a parlare di loro: Angela Francesca (1618-1618), Elisabetta (1619-1629), Giovanna Margherita (1622-1692), Antona Domenica (1625-1627), Domenica Francesca (1626-1699), Angela Francesca (1629-1629), Angela Francesca (1630), Angelo Francesco (1633-1702), Antonia (1637-1649).
Ambrogio è un padre già “avanti” con gli anni, quando nasce l’ultima figlia, Antonia, ha già 64 anni e Barbara ne ha 42. Hanno visto figli morire presto a causa delle condizioni dell’epoca e solo 4 di loro continuare, chi per poco, chi per tanto, la loro discendenza.
La discendenza continuerà grazie ad Angelo Francesco, l’ottavo dei nove figli, unico maschio a portare in alto il “vessillo” della famiglia Degiorgi.
Nel settembre 1629 l'esercito alemanno (Lanzichenecchi), proveniente dalla Valtellina, si congiunge a quello spagnolo a Milano. Il capitano Rambaldo, con i tedeschi, assale Mantova e il capitano Spinola, con gli spagnoli, fa rotta su Casale. Questi, con 16.000 fanti e 4.000 cavalieri “mescolati di spagnoli, tedeschi, napoletani e lombardi”, dirigendosi nel Monferrato, sostano in Lomellina e “vi lasciano la peste”. Anche la Lomellina viene quindi colpita dalla peste del 1630, quella descritta dal Manzoni nel romanzo "I Promessi Sposi"; anche il Borgofranco e i paesi limitrofivengonocolpiti, mainmanieramenoinvasiva, più marginale.
Non ho tracce documentate di vittime di questo male “oscuro” nella mia famiglia, per fortuna. Chi redigeva gli atti negli archivi parrocchiali, non sempre annotava in modo dettagliato, soprattutto quelli di morte, la causa (quasi mai). I preti, non tutti così “eruditi”, usavano quel latino “maccheronico” adottato per convenzione (perché si doveva usare) e anche tante parole in dialetto (perché la gente parlava solo quello); anche l’età della morte era spesso approssimativa ed annotata come “circiter” (circa). Queste informazioni più dettagliate le troverò soltanto un paio di secoli più avanti, non nel ‘600.
E la vita di Ambrogio scorre abbastanza indisturbata, come quella dei suoi 9 figli, morendo il 19 marzo 1643 all’età di 70 anni circa (annorum septaginta circiter) mentre Barbara Cavezali morirà cinque anni dopo, il 7 aprile 1648 a 53 anni (oggi la definiremmo “una giovane donna” ma in quel secolo, arrivare anche a 50 anni non era cosa da poco, figuriamoci a 70 anni come Ambrogio).
E dei loro figli? Focalizzerò l’attenzione su di loro ma soprattutto sull’unico maschio: Angelo Francesco Degiorgi.
Con curiosità aspettiamo il prossimo post…
TANTISSIMI ANNI FA … PARTE 29
Nel post precedente, ho raccontato della vita di Ambrogio Degiorgi e Barbara Cavezali, personaggi vissuti a cavallo tra il ‘500 ed il ‘600. Di loro, nonostante i limiti nella ricerca dovuti agli avvenimenti accaduti oltre 400 anni fa, ho potuto trovare diverse informazioni importanti ed essenziali, sufficienti a delineare un profilo personale di entrambi nonché raccontare un po’ della loro vita. Purtroppo nessuno ha potuto conoscerli di persona, fotografarli, parlarci. Di loro parlano i documenti degli archivi, quei fogli che profumano di muffa, “äd särà sü”, ma che affascinano così tanto che è come aver davanti quei personaggi mentre li leggi ed intanto prendi appunti.
I figli di Ambrogio e Barbara sono nove e per la precisione: Angela Francesca (1618-1618), Elisabetta (1619-1629), Giovanna Margherita (1622-1692), Antona Domenica (1625-1627), Domenica Francesca (1626-1699), Angela Francesca (1629-1629), Angela Francesca (1630), Angelo Francesco (1633-1702), Antonia (1637-1649).
Di loro posso fare alcuni cenni soffermandomi su qualche fatto curioso (dispongo di tutti i dati necessari ma risulterei molto dispersivo, almeno in questa sede). Direi che, praticamente quasi tutte donne, hanno perso il cognome della famiglia di origine acquisendo quello del marito (per chi si è sposata) e soltanto Angelo Francesco Degiorgi, unico figlio maschio, ha portato avanti la generazione ed il cognome.
