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RICORDI BELLI
Zavattarello 11 marzo 1993 – 11 marzo 1994. Pieve del Cairo, 11 marzo 2021.
Sono passati 28 anni, 28 anni oggi.
Ricordo, circa un mese prima di questa data, di essere andato al Distretto Militare di Milano a chiedere informazioni su come mai non mi fosse ancora arrivata la cartolina per il Servizio Civile. Non che volessi partire a tutti i costi ma era già diverso tempo che avevo annullato il “rinvio” per fine studi e aspettavo la destinazione che non sapevo ancora quale fosse.
Arrivai al Distretto e chiesi ad un impiegato che mi disse: “Signor Degiorgi, la sua cartolina è partita 2 giorni fa e la riceverà a brevissimo”. Tempo di tornare a casa, non avevo ancora il cellulare, trovo mamma sulla porta che mi urla: “Nànu, t’ha rivà lä cärtulinä, ä son cuntentä pärchè at vè äl me päis, ät vè ä Sävätärè”.
A differenza delle mamme tristi perché il loro figliolo parte, lei era felicissima perché sarei andato per un anno intero nel suo paese natale, Zavattarello, che aveva abbandonato, per andare a fare la mondina, nel lontano 1947, a soli 17 anni. Mamma era del ’30. Purtroppo è mancata nel 2012.
Tornando al mio ricordo, proseguo il post. Iniziai a Zavattarello il mio anno di Servizio Civile in quella allora Casa Albergo e centro diurno per anziani, oggi RSA. Quante persone ho conosciuto, chi solo per poco e chi per tutto l'intero anno.
Se devo fare un conto approssimativo non riuscirei a farlo ma posso citare alcune persone che mi vengono in mente ancora oggi.
Non ricordo il cognome ma il volto della mitica Gina non lo scorderò mai, la signora Brigida che abitava alle Moline, la signora Lisa Febbroni, già allora ultranovantenne. Ricordo Romano Vernetti, simpaticissimo e tutti i suoi amici che lo venivano a trovare al pomeriggio (ai quali facevo sempre il the o il caffè). Ricordo bene la signora Ilde Filippini di Grazzi di Romagnese che ogni tanto la accompagnavo a casa per vedere se era tutto a posto. E il mio amico violinista Luigi Bonini (detto Gigéi) delle Moline che ogni tanto ho suonato con lui e con il grande Carluccio alla fisarmonica. E Berto Del Vago con la figlia, la quasi centenaria Clelia (originaria di Caminata), il simpatico Scovenna (sempre bello allegro…) e i signori Renzo e Santino che venivano a mangiare a pranzo, operai della ditta Gianesi.
E poi il direttore, il signor Cesare Bruni e l'allora sindaco Maria Rita Gennari, persone squisite e gentilissime. E il fantastico personale, Francesco, Arturo, Irene, Anna, Rosanna. Ricordo il dottor Giacomotti che mi ha curato una brutta gastroenterite che non mi permise di andare a casa per qualche settimana. E il personale del comune, straordinarie persone, Cinzia, Paola, Graziella e forse qualcun'altro che non mi viene in mente.
L'amico farmacista Alberto Mai, una delle prime persone che conobbi e le giornate allegre al Bar del Pèpi e le belle mangiate al Croce Rossa (ricordo una Festa dello Sport a cui fui invitato) dal signor Alberto Lazzati e anche dai cari Nanni e Mariuccia Mirani alle Moline dove si deliziava il piatto della casa "pisarei e fasöi" (dato che lei, molto amica di mia mamma, era piacentina, le veniva piuttosto bene).
Quanto avanti e indietro da Pieve del Cairo a Zavattarello, ogni settimana 120 km andata e ritorno. Ricordo le corse in macchina, su e giù per la vallata a fare commissioni per la struttura, a prendere la carne dal signor Pietro Pallavezzati a Crociglia, a Varzi all'ospedale a portare e a riprendere gli anziani, accompagnarli a prendere la pensione nei loro vicini comuni di residenza. E ricordo particolarmente quel sospirato giorno, 27 di ogni mese, quando andavo in banca, con il mandato, a prendere le mie 153.000 lire (che non possiamo nemmeno paragonare al valore di oggi perché si facevano tante cose con quei soldi).
Ricordo in particolar modo alcuni amici più o meno miei coetanei (anno più, anno meno), Paola Mirani, Daniela Buzzi, Elena Bozzarelli, Flavio Vernetti, un ragazzo che chiamavano "Materia" e molti altri di cui mi sfugge il nome. E la parrucchiera Maria Rosa, il simpaticissimo tabaccaio Serafino che da lui acquistai un bel libro sulla storia di Zavattarello.
E altri amici, anche un po’ più grandi di me con cui legai un pochino; ricordo il signor Nanni Comaschi, i signori Luciano Perelli, Giovanni Perelli, il signor Giancarlo Foppiani, la signora Pallini di Moline che mi diede la bicicletta, la Zita (non so altro di lei ma era un simbolo per Zava), le signore Antonietta Cavalleri e Lina Delbue, amiche di mia mamma, che ogni tanto mi volevano a casa loro a prendere il caffè, persone straordinariamente ospitali. E altre amiche di mia mamma che ricordo erano le signore Nanda e Teresita (non ricordo il cognome).
E il parroco, Don Guglielmo Giani con il quale passai dei bellissimi pomeriggi su e giù per i monti con la sua Panda 4x4 Grigia. E Don Pietro Nonna con il suo oratorio di San Rocco, davanti al comune.
E gli amici del coro, ora non ricordo tutti, insieme al maestro Giorgio Aversa, durante le celebrazioni in cui sono riuscito a partecipare e le prove alla sera in San Paolo.
E la bravissima signora Isa Armella dalla quale acquistai una bellissima spilla dipinta a mano che regalai a mia moglie per il suo compleanno e che ho ancora dentro il nostro portagioie.
E anche il pane fatto in casa che mi regalò la signora Miranda era una favola…
Quasi sicuro di tralasciare altri fatti o episodi accaduti, mi fermo qui, aprendo il mio cuore al ricordo di quegli anni belli di un 22 enne come tanti.
Sono stato bene, davvero. Ringrazio ancora tutte quelle persone che hanno contribuito, chi di più e chi in minor parte (ma non per colpa loro), a farmi sentire a casa.
Anche se ero già contento di essere venuto a Zavattarello perchè sapevo che era il paese della mia mamma. Un luogo caro e una parte preziosa e viva del mio passato.
Ricordi indelebili che nessuno potrà mai cancellare.

QUELLA NOSTALGIA CHE NON HO
Mi piace molto parlare del passato, quel passato “tutto mio”, fatto di lati visibili e ben definiti ma anche di quella parte nascosta, celata dalla memoria che fa dolcemente capolino scrutando quelle piacevoli sensazioni fatte di ricordi, di persone, di trascorsi famigliari, di momenti sereni. Mi piace scrivere anche se non ne sono così capace, mi piace parlare di quel mondo dimenticato di cui non parla quasi più nessuno, mi piace prendere di mira il presente ricordandogli che “si stava meglio quando si stava peggio”, che “era meglio prima”, che “non ci sono più le mezze stagioni” e che “una volta ci si voleva molto più bene di adesso”. Ho ricordi bellissimi di quando ero bambino, di mamma e papà che mi prendevano per mano e mi accompagnavano in ogni angolo della mia crescita con quel senso di discrezione e protezione che non è da tutti oggi. La mia giornata iniziava con il bacio della mamma al mattino, con quella carezza dolcissima di papà quando scendevo dal letto, con la preparazione del cestino della merenda prima di andare all’asilo, con una scodella di latte e biscotti per colazione, con l’odore dell’appretto mentre mamma stirava il mio grembiule, con il profumo del lucido da scarpe per “tirate a nuovo” i miei mocassini e quei pantaloncini corti sopra le ginocchia magari un po’ sbucciate da una recente caduta, con quelle calzette lunghe bianche a buchi, caratteristiche dell’abbigliamento dei bambini degli anni ’70.
E più avanti, dopo la scuola, il pranzo, un momento non così frugale come oggi ma con il rito della pastasciutta, della bistecca impanata, della patata cotta ed un pezzetto di torta “säbiusä” che faceva la mamma.
Ovviamente le nostre giornate erano scandite da detti ben precisi: “prima il dovere e poi il piacere” quindi si facevano i compiti e poi, per riprendere energia c’era la merenda dolce che non era il “saccottino”, il “flauto”, il “kinder bueno” ma era semplicemente (e ne sento ancora un gran profumo) pane, burro e zucchero. Una deliziosa prelibatezza che ci portava fino a sera quando si cenava con il caffè e latte, con le fette biscottate o i biscotti secchi. E ho fatto in tempo ad assaporare il rito del “Carosello”, guardato faticosamente su quelle TV in bianco e nero senza il telecomando con quegli schermi curvi e quella bassissima risoluzione, guardando quei programmi che precedevano, da lì a poco, la nostra messa a letto. Il Carosello segnava proprio la fine della nostra giornata e i bambini andavano “tutti a nanna” a fare sogni d’oro e ad attendere il nuovo giorno che sarebbe arrivato puntuale e che ci avrebbe visti compiere i medesimi gesti del giorno prima, sempre gli stessi, all’infinito fino a che non siamo diventati grandi.
Io ho una storia piuttosto singolare, in lomellino si dice che “sön un fiö äd polä végiä” perché i miei genitori mi hanno avuto in età avanzata per cui, contrariamente a tutti coloro che da bambini hanno potuto nutrire questo bellissimo sentimento, io non ho nostalgia dei nonni perché non li ho conosciuti. Ero molto piccolo quando ho perso le due nonne e mi ricordo di loro solo per “sentito dire” purtroppo, le ho conosciute solo sentendone parlare dai miei genitori. I loro racconti mi hanno fatto immedesimare così tanto in quel passato che quando parlo di loro è come se li avessi davanti ma, se devo essere assolutamente sincero, non mi mancano perché non li ho vissuti. Il nonno Luigi (nònu Ciö) e il nonno Giovanni non li ho proprio conosciuti perché sono morti entrambi prima che nascessi e le due nonne (nònä Tirisìn e nònä Custäntìnä) le ho perse quando avevo solo 5 anni. Nonostante abbia una foto insieme a loro, mi riesce difficile raccontare una giornata passata interamente con le mie nonne. Forse qualche breve episodio, quasi come dei fotogrammi molto veloci. Anche se cerco di fermare quelle immagine non ci riesco.
Questa nostalgia che non ho, di loro, mi manca. E’ un paradosso: come fa a mancarmi qualcosa che non ho avuto, che non ho vissuto, che non ho provato? Non è logico eppure, è così.
Quando sento quelli della mia età, praticamente i cinquantenni, che parlano con gli occhi lucidi per la commozione dei loro nonni e di quanto era bello stare con loro, non provo nostalgia ma, sinceramente, un po’ di invidia. Se tornassi indietro nel tempo mi piacerebbe davvero tanto passare una giornata intera con i nonni per capire cosa si proverebbe. Da come vengono descritti da tutti, nei lontani ricordi, saranno stati momenti stupendi.
Mi accontento però, e non dico poco, di aver avuto due genitori eccezionali, due persone che mi hanno fatto sia da genitori che da nonni (data la differenza di età, per l’epoca in cui ero bambino). Papà aveva 49 anni in più di me e mamma 41. Tra me e loro manca una generazione, quel lasso di tempo sufficiente a considerami doppiamente figlio e anche nipote allo stesso tempo. Sono stato cresciuto amorevolmente in entrambi i modi; forse è per questo motivo che ho ricevuto tanto amore ed affetto.
Non ho quella nostalgia dei nonni, purtroppo, ma mi manca da morire quel periodo così felice che non tornerà più ma che rimarrà “incastrato” tra le fessure del cuore per il resto dei miei giorni.

RICORDI
LA MIA VIA BENZO (lä mé viä Bènŝo) parte 1
Una strada piuttosto lunga, quasi 100 numeri civici che parte dalla centrale via Roma all’altezza della Bäncä d’Nuàrä (ora BPM), prosegue fino all’incrocio di Via Sebastiano Gianzana (che era un ambizioso giurista pievese) per proseguire in salita (lä Rämpunà, già Via Ramponata) costeggiando l’ala destra del castello Beccaria fino alla curva in fondo e proseguendo abbastanza stretta fino ad incrociare la via 1°Maggio (quasi in uscita del paese), all’altezza ad “l’érä ad Gägèri”.
Io ho 50 anni e, fin dove ho memoria per raccontare i fatti, sono stato anch’io un “fiò d’lä viä Bènŝo”. Quando ero bambino io, non era più Via Ramponata ma aveva già questo nome.
Ogni volta che chiedevano l’indirizzo della mia abitazione, rispondevo con grande orgoglio: “Abito in Via Benzo Benzoni”. Tutti giù a ridere, soprattutto a scuola, alle superiori frequentate in quel di Casale Monferrato dove ai miei compagni (che conoscevano poco “d’lä Pièv”), scattava la battuta: “Che era Benzo Benzoni? Un benzinaio?”. Io che sapevo un po’ la storia, spiegavo ai miei poco attenti amici che questo Benzo era un pievese che lasciò in eredità a favore della Chiesa, il suo possedimento che divenne un ospedale (questo era più o meno quello che ogni volta raccontavo). Documentandomi meglio avrei poi scoperto che questa antica istituzione ospedaliera (Hospitale) era datata 1134. E il tempo e la storia si sono susseguiti per centinaia di anni, da quel giorno di ben 887 anni fa, per la precisione. Di questi fatti di cui si hanno riscontri oggettivi da alcuni documenti ritrovati, non è rimasta praticamente alcuna memoria. Anche del dipinto sul muro di quella casa all’inizio della Rämpunà, non si vede quasi più nulla (quelli che poi divennero nel 1937, Enti Comunali di Assistenza, furono soppressi nel 1978).
Il dipinto lo ricordo bene, da bambino ci passavo davanti tutti i giorni; era ancora visibile il Cristo Crocifisso e ai piedi della croce due figure vestite in modo, si può dire, “spagnoleggiante”? Non conosco la storia di questo dipinto quindi, taccio e sorvolo.
Questa zona è sempre stata molto viva e, anche se staccata dal centro e non molto ricca di botteghe ed attività, era una zona di Pieve piuttosto particolare. Tengo a precisare che non sto parlando della storia della Via Benzo ma ricordo soltanto com’era negli anni in cui ero un ragazzino.
Certamente un 50enne come me avrà una percezione delle cose diversa da una persona più anziana che, ricorderà fatti più vecchi rispetto alle mie narrazioni, eventi che non conosco o non ricordo, semplicemente perché non c’ero.
Via Benzo è una parte di Pieve piuttosto alta, sicura, protetta e quella leggera salita la rende quasi “faticosa” da percorrere, soprattutto per le persone “diversamente giovani” cariche di buste della spesa.
Via Benzo, come un’arteria, percorre buona parte di Pieve costeggiando il centro storico, lungo circa 200 metri di mura del Castello che, dalla Ramponata, si erge maestoso e ben visibile sulla parte sinistra.
Ma vediamo chi abitava in Via Benzo (cito i personaggi che ricordo, dimenticandone sicuramente qualcuno, considerando che siamo tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli ’80 del ‘900), tenendo presente che insieme ai nomi dovrò, per più chiarezza di contenuti, indicare il soprannome (äl supränòm) : dalla Banca di Novara, si saliva e si incontrava Virginio Ferraris (detto Bragiu) con la sua Luigina (la Keka), poi c’era la Santina Fornito (che aveva perso il marito molto giovane), la famiglia Ansandri, la Carla Borella (recentemente scomparsa) “Lä Carlä däl Pulòn, ovvero, la Pulònä” e poi, appena più avanti, abitava una signora anziana (piccola e magra ma molto in gamba) che aveva la casa a Pegli (Genova), la Mariuccia Torre detta “la Mütivìnä”, poi ricordo le due sorelle che vivevano insieme, la Lina e la Maria Strina (già anziane allora), poi alla fine del primo tratto il signor Remo Merli (Remo ‘l särtù, äl Märlìn) di professione sarto con la moglie “lä Ebe” Ghislieri (se non vado errato, con loro viveva anche la sorella di Ebe, ma potrei sbagliarmi). Arrivando all’incrocio c’era lui, Pèdär Lusìä, un omone grande e buono. E’ stato organista della parrocchia per oltre 60 anni, dai tempi di Don Avanza fino a Don Sandro Lova quando, già molto anziano, veniva a Pieve a suonare alla messa in suffragio della moglie (quasi sempre era una “prefestiva” al sabato o una “vespertina” alla domenica)
Salendo sul primo tratto della Rampunà, ricordo la mamma del Sandro Panzarasa, la “Iétä” e dopo, i coniugi Cerri, lei era “la Ciüicélu” e quando si passava di lì, al pomeriggio, c’era il “sacro raduno” in casa, ovvero il ritrovo delle donne (chi già vedove e chi no) con la recita del rosario “completo” (tutti i misteri e 150 Ave Marie), tutti i santi giorni, per l’intero anno solare. L’orario era intorno alle 15 del pomeriggio d’inverno (primä ch’äl gnìvä scür) e alle 17 d’estate (äl gnìvä scür püsé tàrdi). Tra le partecipanti c’era anche Maria Degiorgi, sìä Marijn äd Bälòs, la sorella di papà che non se ne perdeva uno. Mi capitò una volta di andare a prendere la zia per portarla a casa quando la Iétä mi disse: “Gioia, vènä dèntä, che ät fòn äl thè, nüm umä quasi finì”. Mi fece entrare, mi fece sedere su quel comodissimo divanetto e mi portò il the. Quel suo “umä quasi finì” durò ancora un’ora “buona”, il tempo di ascoltare quelle ultime 50 Ave Marie (dettagli). Che donnina simpatica che era la Iétä.
Bene, proseguo con i ricordi percorrendo la Via Benzo: considerando la parte sinistra completamente disabitata perché c’era (e c’è tutt’ora) il muro del Castello, la parte popolata era quella a destra per circa 150-200 metri. Salendo si trovava la Saretta Dan (maniaca del pulito), poi il Mario Cucchi (che chiamavamo “al Mario däl vìn”) che vendeva acqua, vino e bevande. Mario era un brav’uomo, coscritto con la mia mamma (classe 1930), amico di papà ed io, al quell’epoca ero compagno di giochi dei suoi figli. Dopo di lui c’era una grande casa, di colore “scolorito”, quasi più intonacata, disabitata da tempo che quando si arrivava al grande portone (che sarebbe stata l’entrata del cortile), noi ragazzi avevamo paura che ci fossero dei pericoli. Era “lä cà äd Gävìli” e i vecchi ci dicevano di non sostare davanti a quel portone perché c’erano erbacce molto alte (ärbäsòn) e potevano uscire i serpenti (i smiràld e i milò). Tutte queste raccomandazioni che sentivo mi mettevano molta agitazione e mi facevano “scansare” verso il centro della strada quando passavo davanti a quel grande portone verde, quasi cadente e tutto rovinato dal tempo. Quell’abitazione rimase ancora così per molto tempo e da circa 20 anni è diventata una zona residenziale carina (una proprietà molto grande che arriva fino alla via XX Settembre). Dopo Gävìli abitavano il Pierino e la Lina Gemelli, genitori di Peppino. Persone molto cordiali e simpatiche, lei poi era una Degiorgi (una Bigiulòna) quindi…
Con le nipoti Roberta e Daniela andavo spesso a giocare perché avevano tutti gli animali della fattoria (di plastica ovviamente) ma la mente di noi bambini fantasticava e galoppava di felicità (a volte penso con quanto poco ci divertivamo un sacco…). E nonno Pierino mi diceva: “Carlo, culä lì l’è la mucca Carolina”. E poi facevamo merenda e poi di nuovo riprendevamo a giocare.
E poco più avanti, sul curvone c’era la famiglia Ansandri con Giuseppe (Pipàs), la Maria (la donä äd Pipàs) con il figlio Paolo (quello che sarebbe poi diventato sindaco) e c’era pure la nonna, Luigia Fiore, “Lüisìnä däl Päulòn”, molto amica dei miei genitori, così tanto amica che era sempre da noi, mattina, pomeriggio e sera (anche quando facevo i compiti non “schiodava”).
Lüisìnä era una forza della natura, un punto di riferimento, una roccia, severa e fiera di quello che era (mi voleva anche molto bene). Classe 1901, morì ultranovantenne nei primi anni ‘90. In questo punto della via Benzo c’era (e c’è tutt’ora) il curvone. In questo curvone, appoggiate “ä lä cà äd Pipàs” c’erano un paio di panchine di legno marrone e gli anziani (ma anche noi ragazzini) facevano “lä pärtià” (per intenderci, una validissima alternativa ad un gruppo su Whatsapp). A questa “riunione” quotidiana erano presenti Märiä äd Pipàs, la Lina Invernizzi con suo marito Giuseppe Bosani (Giüsép Busän) che abitavano lì nell’angolo, al Pìnu e la Nìn (al secolo Caterina Invernizzi, sorella del Pìnu e suora laica che non prese i voti per problemi alle gambe), la mamma della Lina Invernizzi (lä Ines). Dato che viveva li, sentendo il “vociare” delle donne, accorreva curioso il Sandrino Chiocca (detto “äl Pretùr”) che magari era appena tornato dal suo “gìr in piasä”, tutto elegante con il foulard che metteva sempre al collo. Magro come un chiodo, sarà stato 40 kg vestito, si fermava a discorrere su temi importanti, tematiche pievesi fondamentali, curiosità, aneddoti, praticamente “i disivän di grän stüpidàd”.
E quel gruppo era formato da un equipe di esperti osservatori ai quali non sfuggiva praticamente nulla. Oggi mettiamo gli antifurti nelle case, una volta non servivano assolutamente perché i malintenzionati (malcapitati) sarebbero stati “silurati” a colpi di scopa (äg picavän lä scuä in tlä téstä). A proposito, una volta si andava anche a dormire “cun l’üs duért”.
Nel cortile poi abitavo io con mamma e papà. E d’estate era bellissimo e curioso com’ero andavo sempre “sutä äl pòrti” del Sandro a vedere tutte le cose vecchie che teneva e custodiva come “pietre preziose”. Per lui, quello che io chiamavo “ròb rüsän”, erano cimeli (diversi anni dopo, Sandro avrebbe impreziosito il nostro paese con un bellissimo museo agricolo, che fece poi una brutta fine per colpa di individui senza scrupoli). Il cortile era pieno di suppellettili di ogni tipo, lastroni di marmo, paracarri e cose recuperate in giro. E d’estate c’era il mio amico Mario Bosani che ogni mattina mi chiamava:” Carlo, ät vèni insémä ä mi ä lä Vignä?”. Ed io, di corsa, con lui su quella macchinina verde (che non ricordo la marca ma era terribilmente bella per me). E mi faceva ridere dicendomi:” Guardä… tä ghè i cälsunìn vèrd” (e poi li avevo marroni); e ancora “tä ghè lä mäiätä giàldä” (in realtà ce l’avevo blu). Era simpaticissimo e divertente, sempre pronto a scherzare. E la Vigna era la Casa Alta (Costa Panizzardi), quella costruzione sulla strada per Sannazzaro, appena dopo l’incrocio per Mezzana, sulla destra, posta molto più un alto rispetto alla strada. Ed era bellissimo perché c’era quella ripida salita che era come andare in montagna. Mario aveva la sua terra (ci sono sempre stati i suoi genitori, suo padre Antonio Bosani ci lavorava e ci abitava) c’era la vigna che curava minuziosamente e aveva anche gli alveari. Portavo sempre a casa il miele che mettevo nel latte al mattino (come corroborante contro la tosse).
Mamma, quando tornavo, mi diceva sempre: “Neh che t’è no fai gni mat al Mario?”; e Mario a mamma: ”Albertina, stà tränquilä, äl fiulìn l’è brav me’l su e m’ha dai anca iütà ä fà un quei visìg” (in realtà non facevo proprio nulla, davo soltanto fastidio ai maiali e alle galline)
Che bellissimi ricordi. Mi sono soffermato un po’ su quella parte di strada che è stata la mia vita, per 28 anni, vissuti in maniera spensierata, senza quelle comodità che abbiamo adesso e senza tutto quello stress che ormai non va più via.
Ma la Via Benzo non è mica terminata, sono a metà del suo percorso e per questo motivo ora mi fermo e vi do appuntamento al prossimo racconto… continua …

