Che cosa ho cercato? Dove ho cercato? / I mestieri di un tempo

I MESTIERI di un tempo
Quali erano i mestieri in “voga” nei secoli passati? Di certo non molti come adesso ma erano tanti ed oggi, di questi, non ne esistono più: c’erano i signori (pochi) che non lavoravano e per loro lavoravano altre persone, c’era il borghese medio che dava lavoro ma svolgeva anch’egli un’attività e infine il basso ceto (la maggioranza del paese) con famiglie molto numerose che lavoravano duramente e, con quello che guadagnavano, faticavano a campare perché le bocche da sfamare erano tante. Di quale categoria facessero parte i Degiorgi lo si può dedurre dal fatto che nessuno di loro, portava il titolo di “signore”, di “Illustrissimo”. Il lavoro principale che offriva la zona in cui vivevano era quello del contadino, del bracciante, del macellaio, del lattaio, dell’oliario, del bifolco[1].
In questa sezione verranno prese in considerazione le varie professioni, molte delle quali sono scomparse, che che hanno costituito per molto tempo una parte importante del tessuto vitale dell’economia lomellina e pievese. L’economia famigliare che si basava sull’orto e sul maiale (quindi l’importanza della terra e degli animali che si allevavano), era improntata al risparmio e la riutilizzo. I prodotti che si acquistavano non erano assolutamente come quelli di adesso, un prodotto era fatto per durare, e durare tanto anche perché non c’era quella liquidità che permetteva alle famiglie di cambiare le cose spesso. Citiamo per esempio i capi d’abbigliamento o anche qualsiasi tipo di oggetto; i primi venivano riutilizzati da tutti i famigliari più piccoli varie volte e i secondi, quando si rompevano, si cercava sempre di ripararli prima di buttarli definitivamente.
Ecco quindi che gli artigiani tipo: sarto, calzolaio, zoccolaio, stagnino, arrotino, ombrellaio, avevano senso di esistere perché permettevano alle persone di rimanere affezionati a quel capo o a quell’oggetto, per tanto tempo perché ognuno di questi artigiani era in grado di riparare le cose così da poterle riusare ancora.
Non possiamo sapere precisamente che lavoro svolgessero i nostri padri se non dal 1838 in avanti, quando negli atti prestampati in italiano compariva la voce della professione. La professione dei miei antenati era principalmente quella di contadini, di persone dedite alla campagna, agli animali, e per le donne alle faccende di casa. Il disoccupato era chiamato “nullafacente”. Molte famiglie benestanti che potevano permettersi agi e lussi dichiaravano di essere “benestante” o addirittura “signore”. Ancora oggi, nella mia famiglia ci sono ricordi lontani dei parenti del “Burg” (il Borgofranco, Suardi), tanto che, quelle storie che i nostri cari scomparsi raccontavano, sono ora realtà grazie ai documenti rinvenuti durante questa ricerca. Un mio zio, fratello del nonno, Carlo Degiorgi (mio omonimo) raccontava: “nel Burg (Suardi), quando ero giovane io, c’erano i Degiorgi poveri e i Degiorgi ricchi: noi discendiamo da quelli poveri”. Lo zio Carlo sapeva effettivamente qual era la realtà delle cose: i documenti rinvenuti dopo tanti anni hanno suffragato non le sue ipotesi ma le sue certezze.
Quando oggi si entra in una cascina ci si chiede come il mondo moderno abbia potuto cancellare in pochi decenni le tracce di una civiltà millenaria. Una civiltà che sopravvive ormai nei ricordi di qualche persona anziana o di giovani ostinati che non si rassegnano alla sua scomparsa. Solo cinquant'anni fa si potevano vedere nelle campagne lombarde lunghe file di donne curve nelle risaie, immerse nell'acqua fino alle ginocchia, sotto il sole per otto lunghe ore, mentre gli uomini lavoravano nei campi (con cavalli e buoi) dal mattino presto fino al tramonto perché la famiglia avesse una vita più confortevole. Ma accanto alle figure dei "contadini", all'interno di quei microcosmi si muovevano altri personaggi altrettanto instancabili ed impegnati: il camparo (che si occupava della rete irrigua), il ciabattino, il falegname, lo spazzacamino, il fabbro, l'arrotino, il muratore, il casaro.
Dopo la seconda guerra mondiale, con la meccanizzazione del lavoro, nelle campagne è iniziato il declino della cascina. Oggi molte sembrano fantasmi di un passato lontanissimo, ma alcune realtà resistono all'ingiuria del tempo e all'indifferenza della civiltà industriale. E' verso queste unità che ci indirizziamo per riscoprire ciò che rimane delle nostre radici comuni.
In quelle radici che rappresentano inizi comuni ed ancor diffusi, di mestieri che affondano le loro origini in epoche remote. Nelle corti di Lombardia, tra le principali figure che spiccano all'interno di una ben sperimentata organizzazione, possono essere evidenziati questi "artisti minori", ma il cui apporto fu fondamentale per il progresso agricolo della regione.
I mestieri erano comunque tanti e tutti indispensabili per la sopravvivenza di ogni famiglia per il normale ciclo vitale delle cose.
[1] Bifolco è colui il quale bada al bestiame, in particolare quello bovino. I suoi compiti tradizionali erano l'esserne guardiano e curarne l'utilizzo nei lavori agricoli, in particolare nell'aratura, dove prima della diffusione della meccanizzazione agricola si impiegava in genere una coppia di buoi. Il nome deriva dal latino bubŭlcus, da cui la forma volgare bufulcus.
I bifolchi erano indispensabili nei lavori agricoli. Erano riuniti in leghe durante gli anni venti, prima dell'avvento del fascismo, come i contadini o gli operai; spesso facevano parte della locale Camera del Lavoro, con una sorta di orgoglio della loro mansione lavorativa, socialmente considerata molto umile. Nella classificazione ISTAT del 1936 il bifolco indicava, in quasi tutte le provincie italiane, un dipendente addetto al bestiame bovino con contratto annuale. Nel diritto agrario, il contratto che legava il bifolco con il proprietario prese il nome di boaria. Pressoché scomparso l'allevamento di bovini da lavoro e non più usato il termine bifolco nelle stalle per i bovini da latte e da carne, oggi il termine bifolco si usa quasi solo come spregiativo, sinonimo di ignorante, zoticone, screanzato.