Faccio una breve carrellata sui loro figli per far capire che sono esistiti: Angela Francesca (1618-1618) morta a soli 2 mesi, Elisabetta (1619-1629) morta bambina a 10 anni, Antonia Domenica (1625-1627) morta a 2 anni e mezzo, Angela Francesca (1629-1629) morta a solo un mese (quanti bambini morivano!). Antonio (1637-1649) bambina morta a soli 12 anni.
Tengo per ultimi quelli che sono vissuti più a lungo: Domenica Francesca, nasce a Borgofranco nel 1626, si sposa con Dall’Occhio Pietro Francesco (nato a Borgrofranco nel 1606). Dal loro matrimonio celebrato in Borgofranco nel 1647 nascono 2 figli: Ambrogio nel 1648 e Pietro Francesco nel 1650. Domenica Francesca ha 24 anni ma il marito ne ha 20 in più, 44, e non nasceranno più figli. Domenica Francesca muore a Borgofranco a 73 anni nel 1699 mentre il marito nel 1655 a 49 anni, sempre a Borgofranco.
Angela Francesca, nasce nel 1630 a Borgofranco e nel 1666 si sposa con Arighi Francesco (poteva essere anche Arrighi, o Arrigo o anche Arrigoni); di lei e del marito e di eventuali figli della coppia non si sa più nulla. Dalla data del matrimonio, entrambi i nomi scompaiono da Borgofranco. Si saranno trasferiti? Probabilmente ma, i dati al momento, non mi permettono di asserirlo.
E c’è Giovanna Margherita, altra figlia di Ambrogio e Barbara con una storia non strana ma singolare, curiosa. Nasce a Borgofranco nel 1622, si sposa 3 volte nel giro di un anno soltanto; infatti il 2 febbraio 1643 sposa Grossi Pietro Martire (1619-1644) dal quale ha un figlio, Pietro Antonio (1644-1650, muore bambino a soli 6 anni). Nello stesso anno in cui nasce suo figlio, muore il marito all’età di soli 25 anni a Borgofranco (nell’atto di morte viene citato “ob morbus”). Giovanna Margherita ha 22 anni ed è già vedova. Succede questo fatto: si risposa ancora 2 volte; fin qui non c’è nulla di così strano se non che questi 2 matrimonio avvengono a distanza di 4 giorni l’uno dall’altro. Infatti il 1° maggio 1644 sposa Tabelotti Battista ma il giorno dopo, il 2 Maggio, il marito muore (non si conoscono i motivi del suo improvviso decesso) e il 5 maggio si risposa per una terza volta con Cavezzali Giacomo Abbondio. Da questo terzo ed ultimo matrimonio nasceranno 5 figli: Carlo Francesco 1645, Franco Ambrogio 1649, Annibale 1652, Barbara Maddalena 1653, Domenico 1657. Giovanna Margherita muore a Borgofranco nel 1692 a 70 anni mentre il Cavezzali, l’ultimo marito, muore a Borgofranco a 85 anni nel 1705. Che storia!!!!
Ma ora mi devo fermare e fare luce sul personaggio più importante (senza togliere nulla agli altri ovviamente) perché l’unico maschio della prole, Angelo Francesco Degiorgi, figlio di “Ambrosjj et Barbara” e nipote di quegli “Antonj et Margha” capostipiti indiscussi della mia famiglia.
Angelo Francesco Degiorgi nasce a Borgofranco il 17 febbraio 1633, si sposa il 18 gennaio 1665 – sempre al Borgofranco - con la signorina Caterina Trotti (un altro cognome suardese ancora presente oggi), figlia di Francesco (di Pietro) e di Antonia Di Gerolamo (in seconde nozze). Dalle notizie rinvenute con gli atti parrocchiali, Caterina ha altri quattro fratelli nati dalla prima moglie di suo padre (Agostina Vassalli) e precisamente: Antonia 1614, Pietro Antonio 1615, Pietro Martire 1618, Domenica Caterina 1621 e infine altri 5 fratelli dalla seconda moglie (dalla quale nascerà anche lei): Angela Caterina 1622, Caterina Maria 1623, Maddalena 1633, Giovanni Bartolomeo 1638, Maddalena 1641.