RICORDI
LA MIA VIA BENZO (lä mé viä Bènŝo) parte 2
Come promesso, non ho fatto attendere troppo i lettori intrepidi ed impazienti sulle vicissitudini della viä Bènŝo.
Nel precedente racconto ho iniziato a parlare di lei, questa zona della nostra bella Pieve dove ho lasciato il mio cuore e di cui ho tantissimi ricordi di quando ero un ragazzino. Percorrendola idealmente dall’inizio alla fine, ho rivisitato quei luoghi e quelle persone che ci hanno vissuto (e molti ci vivono tutt’ora) che hanno suscitato in me piacevoli sensazioni fatte di fanciullezza, di condivisione, di amicizia, di ricordi stupendi.
Cercherò di riprendere quello che avevo scritto nel post precedente, ricordando ai lettori che sono arrivato all’altezza “d’lä cürvä in dùä stàvä mi” e dove ho la maggior parte dei bellissimi momenti vissuti quando ero piccolo. Ma in quel cortile dove abitavo chi c’era in quel periodo? Beh, c’eravamo noi, il Sandro Chiocca (“äl Pretùr”), grande Sandrino, con la sua A112 arancione e il suo “motocàr”. Un personaggio singolare, originale, unico nel suo genere. Nella sua lunga vita (classe 1913), non si è mai sposato, viveva solo, in quella casettina che era il suo mondo, il suo regno e il suo rifugio. Della sua famiglia c’era sua sorella “lä Emmä äd Sfundrìn” (mamma di Andreina e di Franca) coscritta con mio papà e suo fratello Giuseppe (äl Pepìno) che abitava a Pavia, sposato con una simpatica e bellissima signora che ricordo bene perché mi portava sempre le caramelle quando venivano a trovare il Sandro: “La Vàndä”.
E cosa non c’era sotto quel portico ed in quel cortile in comune con me. Aveva di tutto, ogni attrezzo di lavoro, agricolo e non, lui ce l’aveva. Magari non gli sarebbe mai servito ma ce l’aveva. E il pavimento del suo laboratorio (sotto l’enorme portico) era cosparso di ogni genere di oggetti, non c’era il pavimento, erano i suoi oggetti che facevano il pavimento.
Da piccolo andavo sempre a giocare vicino al portico e lui, nonostante il suo carattere abbastanza schivo ed introverso, mi voleva bene e non mi ha mai fatto un’osservazione o un rimprovero (e da piccolo, rompevo parecchio le scatole a tutti…)
D’estate, nel pomeriggio, “äl surtìvä tüt elegänt”, andava al bar o äl Purtòn oppure al Sole dal Turibio. Mia mamma faceva la battuta: “Guardä äl Sandro, äl blàgä tüt”. Passava qualche ora in compagnia e tornava a casa.
Era un artista, un solitario, un romantico poeta che amava la sua Pieve e per la quale scrisse anche un poemetto in rima molto bello (“Pieve la dotta”) che conservo tra i ricordi di famiglia.
Che personaggio che era il Sandro. Una particolarità: aveva la televisione senza il telecomando ma lui era geniale perché con una bacchetta lunga (lä pértiä), cambiava i canali dal divano senza alzarsi. Un uomo d’altri tempi, che usava la “blillantina Linetti” per i capelli ancora fino ai suoi ultimi anni. E il Sandro, che era un “uomo a sangue freddo”, quando arrivava ottobre (dop äl di d’lä féstä) andava in letargo e fino a marzo non lo si vedeva più in giro, nemmeno in cortile. Mamma diceva: “Äl Sandro, finä ä stä primaverä äl vènä pü förä d’in cà”. E immancabilmente succedeva proprio questo.
Ma tra noi e il Sandro abitavano, sempre quando ero ragazzino io, due persone che ricordo con particolare affetto: Adelmo Magnoni e la Felina (i genitori di Franco Magnoni, nonni di Luca e Marco). Lui faceva lo spazzino (come mio nonno, al Ciö) per il Comune, un uomo buono, educato che per me è stato un nonno. La Felina, la moglie, era un po’ meno malleabile. Era maniaca dei fiori, ne aveva ovunque ed erano, immancabilmente, il bersaglio del mio pallone da calcio. Quando giocavo in cortile o da solo o con i miei cugini o i miei amici, facevamo “lä partìdä” (perché oggi non vedo più bambini che giocano a pallone? Boh?!) e dopo pochissimi secondi, i miei lanci andavano a finire sui fiori della Felina che, non vi dico, “äs räbiàvä dä màt”. I suoi fiori erano sacri, a dire il vero “ä i’erän näncä béi un pò” ma guai a toccarglieli. Prendeva il mio pallone e con gesto di sfida, tirava fuori “äl fursòn” dalla tasca del suo grembiule, me lo bucava e lo faceva a brandelli. Tanti palloni hanno fatto quella fine ma io, non so come mai, ne avevo sempre uno nuovo, pronto – involontariamente – a mirare i suoi fiori (ällä fàvä no ä postä). Con nonno Adelmo andavo molto d’accordo, con nonna Felina un po’ meno e questo idillio durò fin quando rimasero li. E ho fatto in tempo, ho 50 anni oggi, da piccolo, a fare il bagno in t’al “sibròn” in cortile, nella parte più nascosta, dove c’era “lä pompä äd l’aquä” (questo me l0 raccontava la mamma, io non lo ricordo perché ero troppo piccolo); che bello il mio mondo, quel cortile in cui c’era il mio gatto “Päciänänä” e il mio cane, la cara e già anziana “Suìtty” (ad entrambi “äg nä favä dä vènd”)
Ora passo oltre, lascio i ricordi di quel meraviglioso cortile per spingermi poco avanti da casa mia, dalla parte opposta, dove c’era un “purtìn” (e c’è ancora) che si andava nelle pertinenze del Cästè äd Mäcärìn dove abitavano la Cesarinä e Pipìn Gälänt (i suoceri della maestra Maria Rosa Piacentini, nonni di Nicola). Due persone straordinarie, cordiali, altri due nonni per me (non avendo conosciuto i miei nonni, per i motivi che avevo già spiegato, tutte le persone anziane della via Benzo le consideravo un po’ “nonni”). Cesarina era molto amica di mamma, le portava le uova e mamma ricambiava sempre con qualcosa, anche se Cesarina non voleva niente. Era una donna simpaticissima e buona d’animo e äl sò Pipìn, guai, come gli voleva bene. Ero compagno di giochi di Nicola, perché era sempre dai nonni quindi condividevamo quel tratto di cortile antistante il pollaio e l’enorme spazio dell’immensa proprietà del castello, a disposizione delle nostre “fantasiose” giornate. E come posso dimenticare Dante? Dante non era una persona, era il cane di Pipìn, scuro, taglia piccola, un giocherellone (lo aveva chiamato Dante, cosa ci potevo fare). Da casa mia, mamma sentiva la Cesarina che lo chiamava quando doveva dargli da mangiare e lui correva come un razzo. E poi, la casa dopo la mia era abitata da una famiglia di persone piuttosto anziane: gli Alessi. Nell’ordine la Nätälinä, il marito Donato e l’Angiulìnä (già vedova di Pipìn Nobile). Anni prima ci abitava anche l’Ambrös, l’altro fratello, ma quando ero piccolo io lui non c’era già più. Frequentavo sempre quella casa, a volte mamma mi lasciava da loro quando doveva fare delle commissioni e ricordo molti chiaramente queste due nonne (altre nonne… capite quante nonne ho avuto?) che, amorevolmente, mi trattavano come un loro nipotino. D’estate mi davano sempre la granita (giàsä sciäpà cun lä mentä o cun äl limòn). Non andavo d’accordo con Donato, il marito di Natalina, un u0mo piuttosto solitario, severo che io chiamavo “l’òm cätìv” ma non perché mangiava i bambini, ci manca ancora, ma perché considerava i bambini (forse perché non ne ha mai avuti di suoi) un intralcio, una seccatura.
Ricordo bene, quando dovevo andare nell’orto a raccogliere qualcosa per mamma, avevo un po’ di paura perché all0ra – non è come oggi che il mio orto è diviso da un muretto (proprietà Ballini) – era un pezzo unico e temevo di incontrarlo tra i “pälìn di tumàtic” che sbucasse con la sua figura, alta e magra, e quello sguardo truce e cattivo. Poi era sicuramente un brav’uomo ma a me non piaceva assolutamente. Mi dispiace non avere un bel ricordo di lui (morì intorno al ’78, ’79). Nätälinä e Angiulìnä pochi anni dopo andarono alla Casa di Riposo perché non più in grado di badare a loro stesse. Moriranno prima Angiulìnä e poi Nätälinä, ultranovantenne.
La storia della mé viä Bènŝo si fa interessante e piena di aneddoti e ricordi. Dopo gli Alessi c’erano i Pozzi che mio papà chiamava “Pusìn” e mia mamma invece “Putìn”. Ricordo bene quella famiglia perché i loro figli erano più o meno miei coetanei. C’era pure un altro nome, “Sänpèdär” (non c’entra niente con San Pietro, quello delle chiavi del Paradiso) che faceva parte del mondo dei Pozzi. Ma qui la storia si fa lunga ed interessante quindi, ve ne parlerò nel prossimo racconto…. Continua …

RICORDI
LA MIA VIA BENZO (lä mé viä Bènŝo) parte 3
Eccomi di nuovo nel proseguimento del racconto sulla mia viä Bènŝo, che “tanto fu cara al mio cuore”. Chi non è pievese potrebbe domandarmi: “Scusami ma … questa strada è così lunga?”. La mia risposta sarebbe questa: “Non è tanto la lunghezza della strada quanto la smisurata quantità di ricordi che contiene”. Questo racconto non vorrei mai terminarlo perché, man mano che percorro mentalmente questa via, riaffiorano alla mente tante situazioni, tante persone, tanti luoghi comuni in grado di legare un pievese con un altro, giovane o anziano che sia. Ma il termine deve esserci perché ogni cosa ha un suo naturale fine e dovrò per forza arrivare anche alla conclusione di questa lunga narrazione (ora non è il momento).
Per questo motivo riprendo da dove ho lasciato. Sono rimasto poco distante da casa mia, ho parlato della Cesärìnä e di Pipìn Gälänt e del loro cane Dante, ho parlato della famiglia Alessi (le anziane Nätälinä e Ängiulìnä) e sono arrivato alla casa forse più in alto della via, se non quella più alta di tutta Pieve, la casa dei Pozzi (i Pusìn o i Pùs). Lei era Antonietta Pozzi, pievese, figlia di Carlo Pozzi (siùr Carlo Pùs 1894-1981, il primo sindaco di Pieve del dopoguerra, dal 1946 al 1951 e ancora dal 1951 al 1956, per 2 mandati) e c’era il marito che era “Sämpèdär”. Nulla ha a che vedere con il custode delle chiavi del Paradiso ma era il suo cognome, era il signor Sampietro (non ricordo il suo nome, se qualcuno lo sa me lo dica) che faceva il marmista (äl märmurìn). Che quest’uomo abbia lasciato un segno a Pieve, lo si può dedurre da tutte le tombe al cimitero costruite in quegli anni ’70, ‘80 che portano il suo marchio “Sampietro Lavorazione Marmi – Pieve del Cairo”. Lui non era pievese ma di Garlasco e questa coppia (erano persone molto per bene) aveva due figli più o meno della mia età che si chiamavano Dario e Fausto Sampietro.
In quel periodo passavo le giornate a casa loro; ricordo un grande cortile, un bellissimo orto (il loro terreno confinava con quello degli Alessi e col mio), il serraglio con le galline e tutto quello che si poteva desiderare per dei ragazzini della nostra età, assolutamente privi di tutte quelle comodità tecnologiche che ci sono oggi (videogiochi, telefonino, social network, WhatsApp, non sapevamo neanche cosa fossero perché non esistevano ancora). I nostri giochi preferiti erano il pallone, le biglie, le corse in bicicletta, le macchinine. Poco distante da noi, abitava durante le vacanze estive (perché la famiglia risiedeva a Torino), un ragazzo più o meno della nostra età che si chiamava Davide Montini (il papà era il Luigi Montini “Muntìn”, coscritto con mia mamma e la mamma era una Cerri originaria di Lomello che non ricordo come si chiamava) il quale, molto appassionato di moto e di corse in generale, improvvisava dei bellissimi rally con i modellini di moto ed era affascinante, insieme a lui, disegnare sull'asfalto della strada, il circuito prestabilito (lui li sapeva tutti a memoria) per poter far gareggiare le nostre moto. Ricordo che i suoi campioni preferiti erano Marco Lucchinelli e Mario Andretti e questa sua smisurata passione la trasmetteva anche a noi che sapevamo ben poco di moto e motori. Formavamo un quartetto molto affiatato formato da lui, da Dario e Fausto Sampietro e da me (ä sèräm sèmpär in més ä lä strà mé i sèngär).
Sono bellissimi questi ricordi ma ora devo passare oltre e continuare il mio cammino ideale e molto “sentimentale” spingendomi un po’ più avanti. Ma prima di farlo voglio tornare all’orto dei Pusìn, l’orto degli Alessi e il mio; confinavano (e anche tutt’ora) con gli orti della via XX Settembre con la particolarità di essere, quelli della via Benzo in alto e quelli della via XX Settembre in basso. Le case erano più o meno sullo stesso livello ma gli orti avevano un dislivello di diversi metri.
Dopo i Pusìn c’era la signora Annunciata Vernonia che era da tutti conosciuta come “lä Ciàdä o con il diminutivo “Ciädìn”. Il marito non lo ricordo, forse era già vedova nei primi anni 80 ma ricordo che papà lo conosceva bene e lo chiamava “äl Mìs” oppure “l’Amiricän”. La figlia, Laura Castelli, abita ancora oggi in quella casa che, strutturalmente parlando, a parte qualche pennellata di vernice, non è assolutamente cambiata.
Dopo di lei, ma dalla parte opposta della strada, c’era un cortile con due casette e ci abitava Carlo Mancini (detto “äl Màgu”) con la moglie Teresa e la figlia Claudia. Proseguendo, sempre dal lato della Ciädìn, c’erano, e ci sono tutt’ora “i cà äd Riciòt” e in questi appartamenti sono passate molte famiglie, chi per tanto e chi per poco. Quando ero ragazzino io c’era la famiglia Zuccarin con Danilo, la moglie, le figlie mie coetanee Monica ed Emiliana e Marta che era piccola. Anche loro, le prime due, sono state un po’ compagne di giochi.
Poco dopo questo abitato, dalla parte opposta c’erano Luigi Muntìn con la moglie e il figlio Davide (uno dei miei compagni di giochi, quello delle moto) che venivano giù d’estate perché abitavano a Torino e ritornando dalla parte opposta c’era il cortile delle signorine Comaschi (i Cumàsc) in cui vi abitavano Enrica, Augusta e nella casettina piccola dentro la loro proprietà c’era il buon Carlo Tosino (meglio conosciuto come Romano Tusìn, o äl Romano däl Municìpi).
Qui mi devo fermare perché, queste straordinarie persone meritano molta attenzione (con tutto il rispetto per gli altri che magari ho conosciuto di meno). Le signorine Comaschi (Augusta era la più vecchia ed è mancata qualche anno fa mentre Enrica, la più giovane, è mancata l’anno scorso) erano due persone gentilissime, di una cordialità e di una squisitezza fuori dal comune ed io, che ero il figlio di colui che chiamavano “äl nòs Driàno”, per loro sono sempre stato quel bambino bello, buono e gentile.
E quello delle due sorelle Comaschi era un mondo chiuso, protetto, quasi un’altra dimensione. In quel cortile, invaso di piante ornamentali e di fiori, di vegetazione spontanea ma molto ben curata, c’era questa bellissima casetta che era una vera e propria bomboniera. All’ingresso, sopra la porta, c’era una decorazione con una particolare scritta che ricordo in modo molto nitido (in latino): “Parva sed apta mihi” che vuol dire “piccola ma adatta a me”. Entrambe figlie di un artista, il pittore Enrico Arturo Comaschi, vivevano in questa casa che, certamente era piccola, ma quando entravi sembrava enorme non tanto per l’ampiezza delle camere ma per tutto quello che conteneva (mi sono sempre chiesto come facesse a starci tutto quello che si vedeva, senza contare quello che non si vedeva).
Dalle signorine Comaschi il tempo si era fermato, era fermo a quando erano bambine, negli anni 30, come stile e forma di tutto ciò che si poteva osservare. E i modi garbati e gentili erano un loro punto di forza. Spesso, papà ed il suo inseparabile amico, il Cécu, andavano da loro a fare “un quei visìg” ed io, curioso com’ero, li seguivo (ä s’erä propi dä pär tüt).
Il rito dell’ospitalità non mancava mai, quando entravi ti raccontavano tutto (e magari te lo avevano appena detto il giorno prima ma, non importava) e tiravano fuori, perché dovevano offrirti qualcosa, “äl särvìsi d’lä féstä” per prendere il the. E quei cucchiaini, quei tovagliolini di pizzo, quegli accorgimenti così dettagliati da percepirne la perfezione, erano gesti che ripetevano ogni qualvolta andava qualcuno a casa loro.
Per la nostra famiglia avevano una innata predilezione, forse perché papà era più o meno coetaneo con loro (Augusta era del ’21, Enrica del ’25, papà era del ’22). E anche negli ultimi anni in cui stavano ancora abbastanza bene di salute, mi parlavano di papà e mamma (mancati prima di loro) e di quanto erano, per loro, persone per bene (Carlo, che bei pärsòn cä ierän tò mämä e tò päpà). E cosa posso dire del signor Tosini, äl Romàno, che per lui il Municipio era la sua seconda casa, se non la prima? Una vita dedita al lavoro, un’esistenza incentrata sull’aiutare il prossimo, con tanto puntiglio, impegno, precisione ed estrema intelligenza (aveva una memoria di ferro).
Una figura esile, magra, quasi cagionevole, sempre vestita in maniera elegante (giacca e cravatta non li mollava mai, né sul lavoro, né a riposo). Metteva amore e cura in tutto ciò che faceva ed era sempre pronto a fare del bene. Data la differenza di età che ci separava gli dicevo sempre: “Romano, mi dia del tu, per favore”. Lui rispondeva: “Quand äm därà däl ti ä mi, mi äg därö dal ti ä lè” (non ci demmo mai del tu e questo grande rispetto reciproco durò tutta la vita). Persona molto amica di papà, aveva un altissimo senso dell’amicizia ma senza invadenza. Usava pochissime parole perché era timido, atteggiamento che però, non riportò mai sul lavoro verso il quale spese forse più energia del dovuto. Quando mancò papà mi scrisse una lettera dove, nelle sue parole, traspariva un sentimento profondo di amicizia, di angoscia, di tristezza e di sconforto (la conservo come una reliquia tra le cose care). Papà mancò il 16 ottobre 2008 e pochi mesi dopo, a gennaio del 2009, Romano si spense, oserei dire, “santamente”.
Ed arrivato al signor Tosini, non mi resta molto da percorrere; quel tratto di strada mancante per il quale devo ancora scrivere, non sarà avaro di ricordi. Per il momento, fermo le mie mani sulla tastiera del computer, spengo gli occhi perché sono stanco e vado a dormire (äm và äl cör ä rìvä)
Il racconto che pensavo di concludere, non termina qui, anzi: “La mé viä Bènŝo l’è ancurä pìnä äd surprès”
… continua …

RICORDI
LA MIA VIA BENZO (lä mé viä Bènŝo) parte 4
Eccomi di nuovo a ricordare quel tratto di strada pievese che mi ha regalato gli anni più belli, quelli della fanciullezza, della spensieratezza, dell’innocenza e dell’adolescenza. Beh, sono anche diventato grande in Via Benzo, mi sono sposato che abitavo li e mi sono trasferito dal civico 60 al civico 35, sempre in Via Benzo. Il mio destino sembrava scritto per restarci tutta la vita ma … così non è stato … e sono andato ad abitare a Cairo. Se fossi vissuto prima del 1890, avrei cambiato comune, sarei emigrato ma oggi, Pieve e Cairo sono la stessa cosa e, nessuno, a memoria d’uomo sarebbe in grado di ricordare come erano i due paesi quando erano divisi (dato che la divisione avvenne 130 anni fa).
Ma ora tralascio la storia perché non voglio fare il saccente, l’aulico, lo “studiato” e impiegherò le mie parole solo per parlare di fatti e persone della Via Benzo.
Dove avevo lasciato il segno? Ah, ecco… trovato! Beh, sono piuttosto a buon punto. Ero arrivato a parlare delle signorine Comaschi e di Romano Tosini.
Dall’altro lato della strada, dove adesso abita l’amico Pierluigi Martinotti con la moglie Pia, ci abitavano le sorelle Sofia e Maria Mogliati (i Muglià). Pierluigi, prima di ritornarci in Via Benzo, ci abitava già, nelle case di Riciot, quando aveva suoi figli ancora piccoli. Dopo questa casa, la via Benzo faceva un’ansa (anche adesso) in cui si raggiungevano alcune case nell’interno, in linea d’aria proprio dietro all’Ospedale “La Cittadella Sociale” dove c’era anche, appena li dietro, lä Tipugräfìä. Dicevo, quando ero ragazzino io, in quella casa a due piani ci abitavano mia cugina Carolina Degiorgi (sìä Lina), ovvero la prima cugina di papà (prima ancora ci avevano abitato il padre Carlo Degiorgi, mio omonimo, Carlìn ä’dlä Furnasä e la moglie Rosa Cristiani, sìä Rosä däl Cärlìn). Sopra ricordo alcune famiglie tra le quali i Cerri, Matteo con i genitori, poi il Dottor Strozzi e dopo di lui ci ho abitato anche io quando mi sono sposato e sono rimasto lì dal 1999 al 2008 prima di trasferirmi definitivamente a Cairo.
E nella villetta davanti ricordo, sempre in quel periodo Ernesto Cresta e successivamente Pietro Sartori. Sono ricordi piuttosto lontani ma, li ricordo abbastanza chiaramente. Da bambino, da quelle parti, giocavo diverse volte con Matteo Cerri, oggi poco più giovane di me.
E più avanti c’era (e c’è tutt’ora) la casa di Valentino Morosin con la moglie Giovanna e i due figli Michela e Paolo. Michela veniva a scuola con me alle elementari e alle medie, Paolo qualche anno più giovane e successivamente arrivò anche il piccolo Daniele (oggi non più tanto piccolo). Dalla parte opposta della strada c’era un cortile che andava in discesa e in fondo c’era una parrucchiera (lä pitnèrä) dove andava sempre mia mamma a farsi la mésinpiegä ed io andavo con lei a passare il tempo sfogliando i giornali che metteva a disposizione (non ricordo come si chiamava, sono passati troppi anni). Poi, rimanendo sempre da quel lato c’erano parecchie persone delle quali ho un piacevole ricordo. Lä Sterìnä (Esterina Bernini, sorella della Välintòn äd Grifä, la ricordo piuttosto anziana e le piaceva tanto chiacchierare, “ciäciärà”). Lä Sterìnä insieme alla Luigina Fiore (lä mämä ad Pipàs) frequentavano casa mia perché molto amiche di mia mamma. La riunione durava molto, molto, molto tempo perché nessuna di loro, Sterìnä in special modo, era avara di parole. Ricordo diverse sere, papà ed io, per sfuggire a quei devastanti incontri, andavamo all’Oratorio che c’era ancora Rumè Fatìn (Romeo Sacchi) con la Maria. Si stava fuori, con tutte le sedie attorno, in piazzetta, papà parlava con gli amici, io trovavo sempre qualcuno con cui giocare e si faceva tardi. Convinti di tornare a casa e non trovare più nessuno, almeno, solo mamma ad aspettarci, trovavamo quasi sempre la spiacevole sorpresa. Ci fermavamo sulla porta della strada e sentivamo ancora parlare. Papà diceva: “L’è no pusibil, la Sterìnä l’è incurä lì”. E gli dicevo: “Pà, entriamo che ho sonno” ma lui non voleva, diceva: “Ändumä incurä ä fä un gir”. Ed io di nuovo:”Pà l’è quasi mesä nöt, in duä ät vö ändà?”. E prendevamo coraggio per entrare. E la Sterinà, tranquilla, esclamava: “Oh Signur, ä si giämò rivà?”. Poi, probabilmente, presa da quel leggero rimorso, ci salutava e andava a casa dicendo: “Älbertinä, äs vädumä ädmän dä sirä”. E papà ed io, pronti per escogitare un’altra premeditata fuga (mi mancano terribilmente questi momenti).
Poi poco avanti abitavano l’Oreste Broglia (äl pesädù) che quando eravamo piccoli ci dava sempre i gettoni per le giostre (amico fraterno di papà), poi ci abitava Pietro Broglia, un ex muratore in pensione, detto Pelo (fratello di Ugo, altro capomastro molto in gamba). Avevano anche una sorella, Giuseppina (se non erro), che veniva saltuariamente perché non abitava più a Pieve. Ricordo che in quella corte, aveva l’orto anche la nonna di mia moglie, Angela Borghini, l’Angiuletà lä Tätänä (che bei ricordi). Proseguendo sempre da questo lato viveva Adelaide Biscuola (lä Delaide, già vedova), suocera della Mirella Chiodi (la Mirellä äd Ciòd).
Percorrendo con la mente ancora questo lato trovavo un altro grande amico di papà, Giuseppe Bottazzi (Giüsipìn Butàs), che non era sposato e viveva insieme all’anziana mamma, la Pinìn Galante. Ricordo un particolare molto curioso quanto triste: una notte, durante un temporale estivo, un fulmine centrò in pieno l’antenna della televisione di Butàs causando un corto circuito e un incendio. Nessun problema se non i luoghi, soffitti e pareti, completamente bruciati e neri. Ci fu bisogno di un intervento di ripulitura e Giuseppe venne a chiamare papà per la totale tinteggiatura della parte danneggiata da questo incendio. Papà, il suo inseparabile compagno di lavoro, al Cécu insieme al maestro Della Casa (al Miclìn) fecero il lavoro in circa due o tre giorni rimettendo come nuova la casa dell’amico Butàs.
E dopo di lui abitava la famiglia Corbella con Lino (Pinciärö’), la moglie Piera Galante (Pierä äd Pinciärö’) con il loro figlio Gianfranco, altro mio compagno di giochi e di marachelle (ne combinavamo di ogni). Con l0ro c’era Francesco Galante, il papà di Piera (Ciscòn) e la moglie Lea Gilardi (lä Leä). Con Gianfranco facevamo i chierichetti all’epoca di Don Sandro, Don Pino e Padre Vincenzo e quando eravamo tutti insieme inginocchiati sull’altare, tra una preghiera e l’altra volavano i cuscini che ci tenevamo sotto le ginocchia (ä s’èräm fiö).
E dalla parte di fronte a tutte queste persone che ho nominato, dall’Alelaide in poi, abitava un’altra famiglia di cognome Galante ovvero i Sigulìn. Un paio di generazioni direi perché c’era, in quegli anni, Cesare Galante (Cesar Sigulin, classe 1886 morto centenario nel 1987) che se non sbaglio era già vedovo (di Angela Giacobbe), ci abitava il figlio Giuseppe (Giüsép Sigulìn) con la moglie Anna e c’era anche il nipote Pier Costanzo (per tutti gli amici Pèo) che era già sposato con Silvana Vacchetti e che aveva 2 figli: Andrea (Cutùrän) e Roberto (Cuturnìn). Una famiglia di agricoltori, avevano i cavalli, i maiali, le mucche e un cortile immenso (che c’è ancora) e dove spesso andavo a giocare con loro. Era bellissimo tutto quello spazio e ricordo che correvamo tutto il giorno a “pë pär térä” senza neanche sentire la stanchezza (avevamo 8-10 anni). E noi ragazzini avevamo questa cosa in comune stupenda cioè quella di parlare sempre e costantemente il nostro bellissimo dialetto. Alla sera, sporchi e sudati (vònc mé bärlìc e südà mé i bèsti) andavamo a casa e ci buttavano nella vasca (äs travän in tlà vascä).
Un episodio molto simpatico era quello di nonno Cesare, quando passava con il carretto e il cavallo e la sua sigàlä in bucä quasi fino alla fine, che a 99 anni andava ancora in bicicletta, sempre con in testa il suo inseparabile cappello. E quando papà passava davanti a casa sua e, magari, era fuori seduto a fumare diceva in modo cantilenante: “Ciau Degiorgi”. Quanti bei ricordi dei Sigulìn ma non posso dimenticare altre due persone che abitavano poco avanti a loro: Natalina e Aldo Priveato, due persone simpaticissime e soprattutto buone. Ricordo la pärtià che facevano alla quale prendeva parte tutto quel versante dell’ultimo tratto della Via Benzo con le famiglie che ho menzionato (dai Brojä, all’Adelaide, i Sigulìn, i Butàs e i Pinciärò)
Da Aldo e Natalina venivano a giocare i due nipoti, Paolo e Fabio Mariani con i quali si facevano tante partite a bälòn (spaccammo anche tanti vetri lì attorno). Purtroppo Fabio è volato in cielo troppo presto.
Ricordo che dopo i Priveato ci hanno abitato anche Turibio Ghezzi e la moglie Amabilia (ma ero già grande). Turibio era coscritto di papà (classe 1922), amico d’infanzia.
A conclusione della via Benzo, un grande spazio chiuso, un’aia per contenere mezzi agricoli e äl säcatoi che faceva sempre un gran rumore che si sentiva per tutta la via. Era di proprietà della famiglia Gaggeri ma siccome era stata affittata a Giuseppe Ansandri (Pipàs) era semplicemente chiamata l’éra äd Pipàs, e tutt’ora si chiama ancora così.
Questo è il racconto ed il ricordo di una strada che porterò sempre nel cuore, non un semplice tratto di strada, non una parte di un paese qualunque, ma semplicemente lä mé viä Bènŝo, la sintesi di un’infanzia, una fanciullezza, un’adolescenza vissuta in quei neanche 500 metri dal suo inizio alla sua fine. In questo spazio, tante emozioni, tanti ricordi bellissimi, tante persone che non ci sono più, tanta gente che porterò nel cuore per sempre. Ogni angolo di quella strada parla di Pieve, ogni persona che ci ha vissuto ha lasciato un segno, un frammento della sua vita.
E’ la via dove sono nato, cresciuto, con mamma, papà la nonna Tirisìn ed è la via in cui ho lasciato una parte di me che, ogni tanto, torna a trovarla.
FINE