Il falegname:
In cascina il falegname veniva chiamato "lignëmè". Il suo compito era di metter mano a tutto ciò che era di legno, agli attrezzi da lavoro, in particolare fabbricava i carri. Molti dei suoi lavori erano in stretto collegamento con il fabbro. In cascina aveva un suo posto dove lavorare, e dove tenere il suo bancone, la pialla, la sega, il martello, i chiodi ma, difficilmente, il falegname viveva in cascina; era una figura un po' esterna all'azienda, forse un po' più libera. Non era, quella del falegname, una professione che arricchisse, perché l’edilizia non era molto sviluppata e quindi anche la produzione di infissi non era frequente. Ma si facevano tantissimi lavoretti di restauro e di manutenzione oppure, quando qualcuno si sposava, il falegname provvedeva alla costruzione di tutto il mobilio essenziale per la casa. Si usavano in prevalenza arnesi, passati da padre a figlio e pochissimi erano i macchinari automatizzati. Verso la metà dell’800 a Pieve del Cairo c’erano 9 falegnami[1] e a Cairo 5.

Il fabbro
I fabbri o maniscalchi (in dialetto “frè”) avevano un grosso lavoro nelle nostre zone, a Pieve e in tutta la lomellina. In ogni cascina di una certa dimensione vi era la bottega del fabbro ferraio. Spesso era collocata in un luogo di congiungimento tra la strada comunale o provinciale e l'ingresso nell'azienda. Al suo esterno vi erano esposti i vari arnesi simbolo dell'attività del fabbro. All'interno c'era un piccolo forno con una rotella a mano che faceva aria sul fuoco, l'incudine, i martelli, i ferri da cavallo, i chiodi e gli altri arnesi. Il fabbro aveva il compito di mettere i ferri agli zoccoli dei cavalli così che la presa della bestia sulla strada sterrata e sul selciato fosse il più sostenuta possibile; oltre a questo sistemava gli aratri, aggiustava i primi "volta fieno", le lame per le prime macchine tagliaerba. Con l’avvento delle macchine agricole ed il conseguente abbandono del cavallo, il fabbro ferraio tendera a scomparire quasi definitivamente.

Il sellaio
in dialetto “slè”, i sellai facevano i finimenti dei cavalli e dei buoi, quando questo non portavano il giogo o quando venivano usati individualmente. Facevano anche le selle dei cavalli ed i materassi per i “signori” perché quelli dei poveri contenevano le pannocche (skërtòss) del granoturco.