Dal matrimonio tra Angelo Francesco e Caterina Trotti, nascono quattro figli: Giulio Giuseppe (1666-1711), Angela Ludovica (1669-1670), Paolo Antonio (1672-1690), Giovanna Teresa (1680-1740). Non è una famiglia molto numerosa ma la nostra attenzione verrà focalizzata sul primogenito, Giulio Giuseppe che darà continuità alla mia parentela.
Angelo Francesco muore a Borgofranco il 20 marzo 1702 a 69 anni mentre la moglie Caterina, il 29 gennaio 1690 a 55 anni, sempre a Borgofranco.
Due personaggi vissuti nel pieno ‘600 e storicamente, quante cose succedono in Lomellina.
La pace dei Pirenei, del 7 novembre 1659, pone fine alla guerra tra francesi e spagnoli, durata 23 anni; come conseguenza, Valenza e Mortara ritornano agli spagnoli, che restituiscono ai piemontesi Vercelli.
La desolazione della Lomellina, percorsa per quasi mezzo secolo da eserciti in guerra, si aggrava talmente da determinare forti correnti emigratorie;
La Provincia di Lomellina, della quale il Borgofranco fa parte, è amministrata da una congregazione eletta da 25 comuni e composta da un Sindaco generale sedente presso il Governo di Milano, un Sindaco forense, quattro Consiglieri - di cui uno di Mortara - e un Cancelliere. Nel 1675 comincia ad uscire una gazzetta regolare.
Ma questa è una storia troppo “altisonante” che non vorrei trattare quindi, ritorno a parlare di gente umile, di borgo, di quelle origini contadine e di quella storia che potrebbe non interessare quasi a nessuno ma, a me, piace tanto…. Continua
TANTISSIMI ANNI FA … PARTE 30
Prima di parlare della discendenza di Angelo Francesco Degiorgi e di Caterina Trotti, i miei ascendenti diretti, quelli che arrivano a loro volta da Ambrogio Degiorgi e Barbara Cavezali e che si collegano direttamente ai capostipiti “Antonj et Margha”, vorrei fare un breve cenno anche ai rami collaterali dei fratelli di Ambrogio Degiorgi. Cercherò di non fare troppa confusione con i nomi per non rischiare di fare un gigantesco “rìs e fäsö”. La famiglia dei capostipiti era composta da 8 persone, i genitori e i sei figli. Dei sei figli, oltre ad Ambrogio (il mio ascendente diretto), c’erano Jacopo, Pietro, Camilla e Giovanni ed Elisabetta. Eccetto Giovanni che è morto ad un anno, tutti gli altri hanno dato origini a discendenze che, dalle fonti che possiedo, si sono estinte nel tempo (intorno alla metà del ‘700). Soltanto un ramo è arrivato fino a noi, a parte quello di Ambrogio: il ramo di Jacopo. La sua discendenza porta ai Degiorgi di Gallia, quella discendenza che arriverà, passando per 14 generazioni, fino al dottor Francesco Degiorgi e a suo figlio Cesare, residenti a Pieve del Cairo. E’ l’unico ramo, eccetto il mio (quello di Ambrogio) che è arrivato fino ad oggi. Nella genealogia di Ambrogio (la mia praticamente), intorno alla metà del ‘700 si separerà un altro ramo di Degiorgi che saranno quelli che rimarranno a Borgofranco, poi diventato Suardi, fin quando, intorno agli anni ’80 del ‘900, si trasferiranno a Mede. Ho a disposizione tutti i dati dei rami collaterali ma non è questa la sede per trattarli: renderei la lettura monotona e pesante (un “priön” praticamente).
Vorrei tornare a parlare dei Degiorgi del mio ramo, prendendo come riferimento, come ho già scritto prima, i quattro figlio di Angelo Francesco e di Caterina Trotti. Il primogenito è Giulio Giuseppe Degiorgi (1666-1711) che voglio trattare per ultimo. C’è Angela Ludovica (1669-1670) che muore a pochi mesi di vita, poi Paolo Antonio (1672-1690) morto a soli 18 anni “ob morbus repentinus”, quella generica dicitura che veniva scritta quando si moriva improvvisamente di qualcosa che, forse, nemmeno i medici riuscivano a spiegare. E ancora Giovanna Teresa Degiorgi, nata nel 1680 e sposata nel 1701 con Domenico Gabba. Di questa famiglia non so più nulla, in archivio esiste solo l’atto di battesimo di Giovanna Teresa e l’atto di matrimonio. Gabba, il cognome del marito, non è originario di Borgofranco. Che si siano spostati in un altro paese? Possibile! Ma quello che so, dagli atti, è che Giovanna Teresa torna a Borgofranco per morire all’età di 60 anni nel 1740. Non ho trovato figli, non ho trovato l’atto di morte del marito, non ho trovato nulla. Non è il solo ma, questo, come altri, è uno di quei ramoscelli spezzati che concludono la loro esistenza (proprio per mancanza di documenti).