RICORDI
Äl Rusàri d’lä Mädònä d’lä Guàrdiä
(incrocio tra lä viä Giänsänä e lä mé viä Bènŝo)
Quando si scrivono i ricordi, è normale che vengano letti da molte persone, attirate dalla curiosità, dalla voglia di rivivere quei tempi che non tornano più e per tutta una serie di motivi che non sto qui a menziono perché sarebbero veramente troppi. Da bambino non pensi assolutamente a quello che sarà, a cosa ti riserverà il futuro e vivi “alla giornata” senza troppe preoccupazioni. Man mano che cresci, diventi adolescente, passano gli anni, i decenni e ti trovi ad essere più consapevole di quello che è stato e di quello dovrà ancora accadere. Si ricorda il passato come un tempo vissuto nel pieno delle forze e si pensa al futuro e a tutto quello che resterà da fare.
Raccontare fatti di una comunità come quella di Pieve, cresciuta, cambiata, distorta da periodi difficili, strani, particolari come questo, non è semplice e anche se la narrazione risulta scorrevole e piacevole agli occhi di chi legge, per chi scrive è molto difficile ricordare tutto, con il rischio di dimenticare o citare cose inesatte. Ricevo tantissimi commenti positivi da parte di tante persone pievesi (che ci vivono o che ci hanno vissuto) che mi dicono sempre: “Carlo, và ävänti ä scrìv pärché l’è sempär bél lès i tò stòri ch’i pärlän äd lä Piev”. Ed è chiaro che chi è più vecchio di me ha più cose da raccontare o ricordi diversi dai miei, può anche correggermi perché conosce meglio di me i fatti e nasce una sorta di relazione tra chi scrive e chi legge.
Dopo questa lunga prolusione vengo al dunque. Nel precedente racconto sulla Via Benzo (diviso in 4 parti) ho tralasciato un luogo comune molto significativo che l’amica Piera (Bob Bassi) mi ha consigliato di scrivere. La prendo sul serio e seguo il suo consiglio (grazie infinite Piera).
E’ un punto della via Benzo, all’incrocio con la via Gianzana, prima della Rämpunà, in coincidenza con la vecchia casa di “Pèdärlüsìä” (al secolo Angelo Pallanzona). Qui c’era, e c’è ancora oggi, una bellissima immagine sacra della “Mädònä d’lä Guàrdiä” in cui, fino a non moltissimi anni fa, durante il mese di Agosto, veniva recitato il Santo Rosario (äs disìvä äl rusàri). Un momento molto sentito per chi, dalla Rampunà scendeva in giù, raccogliendo anche tanti altri pievesi dalle vicine Via Garibaldi, via Angeleri, via XX Settembre, Piazza Paltineri, dalla Via Roma e anche da altre zone di Pieve più lontane ma facilmente raggiungibili da tutti sia “ä pè” che “in biciclätä” (pär chi l’è che äl g’avä lä gämbä bonä, per intenderci).
Quanta gente accorreva al rosario che veniva recitato dalla signora Luigina Piatti (lä Luiginä äd Bràgiu, ovvero lä Kékä).
Prima di lei veniva recitato dalla Edvige Parabò (la ŝiä äd l’Edoardo, al pänetè). Dai ricordi di Piera Panzarasa (Bob Bassi) saltano fuori cose preziose: appena finita la guerra, non c’era ancora la luce e per leggere la novena, la Luigina lä Kékä faceva luce con una candela alla Edvige. Ricorda anche che la mamma della Luigina, veniva dal Rusö cun la cadrega e la utilizzava come se fosse un moderno deambulatore. Non c’era ancora l’asfalto che c’è adesso. Parlando di ricordi, vedete – cari lettori - quanto sono diversi da persona a persona per ragioni di età, di epoca, di condizioni e situazioni. Ma ora torno sui miei passi e riapro il libro dei miei ricordi tenendo presente che mi rituffo dagli anni ’80 in poi.
Io ero un ragazzino (e ho proseguito anche dopo) quando con mamma e papà, facevo parte di quel “popolo …orante” (non ignorante, ma solo orante cioè “che pregava”) che accorreva felice per questo momento di preghiera. Oltre al mese di Maggio (interamente dedicato alla Madonna che a Pieve, come in ogni altro posto era molto sentito), c’era la tradizione di recitare, anche per tutto il mese di Agosto, il rosario in occasione della ricorrenza della Madonna della Guardia (in ricordo dell’apparizione avvenuta sul Monte Figogna, sopra Genova), particolarmente sentita dai pievesi anche perché nella vicina Tortona, c’è il Santuario dedicato a lei (ed ogni anno si andava e si va in pellegrinaggio).
La gente era tanta, tutta attorno a questa immagine, lasciando la strada libera per il passaggio delle auto che, sembravano rallentare o quasi fermarsi (proprio come fanno adesso!!!???) quasi a non voler disturbare questo momento ed in segno di rispetto verso quel luogo in cui si stava pregando.
Ricordo tantissimi volti (tante persone care che non ci sono più) che vorrei cercare di nominare, rischiando anche di dimenticarne qualcuno (non vogliatemene, anzi aiutatemi anche voi): la Kékä “lä disivä äl rusàri”, c’eravamo noi tre (mamma, papà ed io), il Romano Tusìn, sempre in giacca e cravatta, la Lucia Schiena (lä donä däl Franco Sisti), sua sorella Maria Rosa (lä donä äd Päciän), la Pierä Pänsäràsä, lä Iétä, la Ciüicélu (lä donä äd Lüìs Cerri), la Mutivìnä (Mariuccia Torre, quando era a Pieve veniva sempre), la Lina e la Maria Strina (due sorelle già molto anziane), la Ciädìn che scendeva con noi insieme alla figlia Laura, la Piera Cucchi, la Saretta, l’Angela Simunät, ŝiä Märijn ad Balos (che veniva a casa nostra dalla Statale “in biliclätä”, era Maria Degiorgi, la sorella di papà), la Carla Ansandri (lä surélä äd Pipàs), ŝiä Lina (Carolina Degiorgi Bellazzi, cugina di papà che veniva a Pieve a fare le ferie), la Rita Paron, lä Giuliä Rossi (la dona dal dutur Stürlä), la Carla Borella (“la Pulònä”), la Pia Tosi (la nostra bidella delle medie che credo abbia fatto più maglioni lei che la MIR), a volte c’era anche il marito Pietro, lä Tübiérä, la Ada Pallanzona (la Sciurìnä), la Adelaide Biscuola (lä Delàide), la Lina Invernizzi e la Natalia Barisio, la Elsa Barisio cun sò mamä (Gesù nell’Orto). Poi c’erano la Sterinä Bernini (che trovava il coraggio e la forza di “ciciärà” anche durante il rosario), la Pierä äd Pinciärö, la Pinin Butas, la dona ad Muntin (quando erano a Pieve), lä donä däl Lìsio, la Francesca däl Teo, la Rosa Ubertis. C’erano anche, la Ebe Ghislieri (la dona dal Remo al Marlin), sua sorella, l’Edvige “la Parabò” già anziana, la Sulferina (mamma dei Freguglia), la donä däl Tango (cioè la fiölä äd lä Sulferinä), la Iole d’Becärìa (mi pare ci fosse anche lei). Dalla via Angeleri arrivavano anche la Giacomina däl Còndu, lä donä däl Lüstär, venivano anche Cipo e la Carulìn, lä Emmä dä Sfundrìn, lä Luigina dal Mulìn, l’Angela ad’Ruländ (moglie dell’Alberto Galbiati), la Ines Rossi (lä donä d’Alèsi). C’era anche la Santina Fornito che ci vedeva poco e si faceva accompagnare sempre da qualcuno (o dalla Pulònä o veniva con la Kékä). C’era la Lina Colli (lä donä däl Mario Magentä), l’Emiliana Ansandri (che abitava proprio lì vicino), la Mariuccia Ansandri (lä donä däl dutùr Degiorgi). E nel cortile della Sacra Famiglia che dà sulla Via Gianzana, sedute sulle panchine, c’erano sempre alcune delle nostre suore: suor Maria, suor Rosina (lä sacrìstä äd Don Vincenzo), suor Rosa quando era superiora, suor Wanda, suor Graziella (quanti bei ricordi).
Prego vivamente tutti coloro che hanno questo ricordo, di farmi sapere se ho dimenticato qualcuno. I miei ricordi sono quelli di un ragazzo e potrebbero aver subito una perdita di dettagli importanti (Grazie!!!)
E si pregava tutti insieme per tutto il mese di Agosto fino al giorno in cui la festa a Tortona, decimava un po’ le presenze (perché tanti andavano là). Ma nonostante tutto il rosario non si interrompeva. E terminava il mese di agosto, anche dopo la festa del 29, con gli ultimi 2 giorni, il 30 e il 31, dove, da lì a poco, saremmo stati prossimi al nostro “dì d’lä Festä”.
E insieme a noi c’erano tanti piccoli compagni di viaggio, i “muschìn” che ci accompagnavano nelle preghiere e che tra un “Pater-Ave-Gloria” ci facevano muovere le mani con schiaffi (sgiäfòn) e sberle (sbärtàs) sulla faccia, sulle braccia e sulle gambe. Le donne, a colpi di “gulfìn” e a colpi di ventaglio, li scacciavano, noi pochi uomini presenti, usavamo soltanto le mani. E tra le persone emanava quella insopportabile puzza di “Autan” (sia in stick che spray) e si accendevano gli zampironi (i ŝämpiròn). Armi del tutto inefficaci perché i muschìn i gherän istès.
E chi non aveva la corona del Rosario per tenere il conto delle preghiere recitate fino a quel momento (io ero uno di quelli e anche papà con me), prendevamo come riferimento l’ultima decina di Ave Marie, la Preghiera alla Madonna che “äs disivä ä lä fìn” e quando la Kékä nominava Benedetto Pereto (che all’inizio, quando ero più piccolo, non sapevo chi fosse e poi ho scoperto che era l’uomo a cui è apparsa la Madonna intorno alla fine del ‘400) stava a significare che il Rosario era finito.
Ed ogni sera, tutto si concludeva con la secca frase della Ciädìn che recitava sempre le medesime parole: “Andùmä viä sgägià che chi äs mängiän béie vìv … e così sia!!!” (frase riferita ai famigerati quanto insopportabili muschìn). Ricordi stupendi, piccoli grandi istanti di altissima “pievesità”. Ho fatto tesoro di questi momenti di convivialità, di genuinità, ho fatto “incetta” di persone buone che, purtroppo, non ci sono più.
La “mé Pièv” è molto cambiata ma, siamo cambiati anche noi.

RICORDI
I BÄRÄCON D’LÄ VIÄ BÈNŠO (parte 1)
Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, ero un bambino piuttosto tranquillo ma molto curioso, particolarmente dotato di quelle attitudini “proprie” di un bambino di quell’età in quel preciso periodo storico. A Pieve del Cairo, quegli anni non offrivano le comodità, la tecnologia e tutto quello che c’è oggi ma una cosa c’era e noi bambini la conoscevamo bene: la gioia della festa. Come gli anziani che quando cambia il tempo, sentono il mal di schiena una settimana prima, noi bambini e ragazzi, iniziavamo a sentire aria di “dì d’lä Féstä” molti giorni prima di quando accadeva. Mentre gli eventi culminanti avvenivano dal venerdì sera alla domenica sera, senza contare poi gli strascichi al lunedì e, in coda, al martedì successivi, quello che ci metteva in agitazione era l’attesa degli eventi.
Cosa aspettavamo di così entusiasmante, emozionante, stupefacente? I Bäräcòn däl dì d’lä Féstä! E molti di questi dove stazionavano? In via Benzo, nel tratto di strada che dalla Via Gianzana (praticamente all’altezza di Pèdär Lüsìa) saliva fino alla curva dove c’era il mio cortile. Li “in mìrä” ci abitavo io con la mia famiglia, il Sandro Chiocca (äl Pretùr), la Lina d’Invärnissi e il marito Giuseppe Bosani, Pipàs con la sua famiglia, la Nìn e il Pìnu, il Pierino Gemelli e sua moglie, lä Lina äd Biguilòn.
La festa Patronale era (come lo è tutt’ora) la seconda domenica di settembre ma il tutto, per noi bambini, iniziava dai primi giorni della settimana entrante, già dal martedì o addirittura dal lunedì pomeriggio. Cosa c’era di tanto speciale? Semplicemente i preparativi alla festa e noi, con le nostre ridicole biciclette (incredibilmente sgangherate e rumorose) scarrozzavamo tutto il santo giorno per veder arrivare le “giostre” ed essere pronti ad attenderle.
Facevamo a gara a chi li vedeva spuntare per primi e non mancava mai la solita scazzottata gratuita tra noi ragazzi che veniva a crearsi spontaneamente, senza un particolare motivo, probabilmente messa in campo dalla nostra naturale agitazione che scaturiva dalla particolare situazione. Immancabilmente, il primo ad arrivare era il mitico trenino. Questo vecchio baraccone era una grande corriera blu targata FO (Forlì), priva di posti a sedere che conteneva, già montato con le sue carrozze, quel bellissimo trenino che piaceva tanto a noi bambini e ragazzi. La corriera trainava una grande roulotte bianca che era la casa “mobile” di questa coppia, marito e moglie, che da diversi anni venivano a Pieve a far divertire grandi e piccini con il loro spettacolo (Pieve non era il solo paese che visitavano perché arrivavano sicuramente da altri comuni e la settimana dopo sarebbero stati a Sannazzaro). Ed il primo ad arrivare era il primo a prendere posto (l’occupazione del suolo pubblico era stabilita di anno in anno ma noi non lo sapevamo) giù in fondo alla via Benzo, in prossimità dell’incrocio di Via Gianzana, proprio vicino alla cabina dell’Enel. Li c’era l’aggancio per la corrente dove tutti si attaccavano mentre i vari cortili vicini fornivano gli attacchi e gli scarichi per l’acqua mentre per il gas avevano la loro “bòmbulä”.
Il proprietario, simpaticissimo signore piuttosto alto, riccioluto, magrissimo, con il suo classico accento romagnolo, ci salutava calorosamente e ci invitava ad andare sul suo trenino che per noi era un grande divertimento, quasi una tappa assolutamente obbligata.
Quasi in simbiosi con l’arrivo dei baracconi, ecco materializzarsi il signor Oreste Broglia (äl pesädù), grande amico di papà che veniva da noi ragazzi dicendoci:”Fè i bràv che ädés, äpenä s’hän sistemà, äm fòn dà un po’ äd getòn”. Ad essere sincero, io ero abbastanza avvantaggiato, ora lo posso dire, perché ricevevo un po’ di gettoni insieme ai miei amici ma li ricevevo anche dopo perché, con la scusa che l’Oreste veniva a trovare papà, me ne lasciava anche a casa (che bei tempi e che gran bella persona era l’Oreste). Ricordo con molta chiarezza quei momenti in cui venivano proprio distribuiti da lui, o i buoni per i gettoni (quei cartoncini marroni con scritto “buono per un giro”) o i gettoni direttamente. Quello che mi sono sempre chiesto: “Come fa l’Oreste ad accontentare tutti i bambini? Ma proprio tutti?”. La mia domanda non ha mai trovato una risposta ma, probabilmente, era giusto così.
I ragazzi della via Benzo erano i seguenti: escludendo me c’erano i gemelli Cucchi, il loro fratello Roberto (che era un po’ più grande di noi), i “Pusìn” (ovvero Fausto e Dario Sampietro), Davide Montini (che abitava a Torino ma in quel periodo era ancora a Pieve perché le scuole non erano ancora iniziate). A noi si aggregavano i “Sigulìn” (ovvero Andrea e Roberto Galante) e dal fondo della strada (verso la Statale) arrivava anche Gianfranco (figlio del Lino Corbella, ovvero Pinciarö). Assistevamo tutti insieme proprio alla “posa” della corriera del trenino, da quando si fermava a quando metteva i “cüni” (i cunei, i fermi sotto le ruote). La roulotte trainata dalla corriera veniva sganciata per favorire la discesa di quel bellissimo trenino, già pronto, che andava ad occupare il suo spazio, insieme alla cabina dove si faceva il biglietto, in Piazza Paltineri, all’altezza in cui si trova la fontanella dell’acqua. Assistevamo anche alle “prove tecniche” delle luci, del funzionamento del Pinocchio attaccato davanti alla locomotiva che – con un pulsante – ne veniva azionato il movimento delle braccia e l’azione esilarante del “fare la pipì” addosso a tutti o lo sparare l’acqua dal lungo naso appuntito.
Il gestore del trenino ci comunicava: “Ragazzi, funziona tutto?” e noi rispondevamo: “Si!”. E lui: “Volete fare un giro di prova?”. Ovviamente la nostra risposta era unanime: “Wow! Che bello! Andiamo!”
Quindi, tutti in carrozza fino al punto in cui si sarebbe fermato ad aspettare il “via” alla Festa d’lä Pièv.
Questi erano i nostri divertimenti ma, miei cari lettori, il meglio – per noi ragazzi della via Benzo, doveva ancora venire.
Continua …

RICORDI
I BÄRÄCON D’LÄ VIÄ BÈNŠO (parte 2)
Cari lettori, dove ero rimasto? Sicuramente sempre in Via Benzo ma il mio racconto intende proseguire come recita il titolo cioè andare avanti a parlare dei bäräcòn. Una volta giunto a Pieve il signore romagnolo del trenino, che arrivata in genere il martedì in mattinata, trovando posto là in fondo da “Pèdär Lüsìä”, era la volta di altri “giustré” che stazionavano sempre nella mia via con le carovane o roulotte. In martedì pomeriggio era la volta della piccola carovana dell’autopista dei grandi che si metteva appena dietro il trenino, all’altezza di Cucchi. Il camion che custodiva l’autopista andava direttamente in piazza ed il giorno dopo sarebbe stata montata per la gioia di noi ragazzi. Da tenere presente una cosa molto importante (parlo per i più giovani che non hanno vissuto in questo periodo): le giostre non erano nella Piazza Corte Grande come oggi bensì occupavano la totalità della Piazza Paltineri. Dove oggi ci sono i bäräcòn c’era la Cùrt Grändä, ovvero quella meravigliosa corte rurale chiusa ed abitata, molti anni prima, da tante famiglie numerose. In quegli anni, nonostante fosse ancora un centro agricolo e residenziale, ci abitavano poche famiglie. Ho fatto in tempo a vederla, ancora in tutto il suo splendore e nella sua intatta struttura mé cä l’erä ‘nä vòltä.
La percorrevamo con le nostre biciclette a tutta birra e, su quella strada sterrata, tiravamo su tanta di quella polvere provocando l’arrabbiatura di chi ci abitava; alcune donne uscivano con la scopa intimando a noi ragazzi la frase: “Se andì no via sgägià äv lä tiri ä drèrä”. Il nostro modo di fare era una provocazione, uno sfogo perché erano giorni di festa quelli e stavano arrivando le giostre, ecco il perché di tutta questa agitazione.
Il nostro interesse, il martedì pomeriggio, oltre che a vedere e gustare tutti insieme il posizionamento della carovana in seconda posizione al trenino, sempre nella mia via Benzo, era quello di far compagnia a chi iniziava a montare le attrazioni in piazza. L’autopista dei grandi si posizionava davanti al muretto del Castello perché era un punto piuttosto grande e questa giostra aveva bisogno di parecchio spazio. Molti di noi aiutavano i giostrai per farsi vedere capaci e per guadagnare qualche gettone gratis. Partecipavamo anche noi, nel nostro piccolo, alla messa a punto delle strutture e in cambio ci davano la possibilità di fare qualche giro senza pagare. Oltre al personale che i giostrai mettevano a disposizione, veniva sempre scelto un fortunato, di solito un ragazzo un po’ più grande al quale veniva dato il “gettone a forma di chiave” che si toglieva e si metteva a seconda se si dovevano spostare le macchine dalla pista. Il fortunato, intanto, faceva i suoi giri gratuitamente per tutta la durata del giorno della festa e faceva “äl gàl” di fronte agli altri ragazzi ma soprattutto di fronte alle ragazzine che lo guardavano come fosse il re dell’autopista.
Io non sono mai stato “il re”, non sono mai stato “prescelto” per questo dono importante ma me ne sono sempre fatto una ragione.
Un altro momento fantastico per noi ragazzi della via Benzo che poi influenzava anche gli altri bambini e ragazzi pievesi, era l’arrivo della “Super Star”. Io la chiamavo così ma cos’era? Una bellissima donna? No!! Una persona famosa? Una popolarità? No!! Non era una persona ma una cosa e … una cosa molto grande. Era il mercoledì, di solito puntuale, al pomeriggio. Non lascio più nessuno sulle spine anche se tanti ragazzi della mia età avranno capito. Era l’arrivo dei dischi volanti, il camion e rimorchio che li conteneva e lei: la “carovana bella”. Così noi bambini la chiamavamo perché era veramente bellissima, incredibilmente splendente, super “luccicante”, lunghissima e meravigliosa. Non ricordo quanti metri fosse ma per noi era enorme ed era di color bianco e marrone chiaro.
Oggi sarebbe un “caravan extra lusso” (non sono esperto nel definire questo genere di mezzi) ma all’epoca, in quei primi anni ’80 in cui non si era tanto abituati a vedere quelle cose, la “carovana bella” era la principale protagonista della mia strada. Conoscerete tutti la forma della Via Benzo, non molto larga, soprattutto la parte dietro il Castello. Questi imponenti veicoli arrivavano dalla Statale quindi percorrevano la strada davanti a casa mia affrontando quello stretto curvone (all’altezza di Pipàs). Il camion e rimorchio arrivavano per primi e la manovra era lenta ma scorrevole perché l’ampiezza dei due mezzi consentiva una facile manovra anche in quella curva piuttosto stretta. Dietro di lui arrivava un’auto, una Mercedes lunga e bianca che trainava una grande roulotte non a scopi abitativi ma probabilmente a scopo di carico e di magazzino attrezzature. Alla fine della coda arrivava un altro grande camion che trainava lei, la grande “carovana bella dei dischi”. La sua lunghezza era tale da far percorrere quella curva, dall’esperto autista, molto lentamente e grazie a grandi specchietti retrovisori, assicurare una precisione millimetrica durante le delicatissime manovre di percorrenza. Noi ragazzi stavamo attenti a guardare, curiosi senza spostarci mente gli uomini della carovana ci intimavano di spostarci perché non ci accadesse nulla. Mia mamma, ferma davanti alla porta diceva: “A l’è tärmentä longä che äg pasä penä penä”. E mia mamma, che era sempre molto ottimista nelle cose ci urlava: “Sti ‘tènt ä fàv nò cätà sùtä!” (grazie mamma per esserti sempre fidata cecamente di noi). Ma era chiaro che la mia mamma, le nostre mamme, usavano quella innata precauzione che era tipica di ogni genitore che ha figli di quell’età e così incoscienti, un po’ sprovveduti e un po’ “stupidini” come eravamo, era il minimo che potevano fare. Alla fine, dopo quelle delicate manovre alle quali dovevamo necessariamente assistere, nessuno si faceva male.
La prima donna della Via Benzo, ovvero la “carovana bella dei dischi” era arrivata e stava per essere piazzata nel suo spazio, tra il vecchio portone cadente di “Gävìli” e la casa dei nonni Lina e Pierino Gemelli.
Lo sbuffare dei freni del camion ci faceva capire che la manovra era terminata e la “regina” si sarebbe fermata per l’intera settimana, per la gioia di grandi e piccini.
Scattava l’applauso liberatorio per noi ragazzi che ci sentivamo protagonisti di un avvenimento che si sarebbe realizzato solo una volta l’anno.
La storia continua …

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I BÄRÄCON D’LÄ VIÄ BÈNŠO (parte 3)
Quel mezzo di locomozione era incredibilmente bello, splendente, pulito, tirato a lucido e pronto per essere ammirato. La mitica “carovana bella” era stata piazzata sulla parte finale della Via Benzo. Dietro di lei, solo quella vecchia Mercedes bianca a segnare la fine di quel tratto di strada diventato famoso, negli anni ’70, ’80, per aver ospitato i cosiddetti “bäräcòn”.
Facendo quindi un rapido appello vediamo un po’: la corriera del trenino, la sua roulotte, il camion e la carovana dell’autopista dei grandi, il camion e la “carovana bella” dei dischi volanti quel vecchio cädnàs della Mercedes. All’incirca 100 metri di automezzi e di “case mobili” che ospitavano i bäräcuné per circa una settimana. Dal cancello del mio cortile, ogni volta che mettevo fuori la testa, mi assicuravo – come se dovessero scappare – che ci fosse ogni cosa al suo posto e quando vedevo il “di dietro” della carovana bella tiravo un sospiro di sollievo pensando tra me e me, con la felicità di un ragazzino: “le giostre sono ancora qui”.
Ricordo l’autista del camion che trainava la carovana bella come un grosso signore di mezza età, rigorosamente in cänutièrä blu che chiedeva a noi ragazzi: “andate a chiedere al signor Gemelli se mi posso attaccare con il tubo dell’acqua” e noi ci recavamo da lui. La carovana veniva messa in sicurezza, venivano messi i cunei di legno a tutte le ruote. Venivano aperte le finestre sua dalla parte della strada che dalla parte del muretto del castello verso il quale c’era anche la porta per entrare. La bella signora mora dalla foltissima chioma (praticamente aveva la püplä) era la proprietaria della carovana e a noi sembrava piuttosto altezzosa: “äg l’àvä ämmà lè” dicevano i ragazzi più grandi e a noi, con quello sguardo piuttosto severo, faceva addirittura un po’ paura, ci metteva timore e soggezione.
Ma un giorno, vedendoci sempre li con le nostre bici scassate, ci disse (solo a noi piccoli): “Bambini, volete visitare la mia carovana?”. Davide Montini, impaurito, scappò via e non lo vedemmo più per tutto il giorno fino al mattino dopo. I coraggiosi rimasti furono tre: Dario e Fausto Sanpietro (i anvùs ad Pusìn, i fiò äd Sampedar äl märmurìn) ed io; afferrammo il coraggio a due mani e dicemmo: “Si signora, veniamo molto volentieri”.
Fu una giornata memorabile (alla fine la visita durò circa 15 minuti ma a noi sembrava essere passata una giornata intera) e passò completamente la paura, il disagio e quell’imbarazzo creato dalla nostra timidezza ma sconfitto dal nostro coraggio. Fausto, il più grande entrò per primo – o meglio – fu spinto dentro per primo, poi entrammo io e Dario.
Quello che immaginavamo da fuori, vedendo quella bellissima carovana, era nulla a confronto con quello che c’era dentro.
L’ingresso era quello di una casa lussuosa con tutto l’occorrente che serviva: tappeti per terra, quadri alle pareti, un bellissimo mobile con specchio ad intarsi, tutto lavorato. L’ingresso dava su un enorme (non ci crederete … enorme) salone con arredi veramente molto belli e classici divani in vera pelle chiara. Molto lussuosi anche i corridoi, la cucina abitabile molto grande e spaziosa (per una carovana), il bagno con la doccia, il reparto notte, camera da letto e cameretta.
Il tutto in quello spazio che, da fuori certamente, sembrava grande ma dentro … era grande almeno il doppio di quello che si poteva immaginare.
La mia battuta: “Crämèntu sti giustré” faceva capire quanto questa gente che era sempre “ä vòlt mé i sèngär”, si trattasse bene senza mai farsi mancare nulla. Ne era dimostrazione la nostra “carovana bella” dei dischi volanti; posso asserire ancora oggi, dopo circa 40 anni, magari un po’ egoisticamente, che questa carovana era anche un po’ nostra perché quando arrivava, ogni anno, andava a prendere il suo posto e a far parte del “tessuto” pievese come un lussuoso palazzo, una sontuosa abitazione; i giostrai si sentivano a casa, venivano a Pieve ormai da parecchi anni, andavano a fare la spesa nei nostri negozi, frequentavano i nostri stessi luoghi di aggregazione e vivevano come pievesi tra i pievesi.
La via Benzo non offriva le comodità di una Via Roma con i negozi di alimentari, frutta e verdura, il tabaccaio, i bar, i parrucchieri, le mercerie (negli anni ’80 c’erano molte più attività commerciali di oggi) ma una cosa la offriva: la tranquillità e la pace.
A parte noi ragazzi, che di giorno correvamo in su e in giù da quella “rampunà” con biciclette scassate, skateboard, pattini a rotelle urlando al mondo la nostra proverbiale incoscienza, la via Benzo era abitata da anziani, lavoratori stanchi dopo lunghe e faticose giornate, gente per bene, pacata, tranquilla. Nonostante la presenza di questi “estranei”, regnava un’atmosfera dolce e di piacevole condivisione: quieto vivere ma nel contempo interesse e curiosità verso la novità ed un mondo che stava cambiando, troppo in fretta.
Noi eravamo bambini, ragazzi, non ci accorgevamo di nulla e di quanto veramente, da quell’epoca li in poi, il mondo stava veramente modificando la sua struttura e il suo tessuto sociale. Vivevamo nel nostro mondo e il nostro universo era la nostra Via Benzo, non una semplice strada ma un concetto di vita, un posto in cui stare bene, al sicuro, dietro le mura di quel castello che – così grande – sembrava proteggerci dai pericoli e da quel mondo cattivo. E in quei giorni di festa eravamo veramente felici, increduli ed uniti più che mai. In piazza, il frastuono dei baracconi ci avrebbe offuscato la mente ed i problemi (se ne avevamo…) per quei 4/5 giorni. Il costo di un giro in giostra (qualunque essa fosse) non era così proibitivo come oggi, tutti i ragazzi (dal più facoltoso al meno abbiente) faceva il suo giretto e poi, noi pievesi, usufruivamo sempre di quei buletòn dell’Oreste che ci facevano sognare anche solo per qualche minuto.
Continua ….