Il mugnaio
in dialetto “mulinè”, il mulino aveva un’importanza essenziale nella vita di tutti, perché permetteva di trasformare il grano ed il granoturco in farina, fondamentale per l’alimentazione di tutte le famiglie. Parte della paga dei salariati era espressa proprio in una certa quantità di cereali, che veniva affidata al mugnaio per essere trasformata in farina. La professione di mugnaio si tramandava di padre in figlio e spesso i mulini sono appartenuti o sono stati gestiti, per diverse generazioni, dalla stessa famiglia.

Il bottaio (sibrè)
il bottaio, o come ho trovato in documenti del 1871, “cebraro”, usava il legno di gelso (muròn) per fare i mastelli (sëbër) e le botticelle per portare l’acqua nei campi (bërlët) che erano gli articoli più richiesti oppure anche le botti per riempirle di vino, di olio.

Il casaro
Il caseificio era il luogo dove il frutto della natura e del lavoro veniva valorizzato in un prodotto atto ad essere collocato sul mercato per il profitto dell'imprenditore e per quel poco di reddito che finiva come salario nelle tasche dei lavoratori.Tra fumo ed umidità, tra "piate" (grossi recipienti a larghe tese) e "spanarole" (piatti di rame o di legno per raccogliere la panna), tra "sangule" (zangole per il burro) e "tassel" (secchielli per assaggiare il formaggio) lavoravano gli uomini dei caseificio guidati dal "cacè", detto anche "cap cacè".L'importanza del suo lavoro e delle sue responsabilità gli davano una posizione di particolare prestigio e rispetto tra tutti i dipendenti dell'azienda. Intanto normalmente abitava o presso il caseificio o in una casa vicina alla casa padronale, comunque in una posizione ben distinta dalle altre abitazioni.

Il mungitore
Sotto la guida del capostalla le bovine da latte erano accudite dai mungitori. Il salariato che svolgeva questa mansione era chiamato con nomi diversi secondo le zone nell'area della cascina: bergamino ("bergamin"), famiglio ("famei"). Se non era un salariato fisso ma aveva un rapporto saltuario, "volante", veniva chiamato "famei de fagot", per via del fagottello che si portava sempre dietro attaccato alla canna della bicicletta. Quel fagottello era tutta la sua casa, perché difficilmente chi faceva quel lavoro era sposato. In questa sua vita randagia alternava momenti di sgobbate molto intense, che duravano quelle quattro, cinque settimane in cui lavorava in una determinata cascina, con qualche giorno di "libertà", e di "alzate di gomito".

Il porcaro
Può sembrare curioso che un posto di lavoro come la "cacèra", così importante, avesse vicinissimo il porcile, e può sembrare ancor più curioso che il "purchè" (porcaro) lavorasse talvolta nel caseificio. Il fatto è che, dato che i maiali erano i consumatori degli scarti della produzione del formaggio, il "cap cacà" era anche responsabile della porcilaia. Dopo di lui veniva il "purchè" aiutato di solito da un ragazzotto, il "nimalàt". Il "purchè" era quello che lavorava sepre con i maiali. Le sue attenzioni erano dedicate in particolar ealle scrofe ed ai lattonzoli, alla riproduzione ed allo svezzamento. Dopo queste fasi delicate seguiva lo svilupo dei suini ripartendoli nei vari "stabiol" (baste) a seconda dell'età e della grossezza, e accudedo loro.

Lo stagnino
Era colui che riparava le padelle, le pentole, i paioli e tutti i recipienti di cucina (in dialetto “mëgnë’n”). Le raccoglieva tuttem dividendole per proprietario, e poi iniziava il suo lavoro in un angolo della corte della cascina. Accendeva il suo piccolo focolare e poi, dopo aver individuato le rotture, le stagnava cioè faceva sciogliere lo stagno e faceva la riparazione riportando tutto ai loro legittimi proprietari.

L’arrotino e l’ombrellaio (in dialetto “mulitë” e “umbrëlè”)
Periodicamente arrivava in cascina l’arrotino, in bicicletta, una bicicletta particolare che serviva sia come mezzo di trasporto che come strumento di lavoro perché era dotata di tutto l’occorrente. Infatti, con i pedali veniva azionata una ruota di pietra abrasiva sulla quale il mulitë passava sapientemente i coltelli, le forbici e tutti gli arnesi da affilare. Di solito riparava anche gli ombrelli: un ombrello allora doveva durare quasi una vita, era un bene assolutamente indispensabile perché una volta, quando pioveva, si andava a piedi o in bicicletta anche per raggiungere posti lontani.