E vengo a lui, al mio ascendente diretto nonché il primogenito di Angelo Francesco e Caterina Trotti, Giulio Giuseppe Degiorgi. Nasce a Borgofranco il 27 aprile 1666, viene battezzato dall’allora parroco Angelo Corti (reggente dal 1655 al 1681) “Rector DeCurtis”, padrino e madrina furono Jo Ant (Giovanni Antonio) Arpiani e Clara Abbove. All’età di 27 anni, il 7 settembre 1693 si sposa con la 21enne Maria Domenica Trabella nata nel 1672 a Borgofranco.
Qui apro una doverosa parentesi non storica (come faccio di solito) ma curiosa: Trabella è un cognome dei più antichi di Borgofranco, tanto antico quanto diffuso ancora oggi. Ebbene, ricostruendo un piccolo albero genealogico della Maria Domenica Trabella, mia antenata diretta, noto una cosa che non so spiegare (almeno, le mie conoscenze non permettono di approfondire questo fatto): il cognome Trabella, prima di Maria Domenica è annotato come Oltrabella. Il padre di Maria Domenica è Bartolomeo Oltrabella (1633), il nonno è Giovanni Maria Oltrabella (1609), il bisnonno è Pietro Oltrabella (1587) e se la presenza di ulteriori registri lo avessero permesso, avrei trovato altri Oltrabella ancora più indietro. Da Maria Domenica in poi il cognome sarà Trabella come tutti i suoi fratelli e sorelle.
Ci sarà sicuramente una spiegazione logica ma, sinceramente, non la conosco (e non la saprò mai).
Torno a parlare di Giulio Giuseppe Degiorgi: dal matrimonio con Maria Domenica Trabella nasceranno ben 11 figli, 8 femmine e 3 maschi. L’ultimogenito maschio, Pietro Francesco Degiorgi (1708-1782) sarà il continuatore della discendenza. Una prole notevole quella di Giulio Giuseppe e Maria Domenica, una vita dedita al lavoro, alla famiglia, ai figli e purtroppo una vita piuttosto breve. Al quell’epoca, chi viveva oltre 40 anni poteva dirsi contento e lui non ha vissuto tanto di più. Giulio Giuseppe muore a Borgofranco il 14 novembre 1710 a 45 anni mentre la moglie, l’anno dopo, il 20 novembre 1711 a soli 37 anni. Una vita breve, 11 figli, 5 morti prematuramente e gli altri lasciati orfani in tenera età. Alcuni di loro, i più grandi, seppur di poco, avranno fatto da genitori ai più piccoli in un periodo storico non certo roseo e tranquillo, in un epoca particolarmente priva di comodità, di ogni genere. Calcolando che Giulio Giuseppe e Maria Domenica sono morti a distanza di un anno l’uno dall’altra, tra il 1710 e il 1711, i bambini (quelli rimasti) erano molto piccoli (dai 3 ai 14 anni): i grandi hanno allevato i piccoli. Ma una volta ci si aiutava molto tra famiglie in genere e c’erano gli Ospedali di Carità (diventati poi Opere Pie). Nel ‘700, a Borgofranco, esisteva già l’Opera Pia San Giacomo dei Pellegrini che aiutava poveri, orfani, famiglie indigenti dando loro protezione, cure ed asilo. Credo che i bambini di Giulio Giuseppe e di Maria Domenica abbiano conosciuto anche questa realtà, disagiati da un’infanzia non molto serena, causata da queste gravissime perdite famigliari. Ma la vita, per fortuna, va
avanti, i bambini, malgrado tutto, crescono e le generazioni proseguono.
E’ il “miracolo della vita” ed è accaduto anche qui…. Continua …