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I BÄRÄCON D’LÄ VIÄ BÈNŠO (parte 4)
Nell’ultimo post mi sono dimenticato di scriverlo: di quei buletòn che mi dava l’Oreste, non ne avanzavo mai (ci tenevo a dirvelo).
Le storie di quel periodo, in quella via che per noi bambini era il nostro universo, mi tornano in mente e mi rimbombano in testa come chiarissimi episodi di vita. Parlo di 40 anni fa che non vuol dire essere in un’epoca così remota ma è un passaggio delicato che fa capire molto bene quanto la vita di un bambino di 10 anni, in quel momento, era ben diversa da quella di un ragazzino di 10 anni oggi. Non mi voglio arrogare il diritto di dire che noi bambini degli anni 70-80 eravamo migliori dei bambini di adesso, questo mai, ma voglio solo far capire, in modo molto semplice, quanto la vita fosse diversa. Ogni individuo vive il suo tempo senza rimpianti e senza colpe: ci vive e basta! Non posso paragonare la mia fanciullezza con quella dei miei genitori, dei miei nonni, tantomeno con quella dei miei antenati ancora più lontani.
In ogni periodo storico, la gente vive in base a “quello che c’è”, a quello che il periodo offre, in cui non importa il poco o il tanto. Ci si adattava in base ad una determinata “sostanza” di vita. Se la sostanza era poca, quello ci doveva bastare e quanto eravamo felici noi bambini quando in quei giorni c’era il “di d’lä Féstä”? Le strade erano piene di gente, la piazza era colma di divertimento, per le vie si respirava profumo di freschezza e tante persone nuove, che in quel momento invadevano il nostro piccolo borgo, davano l’impressione – a noi bambini – di essere importanti, privilegiati.
La via Benzo, con i suoi baracconi e la nostra principessa, la “carovana bella”, ci riempiva di orgoglio e ci faceva urlare a tutto il mondo: “La strada in cui abitiamo è la più bella di tutte”. Non so se quelli delle altre vie la pensavano allo stesso modo ma il numero di bambini che venivano in “trasferta” da noi, ci faceva capire che era una delle strade più gettonate dopo la Piazza Paltineri. Anche quelli della Via Gianzana avevano i baracconi, l’ultimo tratto fino all’imbocco della piazza ma, evidentemente, non erano così attraenti come i nostri.
Ma quanti bambini c’erano in giro in quegli anni? Un’infinità, una moltitudine, sembrava di essere in città tanto che era viva l’atmosfera.
E ricordo che anche i bambini dei “giustré” venivano a giocare con noi che, più o meno nostri coetanei, erano incuriositi dai nostri interessi e dai nostri modi di fare. Questi ragazzini erano piuttosto svegli, abituati sempre a non essere mai nello stesso posto per troppo tempo.
Ricordo con molta chiarezza una gara “di strada” tra noi bambini pievesi (via Benzo e non solo) che lanciammo ai ragazzini “giustré”, la sfida di tutte le sfide, oggi la chiamerei “Via Benzo – Resto del mondo” per farne capire l’importanza. Perché dico “di strada”? Perché si, nel senso che se, in quegli anni, tu cercavi un bambino non lo trovavi a casa ma in giro. Mia mamma diceva: “Viàltär si sempär ä volt, girundlòn!”. I nostri passatempi non erano elettronici o virtuali come quelli di adesso ma molto manuali, meccanici, a bassissimo impatto tecnologico e la nostra compagna di giochi preferita era la strada.
Tornando alla gara, non li sfidammo alla solita partita a pallone (troppo banale e scontata) ma ad una corsa di velocità e di “rumore”. Vi domanderete in cosa consistesse il rumore ma, se pazientate un attimo ci arrivo. Intanto, come voi pievesi ben saprete, la Via Benzo è piuttosto lunga e tralasciando il pezzo che dalla Banca di Novara scendeva fino al Remo “äl Marlìn” (sono sempre in quel periodo con la testa, non ci posso fare nulla), il nostro raggio d’azione era compreso tra Pèdär Lusìä e Pinciärö, sfruttando al massimo la curva a gomito “in mirä” a Pipàs. La velocità l’avrebbero stabilita le nostre gambe e le nostre biciclette (non così performanti come quelle di oggi) e il rumore sarebbe stato ottenuto da un’elaborazione tutt’altro che elettronica ma piuttosto rudimentale: molletta e cartolina posizionate rigorosamente sulla forcella della ruota posteriore in modo che la cartolina puntasse direttamente tra un raggio e l’altro e che durante il movimento della ruota, il rumore della cartolina facesse “tac-tac-tac” che con l’aumento della velocità sarebbe stato il rumore di un vero motore super turbo (che figata avere 10 anni in quel periodo ragazzi!!!). Proponemmo la sfida ai piccoli “giustré” e loro, da buoni rivali, accettarono di buon grado, non avendo altre possibilità (vurì murì brav om?). La partenza, davanti al pullman del trenino, gara a gruppi di due per volta fino alla meta. La gara fu avvincente, bellissima, ci divertimmo un mondo, qualche corsa la vinsero loro, qualche altra noi. Vorrei soffermarmi sulla mia performance che fu, ahimè, pessima. La prima corsa la vinsi ma la seconda fu veramente curiosa. Avevo una bici da cross color amaranto metallizzato (l’avevo verniciata io) con un manubrio mostruosamente largo (quando lo imbracciavo avevo praticamente le braccia aperte) con un “difettuccio” irrilevante che non riuscii mai a mettere a posto: si staccava il manubrio dalla forcella quando la bici andava troppo in curva (non lo so perché). Quella corsa la partii bene, ero contro il “biondino” (così lo chiamavamo tutti) e alla curva di Pipàs ero già in vantaggio, un vantaggio che mi spinse ad alzare le braccia staccandole dal manubrio che, sfortunatamente, si staccò anche lui generando la catastrofe: mi “sfracellai” contro il paracarro del Sandrino Chiocca facendomi piuttosto male.
Le ferite, a noi bambini, le curava la “pumàdä” che ci metteva la mamma. Non so cosa ci fosse dentro quella pozione ma unitamente ad un bacio e ad una carezza passava tutto e si tornava come nuovi.
Avevamo dieci anni e a quell’età si guariva subito, pronti per gustare una nuova avventura subito il giorno successivo.
Che bei tempi quelli … veramente incredibili tanto che se raccontassimo le nostre esperienze oggi, riderebbero tutti come pazzi.
Ma il nostro giorno della festa era questo e la via Benzo era magicamente avvolta da questo clima denso e carico di vitalità fino al martedì seguente, giorno che sentivamo come l’ultimo ed inesorabile giorno prima della fine di tutto.
Il mercoledì si ritornava tra i banchi di scuola dopo tre mesi di vacanza e quella via Benzo a poco a poco, dal mercoledì, si sarebbe svuotata.
Tutto quel frastuono, quel senso di pienezza, si trasformava in un vuoto totale, in un ammasso di sporcizia che sarebbe poi stata ripulita dagli “späsìn”; tutto sarebbe tornato alla calma, alla totale normalità, dalla via Benzo alla piazza e dal li a poco saremmo precipitati nell’autunno lomellino così malinconico e pieno di umidità. Mia mamma diceva sempre, al termine di ogni dì dlä Féstä: “Nànu, sumä in täl rätärö”.
La via Benzo era di nuovo vuota per metà e per un anno intero si sarebbero viste di nuovo le mura del suo Castello.
La storia è finita ma quel dì dlä Féstä che oggi non è più così tanto sentito e celebrato, a noi ragazzi della Via Benzo, rimarrà sempre nel cuore, anche se ormai siamo grandi.
FINE

COSA SI CELAVA DIETRO QUEL PORTONE?
I misteri di Via Benzo … di quando ero piccolo.
La zona in cui abitavo io, della quale ho ampiamente argomentato nei post precedenti, era la Via Benzo Benzoni, una delle arterie più lunghe di Pieve del Cairo; dalla via Roma, all’altezza della “Banca Popolare di Novara”, andava verso via Gianzana, attraversava questo incrocio (salutava Pèdär Lüsìä) e saliva costeggiando il muro del Castello fino a percorrerne tutta la parte dietro ed arrivare all’imbocco della via Primo Maggio, poco distante da quello che noi bambini chiamavamo “lä Stätàl” oppure “äl Strädòn” (si chiamava Strada Statale 211 della Lomellina)
Il tragitto di Via Benzo non è cambiato, è ancora oggi esattamente così.
Dopo aver inquadrato geograficamente questa via, lunga poco meno di 500 metri, vorrei parlare di un particolare interessante che aveva la strada in cui abitavo, un luogo praticamente, per quelli dalla mia età in poi, inesplorato perché si poteva soltanto usare l’immaginazione (e quando sei un bambino quella non ti manca…)
Oggi, questo “fantomatico” luogo non esiste più e al suo posto, da un ventennio, c’è una nuova zona residenziale. Sto parlando della proprietà della famiglia Gaviglio. Ci abitava la professoressa Maria Adelaide Gaviglio che, negli anni ’50, insegnava lettere. Papà la ricordava molto bene quando, ancora ragazzo, studiava a Torino. Poi andò via da Pieve e la casa rimase sfitta per molti anni. Nei primi anni ’70 non ci abitava già più nessuno.
Era un palazzone piuttosto fatiscente e da ragazzino avevo paura, come tutti gli altri ragazzi della mia età, a passarci davanti. Per tutti noi bambini e ragazzi era “al cäsärmòn äd Gävìli”.
Il fabbricato, che si spingeva nell’interno con giardino e orto (urtàia) fino a collegarsi con la via XX Settembre (la strada praticamente parallela alla via Benzo, verso il “Pont dal Torc”) era veramente molto grande e prendeva buona parte del tratto della Rampunà, tra le abitazioni di “nonno” Pierino Gemelli (che viveva con sua moglie, la Linä äd Bigiulòn) e quella del Mario Cucchi (cul ch’äl vindivä äl vìn). Buona parte di quell’enorme plesso sembrava dovesse cadere da un momento all’altro. Le finestre avevano le imposte tutte rotte, non rimanevano neanche più chiuse, il piano superiore si salvava solo perché non era alla portata di qualche “vandalo” che gettava i sassi dentro o faceva dispetti. La casa, quasi interamente priva dell’intonaco originale, non ho mai saputo di che colore fosse. Restava il muro in “cälcìnä”, molte parti completamente scrostate dal tempo e il “mattone a vista” era quello che maggiormente si vedeva. Le porte erano ermeticamente chiuse e, dalla strada, nessuno poteva entrare, neanche per sbaglio. Ci provammo diverse volte, per fugare la nostra curiosità ma, dopo due spallate, ci accorgevamo che i nostri sforzi non erano assolutamente appagati (probabilmente erano chiuse dall’interno con ““lä bütä” ovvero quel gancio che dal muro si agganciava alla porta.
Era, in sintesi, un edificio disabitato da anni, abbandonato all’incuria del tempo dove, nel cortile (che non ho mai saputo come fosse), la natura si era impossessata di tutto, anche dell’edificio stesso.
Papà, che si ricordava com’era quando ci abitava la famiglia della professoressa, mi diceva sempre che era una gran bella casa. Da bambino pensavo sempre a come si potesse lasciare una casa così grande, abbandonata a se stessa. Era desolante vedere quel posto messo in quel modo, che noi bambini e ragazzi evitavamo, quasi a definirla “la casa degli orrori”, sempre così vuota e silenziosa.
Quello che destava maggior preoccupazione era quello che non si vedeva, o meglio, che si intravedeva da quell’enorme cancello di colore verde, tutto rotto e cadente, quasi a volersi accovacciare per l’enorme peso dell’incuria e degli anni che era li. Quel portone aveva i cardini completamente rovinati quindi non si poteva aprire. Aveva anche una porticina che permetteva il passaggio delle persone senza aprirlo (come i normali portoni) ma da molto tempo quei passaggi non erano più frequentati da nessuno.
Si intravedeva un cortile pieno di erba altissima, di vegetazione spontanea, nulla era più curato e tutto quello che cresceva, sovrastava ogni cosa. Li chiamavamo “ärbäsòn” ed erano così densi e fitti che uscivano dagli spiragli del portone, quasi a voler uscire sulla strada perché quella proprietà non riusciva più a contenerli.
Le leggende metropolitane di quegli anni narravano ai bambini che c’erano i “särpènt” e i “smiràld”, che non ci si doveva avvicinare perché saremmo stati inghiottiti da animali misteriosi e cattivi, da creature che vivevano soltanto lì e da nessun’altra parte. Alcuni esagerati, fin troppo apprensivi e pieni di paura vociferavano la presenza addirittura di “un quéi cucudrìl”. Beh, diciamo che questo era abbastanza improbabile ma noi, pòvär päisän, ci credevamo. Non è come oggi, quello che ci dicevano i vecchi, veri depositari della saggezza e della conoscenza, era legge e rispettavamo parola per parola quello che ci dicevano di fare o di non fare.
Dario, Fausto, Davide, Pier Mario, Nicola quando veniva dai nonni (Cesarina e Pipìn), Davide Montini quando veniva a Pieve per le vacanze ed io, tutte le volte che passavamo davanti a quel portone, ci fermavamo e - da lontano – osservavamo ammutoliti quello che la nostra curiosità voleva vedere ma la nostra paura non ci permetteva di avvicinarci. Un giorno presi coraggio e, non curante delle raccomandazioni che mi avevano fatto mamma e papà su quegli animali striscianti che ho citato prima, mi avvicinai per “sbirciare” dentro. Non vidi nulla tanto che era rigogliosa quella vegetazione ma in quel momento sentii un brutto rumore e qualcosa spuntò fuori di corsa emettendo uno straziante urlo: prima di capire che fosse soltanto un gatto che avevo disturbato, giurai di aver visto qualcosa strisciare e qualcosa toccarmi. La mia reazione fu quella di un “razzo missile” che parte a tutta velocità. In realtà non avevo né visto né sentito nulla: soltanto la mia paura aveva accentuato tutto questo.
Un giorno, quel portone, spinto dalla così tanta vegetazione e dai cardini completamente distrutti, lo trovammo riverso sulla strada. I proprietari, che non abitavano più a Pieve da molti anni, fecero piazzare una grossa putrella che tenesse in piedi quel portone senza curarsi del resto.
Quello che contenesse quell’abitazione, per me e per gli altri bambini, rimane, ancora oggi, una grande incognita.
Tutti immaginavamo come fosse l’interno di quella casa, come fosse l’interno di quel cortile ma non ci fu mai la possibilità di un riscontro perché era sempre tutto chiuso, sigillato, come un qualcosa che impediva il passaggio dal nostro mondo reale a quel mondo sconosciuto.
Per noi bambini e ragazzi di quegli anni, la nostra Via Benzo, sempre così allegra e vitale (soprattutto quando ospitava i “bäräcòn” al di d’lä Féstä), custodiva questo mondo sconosciuto che per noi è sempre stato “äl mistèr äd Gävìli”.

I PREPARATIVI DEL “CÄRNUÁL ÄD LÄ PIEV” (parte 1)
Uno dei momenti più belli per i bambini, in quegli anni ’70, ‘80 in cui non c’erano molti svaghi o divertimenti come oggi, era il Carnevale (äl Cärnuàl) e quell’indimenticabile sfilata dei carri allegorici (i càr äd Cärnuàl) che tanto piacevano a tutti.
Bastava davvero poco per far contento un bambino: una mascherina, un costume, una manciata di caramelle e il gioco era fatto. Se a questo si aggiungeva, al termine della sfilata, una bella merenda da Don Sandro alla “Casa del Giovane”, era tutto ancora più perfetto. Il paese, in quei giorni, era circondato da “buon umore” e tutto sembrava, nonostante le problematiche della società e di tutti, magico, sia per i bambini che per gli adulti.
L’inizio di tutte le attività carnevalesche era nella piazzetta della chiesa di San Giovanni Battista (lä Cesä Bätü) e all’Oratorio, dove tutti i carri, ordinatamente numerati e schierati, erano pronti per sfilare lungo le vie del paese. Molta era la manovalanza impegnata quei giorni fra uomini (trattoristi) e mezzi: trattori e lisìne venivano forniti gratuitamente al paese e oltre all’allegria e alla festa comunitaria, l’altra protagonista indiscussa era la generosità delle persone. Chi era agricoltore forniva, oltre che alla sua disponibilità, anche il proprio mezzo di trasporto per l’allestimento di tutte le strutture che dovevano essere esibite al pubblico.
I carri erano tutti bellissimi e negli anni più fiorenti, Pieve arrivò ad averne anche oltre una decina, tutti diversi, tutti a tema, alcuni recuperati dagli anni precedenti e altri nuovi, realizzati sfruttando i materiali a disposizione e seguendo le tematiche e le mode del momento.
C’erano i temi classici: Biancaneve e i sette nani, Cenerentola e il Principe Azzurro, Zorro, Braccio di Ferro, il Castello, il tema dello Spazio con il missile, la navicella spaziale e poi veniva messa in campo la bravura, la capacità e la fantasia di quelle persone (che erano i nostri papà, i nostri nonni) che lavoravano ininterrottamente tutto il resto dell’anno per preparare a noi piccoli una festa di tutto rispetto.
In quegli anni imperversava il personaggio di Sandokan e tutti noi, grandi e piccini, eravamo incollati ai televisori per vedere quel bellissimo sceneggiato tratto dai racconti di Emilio Salgari.
Come non mettere in bella mostra su un carro, alla portata dei bambini, questa sceneggiatura? E si faceva, si realizzava, tutto era possibile e nulla sembrava impossibile. Non posso dimenticare Goldrake, il carro dell’Italia Campione del mondo 1982 (realizzato l’anno dopo), la Strega (qui i tecnici si erano superati per quanto era bello quel carro), Pinocchio e il nostro amatissimo Re Carnevale in testa a tutti gli altri carri, seduto su quell’enorme e pesante struttura di legno che era il suo trono, con scettro in mano e corona in testa.
Dopo aver parlato un po’ sommariamente del Carnevale, vorrei parlare, in particolar modo, del “dietro le quinte”: sarebbe troppo semplice parlare di giorni di festa senza capire cosa c’era dietro.
Dietro a tutto quello che noi bambini e ragazzi vedevamo, dietro alla grande sfilata in maschera che tutta la gente, sia di Pieve che di fuori, assistiva con tutta la gioia e tutto l’entusiasmo possibile, c’era un lavoro incredibilmente duro e certosino, una serie di preparativi che rasentavano l’impossibile, un qualcosa che oggi sarebbe difficile replicare (anche se in seguito, ottime persone si sono date molto da fare). Il carnevale era possibile, ogni anno, grazie a persone straordinarie che si prodigavano in modo del tutto volontario e gratuito con l’unico scopo di far felici i bambini.
Gli uomini straordinari avevano un nome, un volto e una storia bellissima da raccontare, per ognuno di loro: c’erano Francesco Manfredi (äl Cécu), il mio caro papà (äl Dègo), il Pierluigi Martinotti (lui c’è ancora e lo saluto tanto): loro si dedicavano al lavoro di pittura e decorazione dei carri. C’era il caro buon Renato Longhi che forniva tanta manodopera, macchinari per il lavoro e materiale (legname, compensato, viti e chiodi). C’erano il Pino Milani, Pidrìn Schiena, veri e propri artisti del legno che sapevano “professare” la loro opera in modo eccellente (dei maestri nel loro genere)
Quanto “su e giù” hanno fatto con le loro biciclette a prendere le cose che mancavano! Quanti viaggi in falegnameria da Renato per far tagliare a misura il legno necessario per proseguire i lavori senza troppe pause! Era straordinario l’impegno che ci mettevano pensando anche che, a loro, non veniva fornito nulla e, tantomeno lo chiedevano. Ognuno di loro portava le proprie cose, in base al lavoro che doveva fare e nessuno, dico nessuno, si lamentava mai.
Per un certo periodo, veniva ad aiutare i nostri “eroi” anche il signor Erminio Tondi di Mede (datore di lavoro di papà e del Cécu) che, per determinati lavori di un certo peso e di una certa importanza e precisione, si era offerto per dare una mano (anche lui, nonostante i viaggi avanti e indietro da Mede con il suo Fiat 238 grigio, gratuitamente).
Con loro c’era anche un altro artista, il pievese Luigi Pezzali (äl Dìgäl Nò), grande amico di papà e di tutti gli altri che ho nominato: lui era il mago, nel vero senso della parola, a lavorare la “carta pesta” e la sua creazione di cui andava veramente molto fiero (alla quale ne seguirono diverse altrettanto belle) era “Il Re Carnevale” (non vi racconto cosa passò quel giorno, ormai anziano e rassegnato, quando vide la sua creatura fare una brutta fine).
Ma il loro quartier generale dove era collocato? Ve lo ricordate?
Nel salone dell’Oratorio che era, per buona parte dell’anno ovvero per tutto l’autunno e per tutto l’inverno il luogo in cui venivano create queste meraviglie. Ricordo che, appena terminava il giorno della festa del paese, si “sbäräcàvä” il banco di beneficienza e si apriva il sipario ad un nuovo scenario: un vero e proprio cantiere, chiuso e riscaldato che sarebbe servito, per tutte quelle lunghe sere invernali, a chi – come il mio papà – lavorava al nostro Carnevale.
In quel salone c’era praticamente di tutto: seghe, martelli, pialle, trapani. Oggi ci sono i banchi da lavoro ma una volta c’erano cavalletti e lunghe assi e, lì sopra, ci si appoggiava di tutto. Si faceva ogni cosa senza particolari protezioni, senza guanti, senza visiere o mascherine: si respirava la polvere del legno appena tagliato che si infilava dappertutto. Diciamo che oggi non ci sarebbe quella perfetta “agibilità” del locale ma, in quegli anni, il “buon senso” regnava su tutte le mancate precauzioni. Si avvitava tutto a mano, non c’erano ancora gli avvitatori e ogni tanto, qualche “preghierina particolare” la sentivo, dopo un’accidentale martellata sulle dita. Nessuno però, in quel “disordine organizzato” si fece mai male.
C’era anche il buon Bruno Paron che, una volta che mi diedi una martellata sul dito e dal dolore quasi svenni mi disse: “Carlìn, l’è gnintä, thö, bèvä un po’ äd gasösä che ät pàsä”. In realtà, l’azione rudimentale ma preventiva di Paron era intelligente in quanto, il calo glicemico causato dal dolore, fu ampliamente soddisfatto dalla bevanda zuccherata che mi fece bere. Ma nessuno mi tolse di mano il martello che, con assoluta imprudenza, continuavo a “brandire” ‘mé un stüpid.
Devo dire che mi sento un po’ un privilegiato e, mentre scrivo questa storia mi vengono le lacrime agli occhi perché la preparazione dei carri io l’ho veramente vissuta ogni sera dove, in compagnia di questi straordinari eroi, facevo le ore piccole, a mio discapito e non curante del giorno dopo che mi aspettava non il suono della sveglia ma il grido della mamma che mi “tirava giù” dal letto perché dovevo andare a scuola.
La storia si fa molto interessante e dato che sono le 00.45 e domani andrò al lavoro, memore delle “levatacce” che facevo da bambino dopo le sere in Oratorio, vado a dormire. Ma non finisce qui …

I PREPARATIVI DEL “CÄRNUÁL ÄD LÄ PIEV” (parte 2)
Nel post precedente che riguarda il carnevale pievese e tutti i suoi preparativi, stavo parlando – nel modo più dettagliato possibile – di quello che succedeva tutte le sere nel salone dell’Oratorio dove, quegli uomini straordinari che ho menzionato, lavoravano senza risparmiarsi, senza sosta e “come se non ci fosse un domani”. A parte la battuta di spirito, è vero; ogni persona presente in quella situazione, spendeva tempo e fatica per il bene di noi piccoli.
Oggi, forse troppo oberati dai nostri impegni lavorativi ed extra lavorativi, non riusciremmo a concepire quel loro comportamento perché siamo sempre alla ricerca di “tempo libero” che non troviamo mai. Per loro, fare qualcosa per la comunità era come stare in famiglia e il tempo veniva speso, donato ma senza calcolarlo troppo.
Io ero la, praticamente tutte le sere e per cercare di non perdermi nessun momento di quel genere, al pomeriggio mi impegnavo tantissimo sia nello studio che nel fare i compiti perché il mio fine era quello di essere assolutamente libero la sera per poter andare con papà in Oratorio.
Sicuramente lui (povero papà) avrebbe preferito che non andassi tutte le sere – anche perché ero una vera “palla al piede” – dicendomi che poi mi stancavo troppo, che dovevo riposarmi perché il giorno dopo c’era scuola e tutte quelle storie che mi doveva raccontare per dissuadermi: non ci riuscì mai eccetto quella settimana in cui presi la bronchite (unä tus dä l’äsidènt) e, per forza maggiore, rimasi a casa.
Con me c’erano altri ragazzi che cercavano di aiutare – o meglio – di disturbare il lavoro dei grandi. Noi piccoli eravamo sempre “in més d’i bàl”. Rimanere lì era anche pericoloso perché, la nostra ingenuità ed ignoranza, ci faceva fare cose assurde; per esempio usavamo la “sparachiodi” come un giocattolo, rischiando, in ogni momento, di farci davvero male; oppure usavamo la colla vinilica (äl Vinävìl) per attaccarci i pezzi di carta sopra gli occhi, con il rischio di incollarci le palpebre (i clàsic ròb dä fiö).
Oggi queste cose sarebbero assolutamente inconcepibili e nessun bambino si sognerebbe di fare sciocchezze simili. Ma erano i nostri divertimenti preferiti, ci divertivamo un mondo mentre i “grandi” si dannavano per farci stare buoni. La tecnologia non era ancora a portata di mano, il mondo dei computer non ci aveva ancora invaso, nemmeno sfiorato. I social network non sapevamo nemmeno cosa fossero e Tik Tok per noi era il rintocco dell’orologio o del cucù che molti avevano in casa.
Nel salone dell’Oratorio si respirava, oltre all’odore del legno tagliato, aria di festa, continuamente. Quando ci annoiavamo, andavamo nella stanza antistante il salone e c’erano quei primitivi videogiochi, il Packman, i primi SuperMarioBros, Arkanoid. I miei amici erano molto portati per questi divertimenti ma io, assolutamente no e ogni volta che ci provavo, dopo pochi secondi usciva la scritta: “GAME OVER - INSERT COIN”. A me piaceva tantissimo giocare a Ping Pong e a Tam Tam; con il secondo ero veramente molto bravo e, a differenza della mia scarsità nei videogiochi, in questo gioco prettamente manuale ero piuttosto forte.
Potevamo fare qualsiasi rumore volevamo perchè a quell’epoca le sale erano chiuse, la sala “giochi” era separata dalla sala del Bar e della Televisione, dove c’era pure il biliardo. Tra una sala e l’altra c’era il corridoio che andava verso il campo sportivo (dove d’estate si svolgeva la Notturna di Calcio). Per andare nelle stanze al piano superiore, c’era un cancellino di ferro con apertura tipo “soffietto” chiuso con lucchetto e catena. Noi bambini avevamo parecchia soggezione ad attraversare il corridoio ed andare nel Bar perché i nostri sguardi incrociavano quelli degli adulti e dei vecchi che ci vedevano come dei veri e propri “rompä scàtul”, come delle fastidiose mosche.
E la sera la passavamo così, tra i videogiochi, il Tam Tam e il salone. Che bello che era e quanti personaggi abbiamo visto realizzare da quelle mani sapienti dei nostri papà. Ad un certo orario arrivava un personaggio temuto da tutti i bambini per quelle sue mani che ci pizzicavano le guance rendendole indolenzite e rosse come dei peperoni: Don Sandro.
Per l’amor del cielo: era un uomo straordinario il nostro parroco di quando eravamo bambini e che, con lui, abbiamo iniziato la carriera di chierichetti.
Ogni sera Don Sandro portava da bere e da mangiare. Lo spuntino consisteva in: una mìcä, un sälàm crüd e ul butiliòn äd vìn da dù litär con la chiusura a scatto (lä mächinätä, non äl stupòn), tutto rigorosamente e direttamente dalla sua cantina. Un momento di convivialità incredibile che faceva cessare la fatica e apriva il cuore al buon umore.
Ogni tanto capitava che il salame non fosse sempre buono e anche il vino (ogni tanto era piciùrlä) ma la gioia di stare insieme e anche un po’ la fame dovuta al lavoro, non hanno mai fatto emergere questo dettaglio: Don Sandro era contento, i nostri lavoratori pure. E anche noi bambini partecipavamo a questo momento non con il vino ma con la gäsösä o il chinotto. Ricordo molto bene che io godevo di un particolare beneficio, che gli altri bambini non avevano, quasi tutte le sere: un vecchio amico di papà, Giuàn Bärsisä, mi pagava sempre “lä pulèntä” (erano i Rodeo ma lui li chiamava così) che mi piaceva tantissimo. Papà ha sempre cercato di sdebitarsi con lui, cercava di dargli indietro i soldi, ma non riuscì mai perché il buon vecchio Bärŝisä (che chiamavano anche Bärŝisot) gli rispondeva sempre: “Dègo, äl tò fiulìn l’è trop simpàtic e mi äg rigali i pätätìn pärchè al g’ha fam”. E papà, scherzando gli rispondeva: “Giuàn, stà ätent, cul li (rivolto a me) äl g’ha no fàm, l’è ämmà lèmbär”. Era già anziano pover’uomo e poco dopo ci avrebbe lasciati (erano i primi anni ’80 e lui era già sull’ottantina). E dietro il bancone del bar, Rumè Fätin e sua moglie, la Mariulìn, osservavano da lontano senza prestare troppa attenzione alle cose, circondati da quella coltre di fumo (lä nébiä) dovuto alle tante (troppe) sigarette accese in quella sala.
Venuta l’ora, papà mi veniva a chiamare: “Ändumä ä cà che l’è urä” ed io salutavo Bärŝisä e con un abbraccio gli dicevo: “Ciao nonno, ci vediamo domani sera”. Gli volevo molto bene e lui ne voleva a me.
I ricordi di quelle sere non finiscono qui, ho ancora tante cose da dire. Era inverno pieno e … questo Carnevale … era ancora lontano.
Continua…

I PREPARATIVI DEL “CÄRNUÁL ÄD LÄ PIEV” (parte 3)
La mia serata in Oratorio era terminata, quasi come ogni sera, con l’abbraccio caloroso a nonno Giuàn Bärŝisä che, come ho già detto, mi voleva bene come se fossi stato un suo nipotino.
Del resto, Bärŝisä era sposato con la signora Michelina ma non aveva figli per cui, non essendo diventato neanche nonno, aveva riversato su di me (solo perché ero figlio del suo amico Dego) il suo affetto, trovandomi simpatico e carino. E dall’altra parte c’ero io, che già da ragazzino, ero piuttosto socievole, “alla mano” e avevo questa carenza affettiva da “mancanza di nonni” (perché non li avevo conosciuti).
“Nonu Giuàn”, come lo chiamavo io, era veramente un uomo simpaticissimo e di buon cuore. A lui mancava un nipote, a me mancava un nonno: lui ed io, quindi, eravamo in completa sintonia.
Iniziava una nuova giornata: scuola al mattino, compiti al pomeriggio e alla sera? Con papà in Oratorio. Era una delle tante sere in cui quella compagine di persone lavorava al carro di “Pinocchio”. Menziono questo carro perché, ricordo l’enorme quantità di legno che è stato utilizzarlo per costruirlo. Di dimensioni considerevoli, Renato Longhi si occupava di tagliare, a disegno, tutto l’occorrente che serviva per la sua messa a punto. Non so se presero spunto da un disegno o da un modellino ma quella sera, una delle tante sere, la questione era: “äl nas, quänt ällä fumä long?”. Si fecero prove, campioni, proporzioni, poi alla fine si decise di farlo lungo il doppio dell’altezza del viso. Doveva essere lungo, il Cécu Mänfrèd diceva: “Long mé i busìi c’äl disä”. Il legno, dicevo prima, era veramente tanto e ricordo che, successivamente, si dovette rinforzare la lisìnä perché era pesantissimo. Seggiolino, gambe, braccia, mani, corpo, scarpe, testa, naso e cappello, tutto rigorosamente in legno. Un particolare che conservai, perché era stato tagliato in più rispetto al necessario, era il collo e, soltanto quel pezzo lì, era piuttosto pesante da reggere.
Ci fu bisogno di tante sere per finirlo ma, alla fine, il risultato fu incredibile: Pinocchio era splendido e su quel carro, quell’anno (che non ricordo bene quale fosse), tutti i bambini ci volevano salire.
Ogni anno si lavorava ad un paio di carri nuovi, il resto era recuperato dagli anni precedenti con messe a punto, manutenzione e migliorie varie.
Il carro che venne preparato insieme a Pinocchio fu il Goldrake. Su modello fornito dall’amico Fabrizio Martinotti al papà Pier Luigi, altro grande artista e volontario per la realizzazione dei carri, i nostri “eroi” si misero tutti al lavoro per realizzare anche questo capolavoro, tutto in legno. Tanti particolari accattivanti, la testa, il disco volante, la coda, le ali con le varie armi, tutte al loro posto. E dietro alla figura di Goldrake, sul fondale, il pilota Actarus, a coronare la bellezza di questo carro. Quell’anno io andai, con mio cugino Piero, sopra quel carro. Io ero vestito da Pirata e mio cugino da Zorro, un abbinamento che non c’entrava assolutamente nulla con Goldrake ma a noi andava bene così e nessuno ce lo ha mai fatto notare.
E vogliamo parlare dei costumi carnevaleschi di allora? Parliamone!
I miei genitori erano una delle tante famiglie che non poteva permettersi, ogni anno, di comprare un costume nuovo al proprio figlio. Come me, tanti altri bambini, recuperavano in Oratorio i costumi usati che “i gnìvän inguälà” per poter essere riutilizzati negli anni successivi. Così facendo, molti di noi, non hanno mai comprato costumi ma li trovavano nella saletta piccola posta al piano superiore dell’Oratorio, dove c’erano, appesi agli “umìn äd fér” tutti questi indumenti carnevaleschi. I costumi erano tanti ma non c’era molta scelta e se per le femmine c’era la principessa, la fatina, l’ape, la farfalla, per i maschi c’era lo gnomo, il folletto, il principe azzurro, Zorro e qualche maglia a righe per fare il pirata. C’era scarsa quantità di accessori quindi, se volevi la spada, te la costruivi con il cartone. Personalmente, da piccolo, ogni anno ero vestito da gnomo e qualche anno dopo o da principe azzurro o da pirata.
Era cura di chi riportava il costume, una volta utilizzato, di metterlo a disposizione lavato, stirato e rammendato ma non era sempre così: ricordo un Carnevale quando presi il costume da principe con una manica completamente “sguärà in més”. Nessun problema! A casa c’era la mamma che “riparava” il costume con quello che aveva a disposizione e tornava in Oratorio (quasi) come nuovo. Non ricordo chi mettesse a disposizione tutti questi costumi ma noi bambini trovavamo sempre quello che era più di nostro gradimento, senza litigare (senza litigare poco…)
La situazione si complicava quando più di un bambino voleva mettere lo stesso costume. A differenza del “folletto” o del “principe azzurro” che ce n’erano sempre in abbondanza o, comunque, in quantità sufficiente, scarseggiavano il pirata, Zorro, l’astronauta.
Il mio sogno era quello di vestirmi da “uomo dello spazio” ma arrivavo sempre troppo tardi e quel costume era già stato preso da un altro bambino.
Nonostante questo desiderio non si fosse mai realizzato, la nostra infanzia e la pre-adolescenza sono state uno spasso. Dico una frase retorica, scontata, ma la ripeto lo stesso: “con quel poco ci si divertiva tanto”. Non potrei dire cose diverse da questa perché era semplicemente così, nessun altro aggettivo se non il termine “semplice” poteva definire meglio quel periodo. L’attesa del Carnevale era vissuta da tutti noi con grande trepidazione, non vedevamo l’ora che arrivasse per poter davvero passare la domenica e il “märtidì gràs” in allegria e goliardia.
Terminati questi momenti bellissimi, sarebbero rimasti, per giorni e giorni, i rumori delle trombette, il frastuono dei “petardi”, l’invasione di coriandoli e stelle filanti e il Carnevale non sarebbe stato un ricordo soltanto ma una grande promessa: quella che sarebbe tornato l’anno dopo, pieno di sorprese, di buoni propositi e di nuovi allestimenti.
Finisco di scrivere perché è tardissimo e ho sonno ma il racconto non finisce qui perché ho ancora molte cose da dire….
Continua …

I PREPARATIVI DEL “CÄRNUÁL ÄD LÄ PIEV” (parte 4)
Non vorrei essere noioso, a questo punto, non vorrei che qualcuno mi dicesse: “Carlo, ma hai ben tante cose da scrivere?”. La mia risposta, se mi facessero questa domanda sarebbe molto semplice: “Non ho ancora finito perché i ricordi sono talmente tanti che non riesco a contenerli”.
Riprendo pertanto il discorso dove lo avevo lasciato nell’ultimo post di qualche giorno fa scrivendo ancora un po’ di vicende riguardanti il Carnevale Pievese ed i suoi instancabili personaggi che preparavano tutto questo. I bambini eravamo sempre trepidanti per l’attesa mentre io, vivevo questa attesa osservando ogni dettaglio, sera per sera all’Oratorio con papà. Ora non riesco a collocare proprio l’anno esatto perché sono passati veramente tanti anni ma sto parlando di fatti avvenuti prevalentemente nei primissimi anni ’80 quando papà e tutti i suoi amici che avevo già menzionato nei post precedenti, realizzarono uno dei carri più “mastodontici” che avessi mai visto (almeno per la nostra piccola Pieve): il carro della “Strega”. Di proporzioni veramente grandi, per questo carro – ricordo bene – venne utilizzata una “lisìna” molto più lunga dei rimorchi normali da trattore. Vivendone i preparativi, assaporavo pezzo per pezzo questa bellissima struttura che, a dire la verità era un capolavoro fatto di un’intelaiatura interna e tutta carta pesta, sapientemente lavorata e modellata dall’amico di papà, Luigi Pezzali (detto “äl Dìgäl Nò”).
Era una struttura di circa 8 metri, disposta sopra un’impalcatura di legno che la rialzava, al centro del carro. Era veramente completa di tutto: nasone lungo e ricurvo, faccione impressionante, foulard da “vecchina”, enorme vestito con “scuŝälòn”, scarpe rigorosamente nere e cavalcava un’enorme “scuä äd sägìnä”. A rendere ancora più orrendo il tutto, i rappezzi al vestito e un ghigno malefico in volto. Il vestito era un verde scurissimo, quasi nero mentre il foulard in testa era di un verde più chiaro. La scopa, da sotto, la attraversava totalmente dandole quell’aspetto di “sospensione” nel vuoto.
A noi ragazzi piaceva tantissimo ed io, quell’anno, scelsi quel carro per la sfilata lungo il paese. Per far capire quanto fosse grande questa bellissima “orrenda strega”, riuscimmo, noi bambini, stando sotto di lei, a non bagnarci dalla pioggia che, quel giorno, cadde abbastanza insistente per quasi tutta la giornata. Doveva essere piuttosto scomodo, per i nostri genitori, accompagnatori, stare tutto il santo giorno sotto l’acqua con l’ombrello in mano e farsi tutto il paese a piedi, ma noi, sopra quel carro, eravamo felicissimi e noncuranti di quanto il cielo lasciava cadere, in maniera fastidiosa. Ci furono anche dei carnevali con la neve ma, per nulla al mondo, il paese si fermava. Il “fine ultimo” era più importante di qualsiasi ostacolo naturale. Contrariamente a molti episodi che ho trattato, dei quali non ricordo bene l’anno in cui si sono svolti, rammento con molta chiarezza un anno ben preciso cioè il Carnevale 1983.
Quell’anno ci fu uno spunto molto interessante, dato da un evento che si era svolto l’anno prima (il 1982) cioè i campionati del mondo di calcio in Spagna che vide l’Italia vincitrice. L’idea fu quella di realizzare, per commemorare questo importantissimo evento (dopo 44 anni dall’ultima doppietta del 1934 e del 1938), il carro dei Mondiali.
Tra i nostri uomini straordinari c’erano pittori, imbianchini, tappezzieri, falegnami, carpentieri, ottimi manovali ma per questo carro occorreva la presenza di un bravo disegnatore, di uno che avrebbe dovuto realizzare, in forma spiritosa, delle caricature di questi personaggi che erano i nostri “azzurri”.
A tale proposito fu interpellato un giovane pievese che lavorava nel mondo della grafica, il signor Pier Emilio (Pier, per gli amici) che diede una grossa mano ai nostri “eroi”. Lo ricordo molto bene come se fosse ieri: il suo apporto e supporto fu fondamentale per la realizzazione di questo lavoro che era stato studiato come un risultato diverso dal solito e fu straordinariamente bello.
Pier realizzò i disegni, le figure, i fondali, curò tutta la parte grafica e l’impostazione della struttura (se qualcuno avesse una foto di questo carro la possiamo pubblicare … io purtroppo non ce l’ho). Era un carro fatto veramente bene, fu realizzata, in legno, anche la coppa del mondo in proporzione, 3 o 4 volte più grande di quella normale. Per me, il signor Pier Emilio, lo chiamavo così (io avevo 12 anni, lui ne aveva il doppio di me, credo), era un “mito” perché non avevo mai visto nessuno disegnare come lui. A distanza di anni, per quel carro, gli faccio ancora i complimenti perché se li meritò tutti allora e se li merita ancora tutti oggi.
Ricordo con tanto piacere quanta collaborazione c’era tra queste persone, a più livelli, indipendentemente dal pensiero politico, dall’estrazione sociale, dall’età. Oggi si usa un po’ troppo “ä lä lingèrä” il termine “sinergia”. La sinergia non è altro che, prendendo spunto dal significato riportato sul tanto sfruttato web, il “rapporto tra elementi o forze operanti al conseguimento di uno stesso fine”.
I nostri genitori, i nostri nonni, non sapevano nemmeno che questa parola esistesse e, pur essendone ignari, la applicavano in ogni momento della loro vita, del loro lavoro, nella famiglia, nel privato e nel sociale, in modo impeccabile e perfetto.
Ricollegando questo concetto ai preparativi dei carri di Carnevale, alle serate in Oratorio a lavorare nella realizzazione di questi progetti, posso parlare di vera e sincera sinergia. Oggi è questa la definizione ma una volta era “voglia di stare insieme”, collaborazione ed aiuto reciproco.
Quanto era bello per me vedere il mio papà Dègo, il Cécu, Pidrìn, Pino Milani, Pierluigi, Renato, Luigi Pezzali detto “Äl dìgäl nò”, il signor Tondi di Mede, Pier Emilio, Paron, Luciano Colla (nipote del Cécu) fare queste cose? Era sicuramente bellissimo e metteva tanta felicità. Quanto valevano questi gesti per loro, applicati ad una intera comunità? La gioia di noi bambini, la riuscita di una giornata di festa, erano il miglior premio per loro. E il poter stare insieme di nuovo, pensando già a cosa fare per l’anno successivo, non ha mai avuto prezzo.
E da un carnevale all’altro, per il nostro Oratorio, c’era un ciclo che si ripeteva costantemente ogni anno, come le stagioni che si susseguono: dalla fine di settembre a marzo c’erano 5 mesi per la realizzazione del Carnevale, poi la festa del papà, la festa della mamma; poi la Notturna di calcio, al termine della notturna si pensava al Banco di Beneficenza per la Festa Patronale e finito tutto questo, il salone si trasformava, puntualmente, ancora una volta, in un nuovo cantiere per il Carnevale.
Questo “ciclo vitale” di eventi durò molti anni che, non so per voi, ma per me furono gli anni più belli della mia vita.
FINE (di questo argomento ovviamente… non delle storie)

LA FESTA DELLA SANT’INFANZIA
“Lä Féstä d’lä Sänt’Infänsiä” ovvero l’Epifania che “tüti i fést äs portä viä”.
Racconto di una giornata di fine vacanze
“Quando è stata istituita la Giornata dell’Infanzia Missionaria, il 4 dicembre 1950 da Papa Pio XII, fu chiesto a tutti i Paesi di individuare una data da dedicare alla Santa Infanzia, anche se la scelta fu lasciata piuttosto libera. Molti la celebrano il 6 gennaio proprio perché è l’Epifania, la manifestazione di Gesù ai Magi e la festa dei bambini (fonte: Agenzia Fides- Città del Vaticano)
Prendendo la lente d’ingrandimento in mano e focalizzando il nostro sguardo più nel dettaglio, anche nel nostro piccolo, a Pieve, questa festa si celebrava il 6 gennaio (si celebra ancora) ed io ero uno dei tanti testimoni di tale evento; una giornata che richiamava tutti i bambini con le loro famiglie a vivere un momento di preghiera, di comunità e anche di felicità.
Quel giorno, per noi fanciulli, era motivo di gioia ma anche di tristezza perché da come sentivamo dire dai nostri genitori o dai nostri nonni: “Epifäniä, tüti i fést äs portä viä”, voleva dire che nei giorni successivi o addirittura già il giorno dopo, finivano le vacanze natalizie e si ricominciava ad andare all’asilo o a scuola. La stessa cosa valeva per gli adulti, per le nostre mamme e per i nostri papà che, anche loro come noi, riprendevano le loro normali attività lavorative.
Ma tornando a quella giornata, per noi bambini era magica. Prendo una giornata tipo facendo un tuffo nel passato di 43 anni, trovandomi il 6 gennaio 1979, quando avevo 7 anni e mezzo. In quell’anno facevo seconda elementare, erano quasi terminate le vacanze di Natale e, agli sgoccioli da tutto, arrivò quel giorno. Intanto al mattino del 6 gennaio, vengo svegliato dalla mamma che mi dice: “Forsä nànu, a ghè dä mät i Re Mag in täl presépi”. Intanto che me lo diceva, stropicciavo gli occhi e sentivo già l’odore del “cäfè e làt” nel tazzone che fumava ed emanava quel profumo di buono, di casa, di pace e di gioia (quanta nostalgia!). Il bacio sulla fronte della mamma era un toccasana, una sveglia per la mia giornata. Infilavo le mie pantofoline rosse, scendevo dalla mia scala e giù, nel tinello, ad aspettarmi c’era papà con le 3 statuine già schierate sul tavolo, pronte ad andare ad occupare quel posto nel presepe, davanti alla capanna. Erano arrivati i Magi alla grotta del Redentore, tutto era compiuto, lo avevano trovato. Papà mi chiedeva sempre come si chiamavano ed io, quasi come una filastrocca, e raddoppiando tutte le consonanti dicevo: “Gasparre, Baldassarre e Melchiorre che portano i doni al Bambin Gesù”. Papà mi diceva: “Bravo Carlo” e, anche lui, mi dava un bacio sulla fronte indicandomi di aprire l’anta dell’armadio, quella sopra il presepe. Li ci sarebbe stata una sorpresa per me ed io, ignaro di tutto, aprivo con quello stupore genuino di un bambino, trovando la “cälsätä dlä Befana”.
Attenzione però: non era la classica calza che oggi si acquista confezionata con già dentro tutto l’occorrente per far contento un ragazzino ma era una calza vera, presa dal guardaroba, e riempita di tutto il necessario.
Avevo delle vecchie calze di lana della mia cara nonna Tirisìn che mamma non buttò via e anche se erano un po’ da rammendare, le teneva per quelle occasioni. Papà e mamma mi chiedevano sempre: “T’è stai brav o cätìv?” ed io rispondevo: “Brav!”. E potevo prendere la calza che conteneva, un pezzo di cioccolato, delle caramelle mou, un lecca lecca colorato e qualche pezzo di carbone (però era quello dolce).
“Cuntent mé ‘nä Päsquä” (anche se era appena passato Natale) finivo la mia colazione intingendo nel caffè e latte i miei Gran Turchese. Terminata la colazione e dopo aver finito la mia “tirùlä” di biscotti (questo termine lo usava papà per definire una “fila”), riponevo tutte le leccornie che avevo trovato dentro alla calza nei barattoli sopra la credenza, al sicuro, dove li avrei trovati al momento del bisogno, quando mi sarebbe venuto uno “slängròn”. Erano le 10 del mattino e alle 11 ci sarebbe stata la Santa Messa e dovevo fare il chierichetto, sfidando i pizzicotti di Don Sandro (mi mancano anche quelli!). Con mamma e papà, a piedi, mi diressi verso la Chiesa Parrocchiale, papà mi accompagnò fino alla sacrestia. Come me, altri ragazzini che dovevano prendere servizio insieme a me, arrivavano con i loro genitori. Ad accoglierci, ed era lì già da un po’, il nostro amico sacrestano Antonio Mazzone che, nonostante la nostra vivacità (eravamo piuttosto “sfulärmà”) ci teneva sotto la sua ala paterna e ci voleva bene, come se fossimo tutti suoi figli. Ci diceva che dovevamo stare ordinati ed in silenzio e prima di entrare in sacrestia dovevamo aver chiare alcune regole (che erano sempre le solite ma lui ce le ripeteva ogni volta) cioè stare in silenzio, non farci dispetti, non tirarci i capelli, non lanciarci i cuscini. Obbedienti entravamo, prendevamo posto e aspettavamo l’arrivo del nostro Don Sandro che, in quel giorno così solenne, era coadiuvato anche da Don Pino (due care persone che ricordo con tanto piacere e nostalgia). La sacrestia, quando ero piccolo io, non era disposta come ora: il grande mobile centrale non c’era e tutte attorno c’erano delle panche in cui ci sedevamo per attendere l’inizio della Santa Messa. Il nostro arrivo in sacrestia era sempre previsto circa 30 minuti prima della funzione in quanto, rispetto ad oggi che tutto è affidato ad un sistema elettronico, avevamo un compito di suonare le campane, nel senso che dovevamo proprio “tirare” la corda per farle suonare.
Perché mezz’ora prima della Messa? Perché c’era da suonare il primo, il secondo, il terzo cioè, in poche parole, ogni quarto d’ora suonavamo le campane cioè alle 10.30, alle 10.45 e alle 11, prima dell’inizio della celebrazione.
Ma quanto era bello quel momento, quel rito del “sunà i cämpän”? Memorabile e purtroppo, oggi, tanti bambini che fanno i chierichetti, non sanno quello che si sono persi.
So che dovrei andare al sodo, che dovrei parlare di quello che ho messo nel titolo, che dovrei essere un po’ meno prolisso ma è più forte di me e durante il racconto “svicolo” sempre un po’, andando – volutamente – fuori tema.
Tornando sui miei passi e dovendo proseguire con il racconto, mi riporto al 6 gennaio 1979, il giorno dell’Epifania. Mi trovavo in sacrestia con i miei amici, tutti vestiti con la divisa da chierichetti, che chiamavamo la “cotta” (bicolore, bianca e merlettata sopra e rossa sotto). Alle 10.30, Antonio ci dava l’ordine di suonare il “primo” e, noncuranti del freddo, andavamo tutti fuori verso il campanile per tirare quelle corde che avrebbero azionato, a distesa, tutte le campane. Le campane, come oggi, erano cinque e le davamo dei nomi per identificarle. La grande era il “campanone” dal lato del Castello, c’era la quarta dal lato San Giovanni, la mezzana che dava sulla piazzetta dell’Oratorio, la seconda e la prima (queste erano in coppia sullo stesso castello ed la più piccola era detta “campanina”) che si affacciavano sul lungo tetto della parrocchiale. Anche la misura delle corde, in base alla pesantezza della campana era diverso e ovviamente, noi eravamo piccoli, anche la forza nel tirare cresceva in maniera proporzionale alla grandezza della campana da suonare. Era una lotta vera e propria a chi arrivava prima al campanone perché quello era il più ambito. A chi toccavano le due piccole era lo “sfigato” perché, essendo piccole e leggere, un solo chierichetto poteva addirittura suonarle contemporaneamente, contrariamente al campanone dove ce ne volevano due.
Tra noi chierichetti si giocava anche a farci “tirare su” con la corda fino in al primo piano rialzato, con il rischio di picchiare la testa in malo modo. La forza della campana, durante la distesa e il rilascio, era tale da trascinarci su insieme alla corda. Era un divertimento assicurato fino a che le urla del povero Antonio ci facevano capire che era ora di smettere. E in quel giorno le campane suonavano tutte perché era festa solenne (di solito negli altri giorni feriali se ne suonavano solo 4, escludendo quindi il campanone).
Tornando in sacrestia, prima del suono del “secondo” e poi del “terzo”, arrivava intanto Don Sandro accompagnato da Don Pino. I capi dei chierichetti in quel periodo erano Fabio Sturla e Giovanni Griffa. Noi, comuni mortali chierichetti (che eravamo tantissimi) vedevamo questi due ragazzi già grandicelli allora con la loro cotta diversa dalla nostra, bianca a righe rosse e li vedevamo come 2 persone inarrivabili domandandoci quando sarebbe arrivato quel giorno in cui anche noi avremmo potuto indossare quella “divisa” diversa dalla nostra. Ricordo una particolarità nelle nostre “cotte” e delle differenze. Il chierichetto “semplice”, di primo livello, aveva la cotta bianca e rossa, poi c’era un altro step, il secondo livello, in cui la cotta era tutta bianca e con lavorazioni di pizzi e merletti, fino ad arrivare alla terza, la maggiore, che ho descritto prima (bianca a strisce rosse). Probabilmente non c’erano differenze tra il primo tipo e il secondo ma solo perché di quelle bicolore non ce n’erano a sufficienza per vestire tutti i bambini. Siamo arrivati ad essere oltre 20 chierichetti in una volta sola. Giunti al momento della Santa Messa, tutti pronti vicino alla porta per uscire e in quegli anni, l’hanno messa dopo, non c’era la campanella che indicava l’inizio della celebrazione (sicuramente prima di me ci sarà stata ma in quel periodo non ce l’avevamo in dotazione).
Antonio ci teneva a bada perché scalpitavamo come i cavalli ai box prima di una gara di corsa; davanti noi piccoli, in fila per due, dietro Fabio e Giovanni, dietro ancora Don Sandro e Don Pino. I chierichetti a mani giunte e con animo pentito (pentito dopo la solita sgridata paterna del povero Mazzone) ci incamminavamo sull’altare mentre la Schola Cantorum diretta dalla professoressa Gianalba Curti con tutti i coristi in circolo (non c’era ancora la cantoria) solennizzavano con canti di rito.
La messa non fu tanto lunga perché, al pomeriggio ci sarebbe stato il secondo round con la vera e propria festa dei bambini. Dal “segno della croce” iniziale a quello finale, la nostra attenzione non era tanto focalizzata sull’essenza e sul significato della celebrazione ma eravamo molto più intenti a capire quali cuscini lanciare e a chi lanciarli (ròb dä fiö).
I cuscini ci dovevano permettere di non far venire fredde le ginocchia (ecco il perché della loro presenza) ma noi li usavamo in modo alternativo.
Al termine della Santa Messa, tutti composti verso la sacrestia, insieme dicevamo il “prosit” finale che era di buon augurio ed anche un ringraziamento a Gesù per tutto quello che avevamo fatto e provato durante la Santa Messa. E Don Sandro faceva sempre delle prediche piuttosto toccanti, tutte rigorosamente “a braccio”, senza mai leggere degli appunti, dei foglietti. Erano prediche appassionate, le sentiva con il cuore e con la sua parola trasmetteva veramente con parole semplicissime tutti gli insegnamenti sulla nostra Fede.
Purtroppo io, nel 1979, oggi lo posso dire, non ero così attento perché distratto, perché troppo piccolo, immaturo e preso – come ogni bambino di quell’età – da interessi che davano spazio ad argomenti diversi. Don Sandro è stato il mio parroco, con lui sono cresciuto e sono maturato tantissimo e anche Don Pino era persona assolutamente buona, sensibile e generosa. Tutte queste cose però, lo dico sinceramente, le ho capite più tardi. Ma ero sempre presente alle celebrazioni, non mancavo mai, come un operaio che va al lavoro timbrando il cartellino, e tutto sommato ero un bambino bravo ed educato.
Il 6 gennaio 1979 stava per terminare il suo primo tempo e tutti noi, felici ed impazienti, pensavamo a quello che sarebbe successo al pomeriggio perché la festa della Sant’Infanzia ci attendeva con tutta la sua magia unendo il sacro ed il profano.
Proseguo il racconto di questa giornata di oltre 40 anni fa trasformando tutta quella che è stata la parte “spirituale” per addentrarmi nello specifico in un momento della giornata più “profano”, sempre nel rispetto delle cose, considerando che in quel lontano 1979 avevo 7 anni e mezzo (s’erä pròpi un fiulìn.
Terminata la Santa Messa alle ore 12, noi bambini, scortati chi da genitori, chi da nonni o chi da fratelli più grandi, ci dirigevamo verso le nostre abitazioni dove ci attendeva un pasto sicuro come l’oro e caldo come un abbraccio materno.
Mentre papà mi veniva a prendere in sacrestia, mamma si dirigeva verso casa a prepararci il pranzo. Dalla sacrestia, recuperavo il mio “pälturìn” marrone, indossavo il cappellino di lana con paraorecchie e salutando tutti con un “Ciao, ci vediamo oggi pomeriggio” tornavo a casa saltellante e felice con papà. La strada del ritorno a casa era ghiacciata e mi piaceva fare la schiärölä con il rischio di cadere e di farmi del male. Ricordo con particolare nostalgia un qualcosa che non ho più visto: i cändlòt äd giàsä che calavano dai tetti delle case, così lunghi che quasi toccavano per terra. Era pericolo passarci sotto perché se se ne staccava uno poteva bucarmi la testa. Papà mi diceva di stare attento e di non avvicinarmi troppo ed io, non sempre lo ascoltavo. Arrivato a casa, il giorno dell’epifania si mangiavano i cannelloni ripieni di carne e come li faceva mamma erano una bontà. E per dolce una bella fetta di torta “säbiùsä”, soffice e delicata come la faceva lei (ne sento ancora quell’intenso profumo).
Al pomeriggio noi bambini avevamo un altro bellissimo appuntamento, prima in chiesa parrocchiale dove si svolgeva la celebrazione della Santa Messa e a seguire la Festa dei Bambini con la distribuzione a tutti dei mandarini benedetti. La processione con i magi alla grotta del Bambin Gesù con tutti noi bambini in silenzio, in una composta processione in cui si sentivano soltanto i rumori delle nostre intenzioni e delle nostre preghiere.
Al termine della funzione religiosa arrivava il momento più atteso per noi piccoli: la festa nel salone del cinema. Oggi la nostra sala polifunzionale è di concezione moderna, tecnologicamente completa di tutto ma nel 1979 era proprio, ed in maniera molto evidente, un cinema: un palco vero e proprio, un telo che scendeva per la proiezione dei film, una sala che veniva utilizzata sia per vedere gli spettacoli che da sala da ballo e una galleria che saliva fino in cima dove c’era quel foro sul muro che dava sulla stanza della cinepresa.
C’era la biglietteria, c’era il bar, c’era tutto e noi bambini venivamo accolti all’ingresso dagli adulti che ci accompagnavano a sedere per assistere allo spettacolo: la proiezione di un film per bambini, un cartone animato (non c’erano ancora i film d’animazione 3D come oggi). Le luci in sala venivano spente e i nostri bisbigli e i nostri schiamazzi si ammutolivano all’instante, si zittivano di colpo e facevano posto al silenzio e all’attenzione verso quello che da li a poco sarebbe stato proiettato. Il cartone che quel giorno ci fecero vedere era un immortale capolavoro di Walt Disney: Bambi, una proiezione per tutti, grandi e piccini e quanta attenzione in sala, non volava una mosca, anzi, alcune scene erano segnate anche da qualche lacrima sui nostri volti. Al termine della giornata, una felice conclusione con un dono per tutti noi piccoli: caramelle, dolci e la mitica “calza della Befana” piena di prelibatezze. Nei nostri occhi si leggeva quell’entusiasmo tipico dei bambini, una gioia piena ed uno stupore genuino e sincero.
Alla fine ricevevamo quel poco che per noi era tantissimo, quel piccolo dolce omaggio ci rendeva felici e ci portava gioia sia al palato che al cuore. Le nostre mamme e i nostri papà ci aspettavano in disparte perché la giornata era tutta per noi, un momento tutto dedicato a noi bambini ed ai nostri divertimenti.
Quel giorno non volevamo finisse mai perché era bello stare in quel salone, era fantastico stare tutti insieme, era fantastico giocare in un ambiente caldo ed accogliente mentre fuori, al fretto e al gelo, la giornata volgeva al termine, chiudendo i battenti e portandosi via tutte le feste trascorse. Del resto, l’Epifania, “tüti i fést äs portä viä”
E quel giorno era un sabato, ci andò ancora bene perché il giorno dopo non dovevamo subito correre a scuola ma con la domenica in mezzo avremmo potuto riposarci dopo una giornata come quella. Come diceva mamma Albertina scherzando: “Dop un dì äd féstä äg và un dì äd ripòs”.
La prendevo alla lettera e la ascoltavo molto volentieri perché, intanto, i compiti per le vacanze li avevo già svolti tutti e non mi restava che seguire le sue parole cioè riposarmi, non fare nulla, starmene seduto sul mio divano, sotto la mia coperta calda, vicino al termosifone che andava all’impazzata perché fuori era piuttosto freddo. E in quell’anno c’era ancora la mia anziana Switty, la mia cagnolina di 16 anni che, infreddolita e dolorante per l’età avanzata, veniva a coricarsi accanto a me, “sutä l’älä”. L’accarezzavo sulla testa e con il suo musino bianchissimo da vecchietta, tutta tremante dalla contentezza, mi dava qualche “bel bärlicòn” sulle mani. E mamma e papà ci osservavano sereni e felici, confortati da quel piacevole momento che stavano gustando. Papà leggeva il giornale con la sua inseparabile sigaretta in bocca, sorseggiando un caffè appena fatto e mamma, con il suo inseparabile “scusà” era sempre intenta a fare qualcosa.
La stanza era pervasa da una bellissima atmosfera, dal calore della famiglia. Switty si era addormentata mentre io, tenendo tra le mani la mia “calza della Befana” ormai vuota del giorno prima, assaporavo ancora quel momento di festa appena trascorso.
A distanza di oltre 40 anni da quel giorno d’Epifania del 1979, le sale del vecchio “cine” si sono riaperte a varie iniziative ed è emozionante per noi che siamo stati bambini a quell’epoca, rivedere le immagini proiettate su quel telo bianco che oggi accompagnano le nuove generazioni, facendoci tornare indietro nel tempo, facendoci tornare bambini, anche solo per un giorno.
FINE

RICORDI: L'Asilo
I ricordi di quegli anni sono piuttosto confusi e cercare di narrare un episodio ben preciso in tutta la sua interezza risulta piuttosto difficile perché i particolari potrebbero sfuggirmi e lascerebbero il posto ad una confusa approssimazione. Gli anni dell’Asilo Infantile sono lontani e oggi, nonostante i miei 50 anni suonati, ricordo lo stesso qualche breve episodio che anche la maggior parte dei miei coetanei ricorderà. Sono quegli episodi che non ci sono stati raccontati da qualcuno ma si tratta delle prime storie che ci hanno visti protagonisti in prima persona. Era il settembre del 1974 e alla veneranda età di 3 anni, frequentavo pochissimo l’asilo, un po’ perché facevo sempre i capricci, un po’ perché mi facevo venire “mal di pancia”, un po’ perché mamma, in quel periodo, era a casa dal lavoro perché doveva guardare me e la nonna Teresa (nonä Tirisìn) che, già anziana e piuttosto malata, viveva in casa con noi. Non so perché ma, qualche sporadica volta, all’asilo mi mandavano. Papà lavorava, mamma forse non ce la faceva più perché ero piuttosto vivace (per non usare termini più coloriti ed incisivi). Mi trovavo con gli altri bambini, sia quelli della mia età che quelli più vecchi. Ci dividevano per categorie, c’erano i “piccoli” i “mezzani” e i “grandi” quindi avevamo 3, 4, 5 anni. I piccolini giocavano al mattino, pranzavano e al pomeriggio venivano “obbligati” a fare il sonnellino (sugnìn) che, immancabilmente, io non facevo. Ricordo, come un flash molto rapido ma chiaro, delle brandine in questa stanza buia dove i piccolini (me compreso) venivano portati a coricarsi fino alle 15.30, orario in cui ci avrebbero svegliati per fare la merenda prima che i nostri genitori ci venissero a prendere per andare a casa. Ricordo proprio delle brandine a misura di bambino, tutte uguali, molto basse con il cuscino e la copertina a quadretti di lana.
I ricordi a quell’età sono piuttosto brevi, come lampi di luce: rammento che non volevo mai dormire, che avevo l’armadietto con l’adesivo del “delfino azzurro”, che mi davano la fetta di mela e la sputavo, che lanciavo la sabbia con la paletta addosso agli altri bambini, che non stavo composto a tavola, che volevo giocare mentre gli altri bambini dormivano, insomma: än nä favä dä vènd. Alla fine rimanevo sempre un bambino piuttosto timido ma nello stesso tempo vivace e non stavo mai fermo (näncä se äm piäntàvän un ciòd in téstä). Nella mia breve ma intensa carriera all’asilo (era più le volte che ero a casa che le volte che andavo, come ho già detto prima) mi feci conoscere molto bene. “E’ un bambino buono ma non sta fermo” diceva Suor Renata a mamma quando mi veniva a prendere e Suor Bertilla mi riprendeva sempre, soprattutto quando andavamo in chiesa alla Messa, dove mi comportavo allo stesso modo come se fossi ancora all’asilo. Nel primo banco i piccoli, i mezzani nel secondo e i grandi nel terzo, tutti più o meno composti e più o meno in silenzio (quasi nessuno!) con le mani giunte dicevamo le preghierine in quel modo cantilenante di una volta (ce le insegnavano così, quasi come a recitare una favola con il suo “c’era una volta”). La mia irrequietezza insieme a quella di altri bambini non tardava ad arrivare ma non tardava ad arrivare nemmeno la mano di Suor Bertilla che ci dava i “tironi” ai capelli. E non erano soltanto dei finti gesti intimidatori ma delle vere e proprie “prese a piene mani” sui nostri capelli fin quasi a strapparceli e a farci male. Ancora oggi, a distanza di così tanti anni, sento la mano di Suor Bertilla che mi tira i capelli.
Ma era fatto tutto a fin di bene, per farci stare buoni. Ricordo le corse nel cortile dell’asilo, a giocare con la sabbia, con la paletta ed il secchiello a fare castelli, bagnando la sabbia per maneggiarla meglio e per non far sgretolare le nostre bellissime opere d’arte. Ricordo anche le manate di sabbia che volavano e quante “insabbiature” mi presi, in bocca, nel naso, negli occhi. Ricordo un episodio particolarmente ridicolo (non proprio in modo dettagliato ma lo ricordo), al secondo anno di asilo: stavo costruendo il mio castello e venuta l’ora di pranzo, dovetti lasciare il lavoro mezzo fatto e mezzo ancora da fare. Dato che eravamo in tanti a giocare con la sabbia e, secondo me, era poca e dovevamo tenerla “dä cünt”, mi riempii le tasche del grembiulino bianco perché avevo paura gli altri bambini me la portassero via. Quella sabbia, ricordo, era già pronta, bagnata al punto giusto per essere lavorata e plasmata con le mie manine. E che mani! E che grembiulino! E che tasche! E che schifo! S’erä vònc mé Bärlìc!
“Bambini, a lavarsi le mani!” ci dicevano le Suore e la Märiä däl Walter (Costa) controllava che rimanessimo tutti in fila prima di entrare in refettorio e metterci a tavola. Io ero l’unico con le tasche del grembiulino piene di sabbia e il lavaggio di faccia e mani produsse un effetto piuttosto devastante in quanto, nell’appoggiarmi al lavandino, la sabbia fuoriuscì e andò ad “intasare” completamente il vascone, finendo nello scarico che si bloccò completamente.
Non ricordo bene cosa successe dopo ma la mamma sicuramente mi punì e mi ricordò per un periodo piuttosto lungo quello che avevo fatto che, evidentemente, non era proprio “cosa buona e giusta”.
Ricordo la minestrina con il formaggino “Mio” dentro (ad ogni stagione), le polpette di carne (i farciö), la frutta fresca di stagione e magari una buona fettina di torta fatta dalle cuoche … insomma … quanto si stava bene all’asilo ma soprattutto quanto si stava bene a quell’età, indipendentemente dal posto in cui ci trovavamo.
Suor Bertilla e Suor Renata erano comunque due donne straordinarie, la loro pazienza era “epocale” ma, ricordo con particolare piacere quell’auto che ogni mattina arrivava da San Giorgio e ci faceva appoggiare i nostri nasini curiosi sui vetri delle finestre, credo fosse una Fiat 124 (non so perché ricordo quest’auto ma potrebbe far parte di quei flash di memoria che rimangono in testa da quando si è piccoli) dalla quale scendevano, accompagnate dal loro papà, le sorelle Rolandi. Per noi bambini erano la signorina Margherita e la signorina Angela. Le ricordo con il camice bianco ed erano le nostre maestre. Anche loro, come le suore, avevano una proverbiale pazienza nel sopportarci tutti ed a soddisfare ogni nostra minima richiesta. Erano premurose, sensibili e all’epoca erano molto giovani (anche se per noi bambini erano due “vecchiette”).
Erano due persone molto diverse, ricordo la signorina Angela molto buona, mentre la signorina Margherita, seppur retta e giusta, un po’ più severa.
Ma entrambe avevano uno sguardo dolcissimo e il ruolo che ricoprivano era proprio quello più adatto a loro.
Che belli quei tempi in cui imparavamo dai nostri errori, dagli ammonimenti, dalle sgridate severe ma giuste che ci hanno fatto crescere, nonostante metodi più rigidi, senza particolari complessi o blocchi mentali.
Quei bambini oggi hanno 50 anni e di questa squadra faccio parte anch’io che, insieme a tutti i miei coetanei, con tanta malinconia e molto rammarico, ripenso a quanto “si stava bene con niente” e non è per fare della retorica spicciola e scontata ma, era veramente così.
FINE

RICORDI: il rumore della vita!
Sono sostanzialmente pigro nelle mie abitudini ma qualche volta mi capita di fare una passeggiata a piedi o in bicicletta per le vie di Pieve. Percorro praticamente tutto il paese (abitando a Cairo è inevitabile non farlo) e mi reco nei luoghi più centrali alla ricerca di un po’ di sana “pievesità”. Eccetto il sabato in cui il movimento di gente è concentrato in piazza per via del mercato settimanale, gli altri giorni – ahimè - Pieve è deserta e desolatamente vuota. Questo mio transitare da una strada all’altra, da un punto all’altro di Pieve mi fa, oltre che al gesto fisico del camminare, muovere la mente, la fantasia ma soprattutto i ricordi che riaffiorano come sogni ad occhi aperti, come immagini piene di vita e di vissuto. Sono solito raccontare le cose che ho vissuto e nei miei modesti 50 anni mi sovviene una domanda: “Ma quanta vita c’era a Pieve, soltanto 30 anni fa? Per non parlare di quello che c’era ancora prima?”
A Pieve c’era “rumore di vita”, nel vero senso della parola. Mi manca molto tutto quello che ho vissuto quando ero piccolo non tanto perché ero anagraficamente più giovane ma perché si stava veramente meglio rispetto ad oggi. Qui arriva la solita retorica: “si stava meglio quando si stava peggio” oppure “con niente eravamo più felici di oggi” oppure “non ci sono più le mezze stagioni” (che non c’entra nulla con questo discorso ma è la classica frase retorica che è sempre di moda per “fare” retorica).
Retorica a parte (chiedo scusa per le “volute” ripetizioni di parole) rimane l’unica verità sempre credibile e chi ha vissuto quegli anni può capire fino in fondo tutto quello che sto provando in questo momento.
Pieve era “rumorosa” grazie a tutto quello che c’era e che ora non c’è più. Si pensi a quante attività c’erano negli anni ’70, ’80 e non solo lungo le vie principali ma anche in quelle secondarie. Dalla Mädunìnä al Puntìn, da nord a sud, da est a ovest (e pure nelle frazioni), c’era ogni sorta di negozio (butègä), bar e servizi di ogni genere che si ramificavano in ogni angolo del paese. In ogni strada di Pieve c’era qualcosa per cui valeva la pena andarci. C’era qualsiasi risorsa per vivere in modo normale e dignitoso, senza dover uscire o recarci chissà dove (cose di utilità comune intendo). Il lavoro non mancava, il benessere non era consumistico ma soltanto mirato a far vivere la famiglia con serenità, lo stile di vita era puro, sobrio, al netto di ogni comodità o tecnologia. Il lavoro era “in casa” e chi ha la mia età ricorderà lo stuolo di biciclette ad ogni ora del giorno che portavano i nostri genitori o i nostri nonni al lavoro. C’erano tre fabbriche tessili (non una ma tre) che davano lavoro ad oltre 350 persone che voleva dire che almeno 350 famiglie stavano bene. I tre maglifici erano una fonte di reddito, si lavorava in fabbrica e anche in casa. Ricordo tante donne che portavano il lavoro a domicilio e con i “mächinòn” facevano gli orli, le cuciture, i rammendi, i rappezzi, tante ore al giorno. Il costo della vita non era alto come oggi e, in ogni famiglia, era sufficiente che lavorasse solo una persona per garantire quel minimo benessere (non lusso) che bastava per vivere.
Nel mio caso lavorava solo papà, fino al 1976 mamma era a casa con me e con la nonna Teresa (già malata). Successivamente continuò a lavorare solo lui e quando nel 1982 andò in pensione, mamma lavorò per alcuni anni come domestica presso una famiglia pievese.
C’era lavoro a Km Zero, senza spostarsi troppo e pur essendoci la pendolarità, non era così accentuata come oggi. Tra la Cittadella, la Casa di Riposo gestita dalle Suore Guanelliane, tre sanissime imprese edili, un calzaturificio famoso in tutta la zona, una rinomata tipografia all’avanguardia, Pieve era un paese di spicco, un fiore all’occhiello in una zona prettamente agricola come la bassa Lomellina.
Che bei ricordi, la MIR dava lavoro a circa 200 persone, la Filba circa 100 e la Peritex, la più piccola delle tre, circa una cinquantina. Erano dislocate nei tre punti del paese, ad una certa distanza tra loro: la MIR (della famiglia Barani) era dove ora c’è il Gulliver, la Filba (fondata da Filippo Basile detto “äl siciliän”, perché lo era) in fondo a Via Matteotti, la Peritex dietro all’Officina VAMA. Ricordo molto chiaramente la sirena della Filba che indicava il cambio del turno e che, essendo in centro paese, riecheggiava per tutta Pieve per circa mezzo minuto. Mancò molto quando smise di suonare perché il lavoro non c’era più.
Come manca ancora oggi tutto questo, il “vociare” degli uomini e delle donne quando uscivano dalle fabbriche per andare a casa, il rumore delle biciclette che venivano prese dagli stalli sotto quei lunghi porticati fatti apposta per loro, lo sfrigolìo dei pedali scricchiolanti, delle catene arrugginite, il suono dei campanelli, i graffianti rumori dei freni; tutto questo di mattina, di pomeriggio, di sera. Dai tre punti lavorativi, questa massa di gente che smontava il turno ed altrettanta che lo montava.
Con i cambi generazionali, quasi come una profezia, in paese si diceva che queste realtà non avrebbero avuto più un lungo futuro. E si avverò tutto, arrivarono gli anni ’90 e le cose iniziarono a cambiare per Pieve. La crisi economica, sociale, umana (chiamatela come volete) favorì un veloce quanto inesorabile destino che da lì a poco non avrebbe più permesso il proseguimento di quelle attività. La Peritex, unica ancora in piedi, fu devastata da quella tremenda alluvione del ’94 che causò danni e problemi immani che pochi, a memoria d’uomo ricordavano.
La fiorente industria tessile lasciò il posto ad una ormai quasi decimata attività agricola e Pieve rimase, in gran parte “orfana” di lavoro. Gli uomini, chi prima chi dopo, trovarono altri impieghi fuori paese ma molte donne che lavoravano in fabbrica, furono costrette a rimanere a casa, soprattutto coloro le quali non avevano la patente o che erano prossime alla fine della loro attività lavorativa.
Quegli anni ’70, ’80, così pieni di pulsante dinamismo, lasciavano posto a quei timidi anni ’90 nei quali ancora poche risorse, si spesero definitivamente ad un profondo declino iniziato proprio nel terzo millennio, così tanto atteso da tutti. Aveva ragione papà quando, negli ultimi anni, diceva: “Lä Pièv ä l’è gnü quasi una cäŝìnä”. Effettivamente, dagli anni ’70 ad oggi, circa 1000 persone in meno popolano Pieve.
Ma voglio essere ottimista perché intravedo una timida ripresa, dopo più di un decennio di sconfortante resa, proprio in questi ultimi anni un po’ “pandemici”. Sarà lenta ma inesorabile quanto quel precedente declino? Lo spererei proprio ma, intanto, quel “rumore di vita” di un tempo io non lo sento più.

RICORDI: CHE BÉL ÄL NÄDÁL
Faccio un salto nel passato e con la mente e con la mia immaginazione, ricordo questo periodo quando ero un bambino.
Il Natale era la festa più bella dell’anno, il momento in cui il cuore si scioglieva alle buone azioni, ai sinceri propositi, il periodo dell’anno in cui le persone erano più buone e la pace regnava nel cuore di ognuno.
E’ certo che questi presupposti dovrebbero valere per tutto l’anno, non solo a Natale ma l’atmosfera che regnava in quel periodo metteva le persone nelle condizioni di poter essere così e la gioia, la serenità, l’entusiasmo del momento, pervadeva ogni cosa.
Per noi bambini, terminata la scuola, iniziava un momento particolarmente intenso, meraviglioso che precedeva l’evento culminante del Natale: l’attesa. Questo momento era vissuto con entusiasmo, gioia, agitazione, trepidazione e profonda emozione. Dal mese di dicembre di ogni anno, i negozi di Pieve erano tutti aperti, anche la domenica e le luminarie accese per tutta la Via Roma, dall’Arco al Puntìn. L’atmosfera che si respirava era veramente magica e a noi piccoli piaceva particolarmente tutto questo.
La cornice prenatalizia era quasi sempre accompagnata dalla caduta della neve che, “col bianco suo candor” copriva ogni cosa quasi a volerla preservare proprio per il giorno di Natale.
Dal 16 del mese, per 9 giorni, fino alla Vigilia, c’era la Novena di Natale e noi chierichetti, tutti attorno all’altare maggiore con i libretti in mano cercavamo di seguire il canto del “Regem venturum Dominum, venite adoremus” (Venite, adoriamo il Re Signore che sta per venire). Il nostro latino non era perfetto, cantavamo a nostro modo, dicendo anche diversi strafalcioni che più che latino assomigliavano ad una lingua non ben identificata. Ricordo le piacevoli “strimpellate” del caro Don Sandro all’organo quando aveva a disposizione i carissimi Don Pino e Don Vincenzo. Quest’ultimo, direttamente dalla Sacra Famiglia, da Gallia e da Galliavola, luoghi in cui aveva già svolto la Novena, non esitava a “reggerne” una quarta con tanto entusiasmo e “trasporto”.
Noi chierichetti avevamo servito messa al pomeriggio alle ore 18 e ci toccava anche la Novena, non solo il rito stesso ma una ulteriore “messa con insieme la Novena” (ricordo quanto il nostro parroco fosse generoso nel celebrare messe per ogni occasione senza mai risparmiarsi).
La nostra chiesa parrocchiale era tutta devotamente concentrata nella preparazione di questi 9 giorni che avrebbero culminato il periodo dell’Avvento con la nascita del Bambino Gesù.
E il presepe in chiesa parrocchiale era stupendo, veri artigiani si prodigavano alla sua realizzazione e quando veniva acceso per noi bambini era un momento magico perché, con grande stupore, osservavamo il cambio del giorno, della notte, del passaggio della stella cometa sulla città di Betlemme, sapientemente ricostruita, per poi ritornare di nuovo giorno. C’erano le stelle che si accendevano e si spegnevano, l’acqua che scorreva. Il tutto reso molto realistico dalla maestria della realizzazione e dall’ubicazione della struttura che era (come oggi) la grotta della Madonna di Lourdes. I giochi di luce fatti con fari e lampadine, lo scorrere dell’acqua per il quale venivano utilizzati dei motorini da lavatrice per far scorrere e girare sempre la stessa acqua, dando la realistica impressione di un corso d’acqua sempre in movimento. Un’equipe di artigiani che comprendeva falegnami, elettricisti, pittori, decoratori e semplici manovali, tutti uniti nel comune intento di realizzare qualcosa di bello per i bambini, per la comunità.
Tornando a noi bambini, ecco l’arrivo della notte di Natale. Da piccolo alla messa di mezzanotte non ci andavo, non perché non ne avessi voglia ma solo perché non arrivavo sveglio a quell’ora. Andavo a dormire di solito intorno alle 22.30. “Mamma, ho sonno” dicevo e, dando un bacio a papà che rimaneva ancora sveglio un po’, mamma mi accompagnava di sopra, nella mia cameretta, mi rimboccava le coperte e mi dava il bacio della buona notte dicendomi: “Nànu, dròmä bèn chè mägari stänot äg rivä äl bämbìn”. Mamma e papà non mi parlavano mai di Babbo Natale, era scontato che esistesse perché noi bambini lo aspettavamo ma lo chiamava: “äl bämbìn” come se fosse Gesù Bambino a portare i doni ai fanciulli che erano stati buoni.
Tra un po’ di agitazione e di trepidante attesa, non mi addormentavo subito, anche se ero stanco ci mettevo un po’, provando ad aspettare qualcuno che mi portasse questo “bämbìn”. Il trucco era semplice ed era uno solo: se volevo i doni dovevo dormire quindi mi mettevo il cuore in pace e dopo un po’ mi andava “äl cör ö rivä” e il risultato sarebbe avvenuto. Nel mio profondo dormiveglia (non era proprio un sonno profondo) sentivo dei rumori, forse intravedevo qualche ombra e un po’ di andiriviene su e giù per le scale fino alla mia cameretta. Forse, quello che desideravo, stava avvenendo e il “bämbìn” si stava materializzando accanto al mio lettino. Quell’anno avevo chiesto la fattoria con tutti gli animali e al mattino trovai proprio quello che volevo. Mamma e papà vennero a svegliarmi e mi diedero un enorme bacio (quanto mi manca questo bacio a Natale, ancora adesso) che ricambiai con un grosso abbraccio, stringendomeli addosso come una calda coperta suo cuore.
Era il giorno di Natale e cosa c’era di più bello che avere tutto quello che desideravo? Non mi riferivo al mio desiderio che era stato realizzato (anche se ero contento del mio giocattolo) ma alla presenza di mamma e papà. Da poco era mancata la nonna, la mia “nonä Tirisìn” che mi coccolava e mi teneva “sutä l’àlä” quando faceva freddo. Era una delle mie persone più care che mancavano all’appello e ringraziando Gesù nelle mie preghiere, gli dicevo di avere un occhio di riguardo anche per lei.
Questo era il mio Natale da bambino: fantastico, magico, semplicissimo ma stupendo, privo di effetti speciali ma pieno di dolcissime emozioni.
Non voglio fare banali paragoni con età differenti. Oggi ho una famiglia, una moglie ed un figlio di quasi 20 anni che sta crescendo troppo in fretta. Anche se non mi manca nulla e sono contento di tutto quello che ho, mi mancano terribilmente quei momenti e pagherei chissà cosa per tornare indietro, riabbracciare mamma e papà ed aspettare ancora quel “bämbìn”.

RICORDI: ÄL PRIM DI DÄ SCÖLÄ
(il primo giorno di scuola non si scorda mai)
Era il mese di settembre del 1977 e, dopo un periodo piuttosto intenso e sereno dedicato ai pensieri ed alle varie attività di un fanciullo (giocare e divertirsi), mi ritrovai con un grembiulino nero stirato alla perfezione, un collettino bianco come la neve ed un bellissimo fiocco blu. Il profumo di appretto e di pulito che avevo addosso era tale che lo si sentiva in ogni stanza della casa e quando mi muovevo, non mi abbandonava. Il colletto era bianchissimo, stirato, teso ed inamidato. L’attenzione e la cura dei dettagli che ci metteva la mia mamma era maniacale. Il fiocchetto blu era messo in bella mostra, davanti al collettino bianco e lasciava trapelare una perfezione assoluta. Sotto il grembiulino nero avevo una magliettina di cotone, a righe, con le maniche lunghe, di quelle che si potevano arrotolare all’occorrenza. I pantaloni erano di color marrone scuro ed avevano la famosa quanto indispensabile “rigä in més”, stirati in modo così perfetto che sembravano scolpiti, non indossati. Le scarpe erano nere e lucide anzi, lucidissime, anzi, luccicanti, talmente lucidate che sembravano delle scarpe a specchio.
L’aspetto che avevo era quello di un bambino normale, tutto pronto (pronto si fa per dire…) ad affrontare un qualcosa di cui non mi rendevo assolutamente conto: il primo giorno di scuola.
L’unica pecca che avevo erano i capelli, molti di più di quelli che mi ritrovo adesso ma costantemente arruffati e ribelli. La pettinatura era la classica pettinata dall’alto in basso con la “frangia” sulla fronte e un ciuffo costantemente ribelle sulla sinistra. Mia mamma diceva: “Tä ghé lä frängiä cul ciüf mä t’è bél mé’l su”. In effetti la mamma aveva ragione, ero veramente un bel bambino e, non per vantarmi, quando mi guardo in foto, ancora adesso che ho 50 anni, posso confermarlo.
Quel giorno ero piuttosto agitato, iniziavo un periodo totalmente nuovo della mia vita, un momento che non sarebbe durato poco ma mi avrebbe accompagnato per i restanti 14 anni della mia vita: la scuola.
Accompagnato dalla mamma e dalla zia Maria che era già li vicino alla scuola ad aspettarci (papà era al lavoro e non riuscì a stare a casa), saltellando come un grillo, con la mia piccola cartella in spalla e rigorosamente “ä pë” (camminare faceva bene e anche oggi farebbe bene…) mi avvicinavo trepidante ed emozionato a quel grande edificio che sarebbe stato la mia seconda casa per i prossimi cinque anni. Mamma mi rimproverava perché non stavo fermo e rischiavo di rovinare tutto il suo lavoro sul mio abbigliamento ma ero troppo agitato per starla a sentire.
Dalla Via Benzo alla via Gianzana, poi il tratto di Via Garibaldi fino a salire per l’ultimo pezzo di strada, mi trovai a destinazione.
Insieme a me, chi in bicicletta e chi a piedi, arrivavano tutti gli altri bambini che in quegli anni erano veramente tanti. Le sezioni erano 10, 2 per classe quindi c’erano la “A” e la “B” per ogni classe. Non ricordo le cifre perché a quel tempo non ero così interessato come lo sono oggi ma, considerando all’incirca 18/20 bambini per classe, moltiplicando per 10, saremo stati tra le 180 e le 200 unità (numeri straordinari che oggi fatichiamo a credere).
Il plesso scolastico era pronto per accoglierci e, alla porta della scuola, c’erano due persone fantastiche, prossime alla pensione ma che ho fatto però in tempo a conoscere: äl Mìlio e lä Lice, i bidelli. Oggi si chiamerebbero “collaboratori scolastici” ma per noi, più che bidelli erano due veri e propri nonni, attenti, premurosi nei nostri confronti.
Molti di noi bambini ci conoscevamo già dall’asilo ma certe facce erano proprio nuove. Sulla soglia d’ingresso, oltre ai bidelli e a tutti gli altri bambini di seconda, terza, quarta e i grandi dell’ultimo anno, c’eravamo noi, i “primini”, i piccoli, accolti dal nostro insegnante, il maestro Bruno Torti che ci accompagnò in classe. Eravamo al pian terreno, leggermente rialzato da quella breve rampa di scale che portava al corridoio delle aule. La mia classe era subito la prima e il nostro stupore, quando siamo entrati, è stato quello di vedere quanto fosse accogliente, pulita, profumata e curata nei minimi particolari: i banchi erano quelli di ferro con il piano color verde metallizzato chiaro, ancora con la sede per il calamaio (già in disuso), accoppiati uno vicino all’altro su varie file. La cattedra, dello stesso modello dei banchi ma più grande, le cartine geografiche dell’Italia e dell’Europa, sia quella fisica che quella politica e l’enorme “lavagnone” di legno sorretto da un piedistallo (oggi i bambini non si possono più mandare dietro la lavagna perché è attaccata la muro ma prima dietro la lavagna si andava… eccome… e con tanto di punizione). Le finestre non si vedevano perché c’erano, come tendaggio, quelle enormi pezze di stoffa che sembravano sacchi di juta che potevano essere arrotolate fino in cima (solo così si poteva vedere fuori). Fuori dalle aule i porta ombrelli gli appendini per gli indumenti che si lasciavano sempre fuori.
Dai pavimenti dei corridoi, come da quello nella grande entrata, “veniva su” un odore strano, non proprio un profumo gradevolissimo ma che permetteva di lavare e disinfettare bene la moltitudine di calpestii quotidiani. All’inizio, dato che ero piccolo, non capivo che cosa usassero per lavare i pavimenti ma il Milio e la Lice usavano segatura mista ad una miscela di petrolio che faceva una sorta di “pastone miracoloso” che lavava via tutto, impronte, sporcizia facendo rimanere le superfici belle lucide. Quella roba era chiamata “lä bülä e, soprattutto nelle giornate piovose, noi bambini eravamo invitati a calpestarla perché l’acqua sotto la suola delle scarpe non la spandessimo ovunque. Infatti ricordo ancora la frase: “Muntè in simä äd lä bülä se nò spurchè däpärtüt”.
Tornando al racconto del primo giorno di scuola, ricordo bene l’appello del maestro Torti che, ad ogni cognome che pronunciava, dovevamo alzarci e dire: “Presente!”. Poi passammo la mattina ascoltando il nostro insegnante che ci parlò di cosa avremmo fatto nei prossimi mesi, illustrandoci quello che saremmo andati ad imparare. Non è come adesso che molti bambini sono piuttosto “avanti”; quasi nessuno di noi sapeva ne leggere ne scrivere. All’asilo ci facevano disegnare, colorare, fare le aste i quadretti, i pallini, i puntini e il nostro primo anno di elementari sarebbe servito per imparare proprio i primi rudimenti che ci avrebbero permesso di aprire la nostra mente verso la conoscenza di un mondo bellissimo, privo di quelle comodità che abbiamo oggi ma, ugualmente stupendo.
Il primo giorno di scuola il maestro ci spiegò le prime 5 lettere dell’alfabeto, scrivendocele alla lavagna: erano le vocali e quelli furono i primi suoni che imparammo a pronunciare e a scrivere.
Eravamo piccoli, distratti da ogni minima cosa attorno a noi ma la capacità che aveva il maestro Bruno di tenerci costantemente attenti e disciplinati era tale da rendere quelle lezioni un’atmosfera magica, surreale.
Eravamo attenti ed interessati a tutto, in quell’aula non si sentiva volare una mosca, solo la voce del maestro Torti e, ogni tanto, i colpi della sua bacchetta, non solo sulla cattedra.
Anche grazie a quelle punizioni, severe ma giuste, siamo diventati grandi, maturi e responsabili.

RICORDI: LE MACCHININE
ovvero “LÄ VIDRINÄ DI GIÜGÁTUL”
Ritorno sempre con la mente a quando, bambino, osservavo curioso e con animo sincero tutto quello che avevo intorno, tutto ciò che mi circondava che fosse oggetto, persona, situazione e facevo le mie considerazioni tenendo conto dell’età, dell’esuberanza di bambino, del grado di attenzione e della mia capacità di discernimento (considerando che avevo all’incirca 6, 7 anni e quindi non si poteva pretendere chissà cosa)
Certamente, intorno al 1977-1978, anni in cui ho iniziato a fissare i primi ricordi, ho visto un mondo diverso da quello di oggi, una Pieve assolutamente differente da quella odierna e mentre lo facevo, ho iniziato a fare una “copia” personale di tutto quello che iniziavo a realizzare sia con la mente che con la fantasia, come quando si ha una macchina fotografica in mano e si inizia a scattare ed immortalare immagini che faranno parte della tua vita, per sempre.
Ma a quell’età, per un bambino, a parte tutti quegli aspetti della vita del paese, ancora poco importanti e rilevanti, il mio unico pensiero era quello di vedere mamma e papà stare bene, una famiglia unita ed essere felice.
La spensieratezza di un bambino era data dal fatto che eventuali problemi, grattacapi, pensieri e preoccupazioni non erano certo di sua competenza perché sarebbero stati risolti, in svariati modi, non da lui ma dagli adulti (nel mio caso da mamma e papà) che avrebbero fatto di tutto perché la loro situazione (e quindi anche la mia) fosse sempre sotto controllo.
Quell’anno il mio pensiero era fisso su alcuni piccoli oggetti, non di grande valore ma che, per me, erano una sana passione: le macchinine.
I giocattoli, negli anni ’70, non erano così tecnologici come quelli di oggi, c’erano già alcuni video giochi (tipo Arcanoid, Pac-Man, BlockOut) ma di certo non così ben fatti come quelli odierni. I giochi erano piuttosto manuali: costruzioni, mattoncini colorati – sia di plastica che di legno – i robot transformer, il Big Jim per i bambini, la Barbie per le bambine e tante altre cose che oggi si sono perse un po’, dato che il mondo virtuale ha invaso in modo prorompente ogni tipo di altro gioco, inghiottendo come un “mostro” tutti i desideri dei bambini.
Negli anni in cui ero bambino io, Pieve offriva anche la possibilità di acquistare i giocattoli, senza spostarsi troppo perché, non tutti, avevano questa possibilità. A casa mia, papà non guidava, mamma neppure quindi per ogni minima cosa ci si doveva arrangiare in qualche modo. Nonostante non ci si potesse spostare come oggi, Pieve offriva tutto e ogni necessità, da quella del bimbo a quella dell’anziano, veniva soddisfatta pienamente.
Oggi, con l’avvento dei grandi centri commerciali è piuttosto semplice trovare ogni oggetto che occorre alle nostre necessità ma prima no. I bambini vogliono un gioco? Si prende l’auto, si va all’Iper (piuttosto che alla Bennet o altra catena), si acquista e si torna a casa. Ma ancora meglio, si va sul web, si ordina senza muoverci da casa e l’oggetto del desiderio è magicamente nelle nostre mani in poco più di 24 ore.
Una volta queste cose non c’erano ma a Pieve, il punto di riferimento per i bambini era il negozio di Luigina e Maria Varesi, persone tanto care quanto straordinarie, persone che oggi non esistono più, figure d’altri tempi.
Per noi pievesi, di tutte le età, erano chiamate “la Mäsciät e la Iuc”. Io lo chiamavo il “luogo dei desideri” perché, dal bambino, all’adulto, all’anziano, c’era tutto quello che serviva per realizzare un sogno o, semplicemente, una necessità del momento.
Due persone gentili, cortesi, garbate, genuine, alla mano ma soprattutto corrette e con buone maniere che più nessuno oggi ha. Erano persone semplicissime ma, nel loro lavoro, molto competenti e preparate.
Vendevano merceria, articoli per la casa, oggettistica, soprammobili, articoli regalo di ogni genere, di tutto e di più ma una cosa era certa: vendevano i giocattoli. Ricordo le due grosse vetrate, quella di destra gli articoli per la casa, quella di sinistra tutto quello che riguardava i regali e i giochi.
Luigina e Maria si presentavano ai clienti in tutta la loro semplicità ed autenticità, ti mettevano a loro agio sempre e le persone, dalla più sicura alla più indecisa, venivano sempre consigliate per il meglio.
Da quel negozio si usciva sempre con qualcosa ma soprattutto contenti di aver avuto a che fare con loro, con la loro “pievesità” e la loro squisitezza.
Molto amiche dei miei genitori (chi aveva motivi per voler male a queste persone?) quando andavo in negozio con la mamma, Luigina mi chiedeva: “Gioiä, t’è vüst un quei còs che ät piàŝä?”. Facendo cenno su e giù con la testa, la mamma mi lasciava in quell’angolo in cui il mio sguardo osservava stupito ed incuriosito quel “ben di Dio” di giochi e puntando una sola cosa, l’unica cosa che in quel periodo mi interessava: le macchinine.
A distanza di tanti anni, oggi conservo ancora quei modellini, magari un po’ rovinati (perché ci ha giocato anche mio figlio) ma sono sempre li e non mi abbandonano mai.
La mamma quel giorno comprò dei piatti e dei bicchieri nuovi perché il servizio che avevamo, quello “dä tüti i di” era un po’ datato ed io, abbandonato in quello stanzino pieno di magia, sgravano gli occhi pensando: “Chissà se la mamma mi comprerà una macchinina?”
Maria (la Iuc), visto che la mamma aveva fatto la sua spesa le disse: “Albertina, äl to fiulin l’è li che äl crödä, täg crompi gnintä?”. Mamma mi guardò amorevolmente e mi fece capire che potevo prenderne addirittura due. “Si c’ät dòn Luiginä?” chiese la mamma a Luigina. Di solito era la Iuc che faceva i conti così, biglietto e matita alla mano, fece la somma, la mamma pagò e, tutto contento, strinsi forte a me quelle due macchinine. Ogni tanto le guardo ancora, erano una Renault 4 e una Renault 16, verde la prima e azzurra la seconda, bellissime e tutte per me.
Ringraziai la mamma davanti a tutti dandole un grosso bacio e un abbraccio colossale. Luigina e Maria, quasi commosse, mi diedero entrambe un bacio dicendo a mia mamma: “Äl to fiulìn l’é pròpi unä bélä stälä”. Mamma era felice e lo ero pure io.
Salutammo quasi dispiaciuti nel dover andare via perché in quel negozio, in quella bottega non si respirava quell’aria da “centro commerciale” ma si sentiva il sapore e il calore della famiglia.
Quanti bambini felici ci sono stati, grazie alla Luigina e alla Maria, quante manine contro quei vetri, quanti occhi sgranati ad osservare meraviglie, quanti nasini umidi appiccicati alle vetrate di quel negozio e quanto amore ci mettevano nel loro lavoro come un servizio per la comunità, come una missione e una vocazione.
Oggi non lo apprezziamo più ma alcune persone, per una comunità, sarebbero veramente indispensabili.
CONTINUA…

RICORDI: LA GITA PARROCCHIALE AD ARENZANO
Nella mia modestissima carriera da chierichetto, che avevo già trattato in diverse occasioni nei racconti precedenti, ci furono 5 anni di intensa vita legata alla parrocchia dal 1977 al 1982 che poi si protrarrà anche in futuro, per molti anni ancora. In quel periodo, semplice ma intensamente vissuti alla maniera di un bambino, il premio per noi chierichetti era la gita ad Arenzano con la classica mèta al Santuario del Bambino di Praga, invito esteso anche alla comunità parrocchiale. In quei 5 anni del mio “ministero” e anche dopo, se non sbaglio fino al 1985, ci andai per 9 volte consecutive.
Per il nostro Parroco, Don Sandro Lova, che ci teneva tantissimo, era diventata abitudine di tutti gli anni e ricordo bene la presenza di tante persone, sia di coloro che partecipavano attivamente alla vita della parrocchia ma anche di altre.
Solitamente il pullman era già “SOLD OUT” soltanto dopo pochi giorni dall’uscita della locandina informativa. Poi, in parrocchia, le voci “paesane” e le indiscrezioni (come in ogni ambito sociale) viaggiavano più veloci delle comunicazioni scritte. Non si aspettava altro che questa gita di fine primavera che ci permetteva di uscire un po’ dalla normalità quotidiana (nei nostri piccoli paesi non c’era nulla quindi anche una minima cosa diversa dal solito, era necessariamente da concretizzare).
Di solito era verso la fine di maggio, quando iniziava a fare un po’ più caldo e tutti noi iniziavamo a sfoggiare dei “vestimenti leggeri” (frase di “dannunziana” memoria, ndr), dal più piccolo all’adulto avevamo stampati, in volto, l’immagine dell’allegria, della spensieratezza e della curiosità che ci pervadeva nonostante andassimo “sempre” nello stesso posto, tutti gli anni. La meta era quella e là si doveva andare.
Nessuno si era mai azzardato a dire: “Ma non possiamo andare in un altro posto?”. Arenzano era la nostra destinazione e l’abbigliamento di ognuno di noi era assai curioso perché non c’era limite alla fantasia perché c’è chi era in giacca e cravatta, chi vestito sportivo e chi era già in tenuta da spiaggia (anche se di spiaggia ad Arenzano, non è che ce ne fosse chissà quanta). Ma l’importante era il “fine” cioè quello di uscire da Pieve un giorno all’anno (e per qualcuno non così abituato era proprio l’unica occasione per fare aggregazione sociale).
In fin dei conti quello che veramente importava era stare insieme, divertirsi e passare una giornata diversa dal solito. Il ritrovo era alle 8 del mattino e, uno ad uno, si arrivava dietro la chiesa parrocchiale, nella piazzetta dell’Oratorio che si sarebbe popolato nel giro di una decina di minuti, di una cinquantina di persone, pronte a partire per il mare.
C’era gente anche con un tale bagaglio che sembrava dovesse “stà viä” chissà quanto tempo e chi, invece aveva il suo zainetto con l’occorrente per un giorno. Ad un certo punto, in lontananza – come dal nulla – un colpo di clacson doppio: era il pullman (lä Curierä äd Cärpanél o Bäichìn) che stava arrivando. Lo sbuffo dei freni del mezzo fece partire la massa di gente verso di esso. Caricato quel poco bagaglio, l’aprirsi delle porte fece salire tutti che ci accomodammo al nostro posto. Noi chierichetti andavamo tutti verso i posti in fondo e tutti gli altri, la mia mamma compresa, si fermavano o davanti o nel mezzo. Chi soffriva la corriera prendeva la pastiglia e si metteva davanti, praticamente incollato all’autista. E chi come Don Sandro organizzava tutto questo, non veniva quasi mai in gita con noi perché lui non abbandonava quasi mai la casa parrocchiale. Tutti sistemati ai nostri posti salutavamo come se dovessimo partire per uno di quei viaggi senza ritorno e salutavamo Don Sandro e i suoi genitori, la siurä Ginä e al suir Mario, ci avrebbero atteso per la sera.
Di solito veniva con noi Don Pino e devo dire che, aldilà del ruolo di pio ed umile sacerdote che ricopriva così da rassicurare la sua comunità, era veramente una persona gradevole e simpaticissima (non sembrava, data la sua timidezza e riservatezza ma era proprio così). Pronti, partenza, via! “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” attaccava Don Pino recitando tutti insieme un Pater-Ave-Gloria per augurarci un buon viaggio.
L’andata non era particolarmente ricca di contenuti ma soltanto di entusiasmo perché, da li alla prossima ora e mezza, saremmo arrivati ad Arenzano. Ore 9.30, puntuali, traffico abbastanza scorrevole (non era quello di oggi), al piazzale del Santuario del Bambino di Praga. Li ci sarebbe stata la Santa Messa, per chi aveva piacere, celebrata dai padri del Santuario insieme al nostro sacerdote accompagnatore.
Ovviamente ci andammo tutti e dopo una visita al presepe permanente della struttura, un veloce pranzo al sacco e un pomeriggio, finalmente, a vedere il mare. Erano i primi anni ’80 e a quella gita c’era anche la mia mamma che mi preparò un abbondante vitto consistente in 3 o 4 panini, di quelli freschi con l’affettato, di quello buono preso dalla Pierina lä Ciònä la mattina stessa, prima di partire.
Quella giornata non andai a fare il bagno, non ne avevo voglia e stetti tutto il pomeriggio insieme ad altri bambini, su quegli scogli così belli da sembrare cuscini, in riva al mare a respirare lo iodio che faceva bene ai polmoni e a prendere il sole che credevo fosse “diverso” dal nostro in Lomellina e che faceva “più bene”. Quella fu la mia prima gita fuori casa, mamma e papà non erano abituati a fare i “fèrj” come molta altra gente che d’estate andava via dal paese. Noi non ci muovevamo quasi mai e approfittavamo di queste giornate per svagarci un po’. La partenza per il ritorno a Pieve era previsto intorno alle 18 e il tempo passava abbastanza rapidamente; erano già le 16 ed era ora di fare merenda. Mamma aveva delle riserve piuttosto abbondanti e quella piccola borsa sembrava quella di Mary Poppins perché tirava fuori qualsiasi cosa. Con me c’erano altri bambini accompagnati dalle loro mamme e anche loro, dentro quelle borsr magiche estraevano, come dei conigli dentro i cappelli a cilindro, meravigliose prelibatezze ed una tra tutte, la più buona merenda dolce mai creata: pane, burro e zucchero o, semplicemente, solo pane e zucchero. Nulla di confezionato, una merenda equilibrata che ci permetteva di acquistare quelle energie che ci avrebbero sfamato fino all’ora della partenza. E quella bellissima giornata di mare diventava semplicemente una bellissima giornata, indipendentemente dal mare o da qualunque altra cosa ci fosse.
Il viaggio di ritorno era un punto di forza di ogni gita perché, nonostante la giornata fosse terminata e si tornava a casa, non mancava – sul pullman – quella situazione di gioia, di allegria e di condivisione.
Era obbligatorio cantare (non so se l’autista fosse così d’accordo) e si cantava a squarciagola tutti quei classici stornelli di una volta che si cantavano alle gite. “Meglio sarebbe se non t’avessi amato” incalzava la Maria; “sapevo il credo ed ora l’ho scordato” rispondeva l’Emilia e tutti in coro: “Pur non sapendo più l’Ave Maria, come potrò salvar l’amina mia”. Quanto era divertente il viaggio di ritorno con tutte quelle canzoni popolari come “Piemontesina bella”, “Azzurro” di Celentano, “Romagna Mia” di Casadei. Ma la sorpresa più grande, che poi si sarebbe ripetuta come un rito ogni volta che c’era una gita, era la sorprendente quanto esilarante interpretazione di Don Pino nella canzone “La famiglia dei gobbòn” che, vi giuro, sapeva a memoria ogni strofa e noi, molto puntualmente a ripetere in ritornello “Gobba so pare, gobba so mare, gobba la figlia della sorella ch’era gobba pure quella…”
Al termine della canzone scoppiò un applauso fragoroso nei confronti del nostro Don Pino che, da buon pievese, si sentiva parte integrante di una comunità che gli ha sempre voluto bene.
Mancava poco all’arrivo a Pieve e la felicità per una giornata diversa lasciava il posto alla gioia del ritorno a casa e mentre la figura dei “dü cämpänìn” prendeva forma, ognuno di noi ringraziava il cielo per esserci stato e per aver vissuto una giornata memorabile che nessuno di noi avrebbe dimenticato tanto facilmente.

RICORDI: ÄL DI D’LÄ FÉSTÄ IN CESÄ
Gli avvenimenti importanti, le feste “belle”, le ricorrenze particolari che avvenivano poche volte l’anno, meritavano sempre di essere festeggiate in un certo modo e, per quanto riguardava le liturgie, beh … il nostro Don Sandro non era secondo a nessuno ed aveva sempre, per queste occasioni, un particolare occhio di riguardo.
Faccio un tuffo nel passato di circa 40 anni (che strano – direte – non lo fa mai!) ed esagero, mi spingo ancora più indietro fino ad arrivare intorno alla fine degli anni ’70. Il parroco era sempre Don Sandro, poi c’era Don Pino (che era stato anche parroco a Villabiscossi) e direttamente dalla “Sacra Famiglia” arrivavano degli aiuti perché il cappellano, che ogni tanto cambiava, coadiuvava anche il parroco del luogo e i suoi collaboratori facendo anch’essi questa funzione (sarebbe comodo oggi con un’unità pastorale così ampia che va da Mezzana Bigli a Torreberetti). A Pieve quindi, in quegli anni c’erano sempre tre sacerdoti. Di cappellani alla casa di riposo ne ricordo tre e il primo era un certo Padre Felice (che noi chiamavamo Don Felice); un brav’uomo, piccolo di statura, un po’ paffutello. Ricordo poco di lui ma frequentava attivamente la parrocchia e veniva anche in oratorio a controllare noi banbini. Dopo di lui ne arrivò un altro: Padre Antonio Marzorati (che noi chiamavamo Don Antonio). A differenza del primo, era alto e magrissimo e con una caratteristica che non si vedeva ma si sentiva: “äl spüsàvä äd sigùlä e àj”. Quando parlava con noi bambini, non lo facevamo apposta ma, ci tappavamo le narici perché il suo aroma, piuttosto intenso, ci pervadeva a tal punto da indurci a fare quel gesto poco cortese. Oltre a quell’odore di “soffritto” costante, la sua tonaca un po’ sgualcita odorava di un qualcosa misto “canfora-naftalina”, piuttosto forte.
Don Antonio restò qualche anno e poi arrivò Padre Vincenzo Sangalli (Don Vincenzo) che rimarrà fino al 1999, anno della sua scomparsa (in settembre). Rispetto ai primi due sacerdoti dei quali non ho particolari episodi da raccontare data la mia tenera età, di Don Vincenzo serbo un ricordo particolarmente piacevole di un uomo buono, di un amico, addirittura di un confidente.
La totale disponibilità di tutto il clero pievese, trovava il massimo della sua espressione in una particolare domenica dell’anno: la seconda di settembre ovvero “äl di dlä féstä”. Per l’occasione l’Antonio Mazzone (äl säcrìstä) addobbava “a festa” la chiesa e l’altare diventava ricco di suppellettili ed arredi: venivano messe le reliquie belle e i mezzi busti dei vescovi venivano sostituiti dalle statue intere. Venivano tirate fuori da quell’armadione in sacrestia i calici belli, le ampolline belle e preparava tutti i paramenti ad hoc per i celebranti.
Per tutto il periodo in cui Don Sandro è stato parroco (per quanto possa ricordare io), fino al 1991, le domeniche del giorno della festa patronale erano organizzate sempre allo stesso modo cioè con una solenne celebrazione, con la partecipazione della “Schola Cantorum”, con tanti chierichetti, con la processione fino all’altare maggiore mentre il coro cantava il marziale e pomposo quanto bellissimo “Ecce Sacerdos” di Lorenzo Perosi. L’ospite d’onore che ogni anno veniva invitato – e lui partecipava sempre con immenso piacere – era Monsignor Francesco Pavesi, figlio di una Pieve d’altri tempi che, da Vigevano, tornava volentieri per quella ricorrenza.
Ricordo molto chiaramente le sue fervide ed accorate prediche, piene di slancio e di enfasi, nonostante la sua voce flebile e un po’ tremolante. Da quando io lo vidi e lo ascoltai per la prima volta, nelle sue omelie non mancava mai un riferimento costante, il ricordo di colui che fu il suo mèntore, il motivo della sua totale dedizione alla vita consacrata: il Teologo Don Gerolamo Avanza, parroco di Pieve del Cairo per 46 lunghi anni fino al 1938, il suo parroco di quando lui era bambino. Monsignor Pavesi lo aveva conosciuto molto bene, avrebbe potuto scrivere un libro, un’enciclopedia su di lui quindi non mancava mai quel riferimento che tutti si aspettavano e diceva: “Ricordo ancora con grande commozione l’immensa figura del prevosto Avanza” – e ancora ribadiva - “che grazia a lui ho mosso i primi passi verso il mio ministero sacerdotale”. Per anni, ad ogni domenica del giorno della festa, le sue prediche erano sempre più o meno le stesse. Prediche piuttosto lunghe, per noi chierichetti erano infinite che ascoltavamo molto distratti (le ho poi apprezzate più avanti) e la chiesa gremita di gente attendeva con una certa impazienza che la celebrazione finisse perché, non me ne vogliate se lo dico, le donne “i duìvän ändà ä mät su lä pädelä” e gli uomini “ä mät i gämb sùtä äl tàul”. Al termine della messa però, molte persone andavano a salutare il prelato, soprattutto coloro i quali avevano una certa età che lo conoscevano bene. Ricordo che con papà andavo sempre a salutarlo e lui diceva con piacere, appoggiandomi una mano sul capo: “Ciau Dègo, mi äm ricordi che s’erä ä scholä cun tò frädè, äl Giuänìn däl Ciö” (difatti Monsignore era del 1909, coscritto con lo zio Giovanni, il fratello di papà).
Un’altra celebrazione che faceva parte del ciclo del “di d’la festa” era il lunedì, giornata in cui veniva celebrata la messa per tutti i defunti della parrocchia (“l’ufìsi di mòrt”) presieduta da un altro pievese doc, Don Attilio Straneo, allora parroco a San Giorgio di Lomellina. Classe 1921, pievese, tornava sempre volentieri in quell’occasione, ci teneva particolarmente ad essere presente. Piuttosto attaccato al suo passato, don Attilio mostrava – oltre alla sua naturale devozione e zelante fede – un particolare interesse verso coloro, più o meno suoi coetanei, che aveva frequentato, che avevano fatto le scuole con lui e con i quali aveva passato i bellissimi momenti della sua infanzia, gli anni dell’asilo e poi della scuola. La sua famiglia, all’epoca abitava ai Casoni Deserto (quasi in riva al Po) e quante volte raccontava di arrivare in bicicletta o a piedi verso la chiesa parrocchiale proprio per servire od assistere alla Santa Messa.
Per farla breve, Monsignor Pavesi era “quello della domenica”, Don Attilio Straneo “quello del lunedì”. Erano due ometti non tanto alti, con quella postura leggermente ricurva in avanti, entrambi sempre in atteggiamento “orante”, come se stessero sempre in preghiera, educati, pacati, taciturni e molto silenziosi e riservati. Nonostante questo loro comune modo di essere, era sempre un piacere, almeno una volta l’anno, tornare nella loro Pieve, “come fratelli in mezzo ai fratelli”, sacerdoti di Cristo, per sempre.
CONTINUA …
RICORDI: L’ESÁM ÄD QUINTÄ ELEMENTÁR
Era appena terminato il mese di maggio, la primavera ci stava salutando con i suoi colori tenui che sarebbero diventati brillanti ed accesi con l’estate ormai alle porte. Noi bambini, era il 1982, ci stavamo preparando per una importante tappa della nostra vita, la prima vera prova che ci metteva a confronto con il mondo, dandoci la possibilità di avere tra le mani il primo famigerato “pezzo di carta”: l’esame di quinta elementare.
Ogni mattina, il maestro Bruno Torti, ci ricordava – facendo il conto alla rovescia – quanto mancava a quei giorni. Dovevamo svolgere due prove scritte che consistevano nel tema di italiano ed esercizi di matematica e una prova orale in cui ogni candidato doveva portare un argomento a scelta.
Dopo cinque anni intensi di studio e – ahimè - di poche applicazioni pratiche, eravamo arrivati alla resa dei conti. Avevamo acquisito una particolare abilità nella lettura, nella scrittura e nel “far di conto”, avevamo assorbito tante informazioni di carattere letterario, storico, scientifico, geografico, sapevamo cos’era la “cartina fisica” e la “cartina politica” e, se avevamo buona memoria, saremmo stati in grado di ricordare tutte le capitali del mondo perché una volta, non come oggi, la geografia ce la insegnavano davvero. Io ero bravissimo in questa materia e mi piaceva tantissimo anche l’astronomia che consideravo un argomento interessante, stimolante e di grande impatto.
Quando andavo a scuola io, Plutone era il nono pianeta del sistema solare, oggi non lo è più perché un summit di scienziati avrebbe deciso la sua espulsione declassandolo da “pianeta” a “pianeta nano” (poverino!!!)
Plutone a parte, dicevo che la geografia era la materia che mi piaceva più di tutte e quando bisognava andare alla cartina ed indicare con la bacchetta i territori che il maestro chiedeva, mi alzavo sempre come volontario (non c’erano le LIM come oggi ma delle lunghe bacchette di legno che indicavano il punto da far notare).
Sapevo a memoria tutte le capitali dell’Europa, tutte le regioni italiane, le provincie (che erano un po’ meno di adesso) e – per conto mio perché non rientravano nel programma – mi piaceva leggere ed imparare le capitali di tutti gli stati del mondo.
A scuola non ero una “cima” ma me la cavano abbastanza bene, non ero un “secchione” ma mi arrangiavo, non ero il “primo della classe” e non lo sono mai stato: ero un bambino normale che si impegnava normalmente, senza esagerare, per uscire al più presto da quell’edificio. Il maestro Torti, la settimana che precedeva l’esame, ci fece fare delle prove di simulazione perché ne capissimo il meccanismo nel modo più reale possibile.
E quel giorno arrivò! Tra di noi c’era una certa agitazione e ho ancora davanti agli occhi le espressioni di ogni mio compagno: tra tutti, la meno preoccupata era certamente Bettina perché, fin dalla prima elementare è sempre stata bravissima in tutto (senza nulla togliere ad altri molto bravi, sia maschi che femmine). Ricordo il maestro Torti alla cattedra, noi compostissimi ed “inamidati” ai nostri banchi, nell’attesa che ci chiamasse davanti a lui. Non ricordo se ci fosse solo lui o qualche altro insegnante come “commissario esterno”, è un particolare che mi sfugge ma la tensione era palpabile e l’aria era piuttosto pesante.
In rigoroso ordine alfabetico, l’insegnante ci passò in rassegna tutti quanti. Al mio turno, agitatissimo e sudato come se avessi corso i 100 metri, mi presentai davanti a Torti che mi guardò e mi disse: “Carlo, tutto bene?”. Gli risposi: “Si, più o meno”. Gli occhi penetranti e un po’ severi del maestro si trasformarono improvvisamente in uno sguardo dolce e materno, come a dire: “Coraggio Carlo, esponi ciò che hai studiato”.
Il maestro mi fece vedere gli scritti e con piacere mi disse: “Sono andati bene, in matematica hai sbagliato un segno ma il resto è tutto giusto, il tema l’hai fatto un po’ corto ma il contenuto c’è”.
Ora mi toccava parlare ed esporre ciò che avevo studiato. Di geografia avevo portato il Piemonte e feci una panoramica sul territorio, sulle città più importanti facendo notare che Pieve del Cairo era attaccato a questo territorio. Usai proprio queste parole: “Maestro, la nostra Pieve è quasi in Piemonte perché siamo proprio sul confine”. Poi mi venne chiesto l’argomento che avevo scelto di portare: la prima guerra mondiale. La imparai a memoria, non so quanto potesse rimanermi in testa ma l’importante era “saperla” al momento giusto.
Sul libro di storia c’era scritto proprio quello che cominciai a dire: “La goccia che fece traboccare il vaso fu l’attentato di Sarajevo, il 28 giugno 1914, l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono Austro-Ungarico, e la moglie, vengono assassinati da Gavrilo Princip, un universitario… eccetera eccetera”.
L’inizio della prima guerra mondiale, per tanti anni ancora, sarebbe iniziato sempre in quel modo, con quella goccia che faceva traboccare il vaso, in ogni libro di storia che lessi, anche in seguito all’esame di quinta.
Poi sparai a “raffica” qualche altro fatto, qualche numero, qualche data e arrivai alla fine che il maestro Torti mi disse: “Carlo, va bene, fermati li”.
Aveva capito che avevo studiato a memoria tutto, che mi ero impegnato ma mi fece alcune domande in più alle quale non seppi rispondere; ci rimasi molto male e ci rimase male pure lui. Mi disse: “Carlo, ragiona, ti sei impegnato, hai saputo ma non hai imparato”. Non capii fino in fondo quella frase con la quale il maestro Torti si rivolse a me, guardandomi negli occhi ma, più avanti, l’avrei capita, l’avrei capita molto bene.
Oggi dico “grazie” al maestro perché mi fece intendere che imparare a memoria non sempre poteva dare i frutti sperati.
Non studiai mai più a memoria ma usando parole mie, ragionando sui fatti, sugli avvenimenti, sulle situazioni, riflettendo su ogni argomento letto. Leggevo e prendevo appunti, rileggevo e riprendevo di nuovo appunti. Capii che la continua lettura di un concetto e l’immediata scrittura del suo riassunto, favoriva il mio apprendimento.
E ancora oggi, a distanza di tanti anni, quando riaffiorano questi ricordi e prendo in mano i miei quaderni, leggo tantissimi appunti, copiati e ricopiati tante volte. Ripenso al maestro Bruno Torti e a tutti i suoi preziosi consigli e al mio primo “toc äd cartä” che conservo ancora come una reliquia nel cassetto dei miei ricordi.
CONTINUA…

RICORDI: ÄL TELEFONO IN CA’
Sono passati già 36 anni quando, nell’apparentemente non lontano 1988, papà decise di mettere in telefono in casa. A Pieve, molte persone ce l’avevano già ma noi - probabilmente sarà stato così - non ne sentivamo assolutamente la necessità, fino a quel momento ovviamente.
Oggi, il telefono è fondamentale, indispensabile, necessario, obbligatorio, quasi come un’appendice del nostro corpo ma nella famiglia Degiorgi, fino al 1986 non lo era affatto. Ricordo molto chiaramente papà e mamma, avevo 16 anni, quando alcune sere prima di questa importante decisione si erano messi a discutere sul fatto che i tempi stavano cambiando e che era un modo per essere sempre raggiungibili.
Che non fosse uno strumento indispensabile ce lo spiegheranno le parole di una nostra cara concittadina, la ultracentenaria Guglielmina Calvi (1893-1999) che dirà ancora diversi anni dopo: “Io non ho il telefono non lo metterò mai perché se ho da dire qualcosa ad una persona, vado a casa sua e gliela dico”. Guglielmina era una donna d’altri tempi e questa curiosità la disse anche al “Maurizio Costanzo Show” dove era stata invitata e dove la sua presenza e la sua personalità forte e coraggiosa, stupì lo scrittore Alberto Bevilacqua che la volle come ospite, in quei giorni, ad una cena romana, come disse poi lui stesso: “indimenticabile!” (chi accompagnò Guglielmina a Roma me lo potrà confermare). Ma a parte l’intelligente considerazione della nostra “mecànicä”, vado avanti e proseguo il mio racconto.
Il motivo che spinse la nostra famiglia a mettere questo apparecchio in casa non mi interessava quel granché (un sedicenne oggi la pensa proprio all’opposto) ma sentivo i miei genitori che iniziavano a dire: “Sumä tüti dü in pension, sumä drè gni vég e cuminciumä ä fà un po’ fädìä”. Questo telefono avrebbe permesso, qualora ce ne fosse stato bisogno, di correre il meno possibile da un posto all’altro, di comunicare le informazioni senza muoverci di casa e di chiamare anche eventuali aiuti in modo semplice e, soprattutto, rapido. La decisione quindi fu unanime: “Ädmän andumä ä Murtarä ä fa äl cuntràt”.
A fare questo fantomatico contratto ci andò papà insieme al suo amico, nostro vicino di casa, il Sandro Chiocca (äl Pretùr) che anche lui, come noi, non aveva ancora il telefono in casa: pertanto fecero il contratto insieme (ricordo che ci attribuirono due numeri di telefono praticamente uguali a differenza dell’ultimo numero). Nel 1986 poi, chi faceva parte dello stesso distretto, non doveva nemmeno fare il prefisso (che per noi era, ed è ancora, lo 0384) quindi con quelle sole 5 cifre potevamo esaudire tutte le nostre telefonate urbane, comodamente seduti sulla bella poltrona che mamma predispose di fianco a quella magnifica postazione telefonica (incredibile quanta meraviglia … di fronte ad una cosa così banale oggi).
Io ero piuttosto emozionato ed impaziente perché, dato che alcuni miei amici avevano già il telefono, avrei potuto chiamarli senza dover andare da loro, potevo chiamare anche i miei compagni di scuola lontani da Pieve (dato che frequentavo le scuole a Casale Monferrato, molti di loro abitavano da quelle parti). Ma la cosa che oggi mi fa più sorridere quando ci penso, è la gestione della “novità”, del poter fare un qualcosa che fino a ieri non avremmo potuto svolgere: telefonare e – soprattutto – far sapere a tutti che, anche noi, avevamo il telefono.
L’apparecchio era nuovo di pacca, ci avevano precedentemente applicato una “borchia” al muro (erano venuti quelli della SIP) che avrebbe permesso di collegarci il telefono con tanto di presa e filo (non si parlava ancora di wi-fi, almeno in casa). Il telefono con la sua cornetta era di color grigio chiaro con la “rüdèlä” per comporre i numeri. Mamma preparò un tavolinetto (täulìn), ci mise in mezzo un “centro tavola”, di quelli belli, fatta dalla nonna Tirisìn “et voilà”: tutto pronto per essere usato.
Beh, “usato” non era il termine più corretto, almeno per le prime settimane in cui ce l’avevamo. Sfruttammo al massimo quella comodità non per necessità ma soltanto per provare a chiamare qualcuno e sentire, con emozione, una voce dall’altro capo del filo che poteva essere chiunque, dal vicino di casa al parente di città lontano.
Ricordo che papà aveva un quadernetto con la copertina nera, piccolo, con le lettere dell’alfabeto in fianco: la Rubrica (lui lo chiamava “äl täcuìn”) dove aveva iniziato a segnare i numeri di tutti i parenti, amici e conoscenti che avevano già il telefono. Ne aveva altri su un foglio e mi disse: “Carlo, venä chì e ricòpiä sti nümär in täl täcuìn”. La rubrica si riempì magicamente di contatti telefonici (oggi sappiamo a mala pena il nostro numero di cellulare ma una volta li conoscevamo quasi tutti a memoria, almeno quelli che usavamo spesso).
Ricordo tante di quelle telefonate inutili che la metà sarebbero state bastate, a parlare di cose senza senso, solo per il gusto di usare il telefono. La mamma in quelle prime settimane, fece tante di quelle telefonate che “l’era sempär ä drerä” tanto che papà le diceva: ”T’é no äncùrä finì dä ciäciärà?”. Chiamava la zia Maria, la zia Amelia, lo zio Guido, i cugini di Bagnaria ma quello che più non capivo era questo: chiamava sempre i vicini di casa. Mi domandavo: “Mamma, se sono vicini perché non vai da loro invece di chiamarli?”. Ricordo le lunghe telefonate con la Nìn (ve la ricordate la Nìn?) che erano sempre uguali e tutte le volte che si chiamavano si stupivano l’un'altra dicendosi: “Oiaaaà che bel, t’è propi tì? Ma smìä näncä verä che äs pö pärlàs äncä dä luntän” (e tutti i giorni era così, sempre incredule da così tanta comodità).
I telefoni non mancavano anche in molti punti del paese con i “gäbìn ä getòn” che servivano la comunità e anche chi, ancora, non aveva l’apparecchio nella propria casa.
Che bello! Che meraviglia! Il telefono però aveva il suo costo perché ogni mese arrivava “lä bulätä”, c’era un canone fisso e poi si sommava il prezzo della durata delle conversazioni ma era una comodità troppo allettante per poterne fare a meno. La chiamata urbana costava uno scatto ma le interurbane erano piuttosto dispendiose per non parlare delle 2 telefonate all’anno che mamma faceva con la zia Enrica, ad Eldorado Misiones, nella lontana Argentina.
Che emozione quel momento in cui mamma e sua sorella si sentirono per la prima volta dopo tanto tempo da quando era emigrata dall’Italia.
Non si sarebbero più riviste purtroppo ma almeno c’era questa possibilità, la consolazione di potersi sentire anche se, dai miei chiarissimi ricordi, erano più le lacrime e i singhiozzi delle parole.
CONTINUA…

RICORDI: LÄ NONÄ TIRISÍN
Potrei stare qui all’infinito a scrivere tutto quello che mi viene in mente, narrare tutte le vicende che sono trascorse in quasi 51 anni di vita ricordandomi piuttosto bene i fatti accaduti dal 1976 in poi. Avevo più o meno 5 anni quando questi miei occhi hanno iniziato a guardare attentamente il mondo, quando la mia mente ha cominciato a fissare dentro i cassetti della memoria i ricordi, le emozioni, le sensazioni.
Purtroppo, a differenza di tutti quelli della mia età che hanno avuto il piacere non solo di conoscere ma anche di “vivere” i loro nonni, io non posso dire la stessa cosa. Io sono nato nel 1971 e i miei due nonni sono mancati prima che venissi al mondo. Luigi Degiorgi (detto al Ciö) morì nel 1965 mentre l’altro nonno, Giovanni Ferrari (nonno materno) morì ancora prima, nel 1962. Le due nonne sono mancate quando ero piccolo ma, fortunatamente, me le ricordo. Una delle due in particolare, perché nonna Costantina (la mamma di mia mamma) abitava a Mede e, anche se veniva spesso a Pieve a trovarci, non ho molti episodi di lei e con lei che posso raccontare. Mi riferisco alla mamma di mio papà: Teresa Gatti, per tutti noi la nonä Tirisìn. Me la ricordo bene soltanto perché abitava con noi quindi, fino all’età di 5 anni e mezzo era sempre con me. E’ certo che i ricordi che ho di lei sono dei flash, istanti brevi e potrei essere più preciso soltanto riferendomi ai fatti accaduti tra il 1975 e il 1976, prima no perché ero troppo piccolo. Gli eventi che andrei a raccontare sarebbero più “tramandati” da mamma e papà che mi avrebbero poi riferito.
Nonna Teresa era nata ad Ottobiano il 10 luglio 1890 da Andrea (1851-1910) e da Maria Gatti. Come diceva lei: “Son fiölä äd dü Gat”. Erano infatti entrambi di cognome Gatti, ovviamente due rami di famiglie differenti: i Gatti del mio bisnonno arrivavano da Valle Lomellina, quelli della mia bisnonna da Lomello, comunque entrambi dalla Lomellina.
La nonna a 18 anni si sposa con il nonno che ha 30 anni: lui è già grande, lei una ragazzina molto bella, dai capelli lunghi neri, raccolti dietro con il classico “ciuròn” che si usava una volta, lui il classico uomo con cappello e baffi, quei baffoni che si portavano all’inizio del 900.
Mi sembra di raccontare una storia d’altri tempi, di periodi lontanissimi da noi ma mi rendo conto che sto soltanto parlando dei miei nonni.
Tralascio tutti i particolari che conosco di loro per arrivare ai momenti che ricordo della nonna Tirisìn che saranno, per me, i primi ricordi della mia vita e per lei, purtroppo, gli ultimi anni della sua esistenza.
Da quello che mi hanno raccontato mamma e papà, nonna Teresa, seduta “stancamente” su quel divanetto che avevamo nel tinello, mi faceva letteralmente “da guardiano”. Io ero piccolo, avevo 1 anno e mezzo e giocavo nel mio box mentre la nonna osservava ogni mio movimento, controllava che non mi facessi male. Quando dovevo dormire, mi prendeva in braccio, mi cullava dolcemente e mi metteva vicino a lei, sul divano, cantandomi quella “ninna nanna” di una volta, di quelle che soltanto lei poteva sapere, ormai in disuso da varie generazioni ma che si ricordava ancora, tramandata dalla sua mamma, di generazione in generazione.
Un episodio, alcuni anni dopo, me lo ricordo. Avevo circa 4 anni e al pomeriggio, di solito, facevo sempre il sonnellino (al sugnìn). Lei sentì il cane del vicino abbaiare e, per far in modo che non mi svegliasse, gli corse incontro intimandogli di smettere ignara di quel gradino della “losa” che avrà fatto un milione di volte ma che in quell’istante le fu fatale, facendola inciampare, cadere rovinosamente a terra rompendosi la spalla.
Povera nonna Tirisìn, piangeva ed io, non così cosciente di quello che le era successo le chiesi: “Nonna perché piangi? Ti sei fatta male?”. E lei, con quella voce fioca, rotta dal dolore che provava dopo quell’incidente disse: “No gioiä, bel bimbìn, l’è gnìntä”. Mi chiamava sempre “bel bimbìn” con quella voce così dolce che mi sembra di sentirla ancora adesso dopo tantissimi anni.
La ricordo stanca, malata, sempre seduta su quel divano e sempre costantemente vestita di scuro: gonna scura, camicia scura, golfino nero, calze “spesse”, di quelle contenitive e due ciabattine di stoffa, anche quelle rigorosamente nere. Era il suo modo di vestirsi quotidiano, non la ricordo vestita in altro modo, sempre così. Ma nonostante quell’abbigliamento così privo di sfumature accese e colori sgargianti, il suo viso era buono e sereno, tanto da mettere tranquillità e fiducia con i suoi modi di fare delicati e gentili.
I ricordi sono un po’ lontani ma ogni giorno nonna Tirisìn raccontava storie filastrocche, racconti antichi che io ascoltavo, magari senza prestare quell’attenzione particolare ma bastava che la guardassi, che la fissassi che lei era contenta e continuava a raccontare.
Ne ricordo alcune come: “Tràtä trätolä, lä mamä lä và ä scölä, äl päpà äl và äl bosc e äl pòrtä ä cà lä miccä e un òs, e nä ramä äd sänguänin pär bàt äl cü äl sò fiulìn”. E tutte le volte che ripeteva il finale di questa filastrocca io ridevo a crepapelle e mi nascondevo perché avevo paura che sbucasse papà, armato di quella “ramä äd sänguänin” per picchiarmi il fondoschiena. La nonna mi tranquillizzava dicendomi che non dovevo temere nulla e che papà sarebbe tornato presto a casa. E mi ripeteva ogni volta quest’altra filastrocca afferrandomi dolcemente le manine: “Ciciòtä ciciòtä che äg venä ä cà päpà, äl venä ä cà stäsirä e ädmän äl và ä läurà”. E contento come non mai, continuavo a ripetere questa storiella: io battevo le mani, la nonna le batteva con me ed entrambi eravamo felici. Ricordo le mie “volate” in braccio alla nonna Tirisìn e lei, povera donna, anziana e stanca, non mi avrebbe mai detto di smettere anche se non sempre aveva quella voglia di giocare. E mia mamma, sollevata da quell’incombenza che si accollava la nonna che cercava di placare quella mia esuberanza, tipica di un bambino di 4 anni, si raccomandava dicendomi: “Carlo, fà nò gnì màt lä nonä, néh!”. E lei la tranquillizzava dicendole che i momenti passati con me erano gli attimi più belli che gli erano rimasti.
In me vedeva il suo futuro, in un mondo che l’avrebbe vista lottare ancora per un anno. Era il 1976, l’ultimo suo anno di vita e la ricordo, durante i miei giochi e le mie marachelle, sempre a letto, sempre più magra, inappetente e sofferente. Vedevo mamma e papà costantemente affaccendati verso la nonna che aveva sempre più bisogno di loro; nonostante questo non le mancò mai il sorriso, fino alla fine.
Continuavo a non capire fino in fondo cosa succedesse finché un giorno di novembre la nonna chiuse gli occhi per sempre.
Aveva 86 anni ed io non ne avevo neanche 6. Lei era vissuta in un’epoca in cui non c’era nulla, ha attraversato due guerre mondiali, ha cresciuto tre figli tra privazioni e sacrifici. I suoi figli erano la sua eredità, quelli che avrebbe lasciato sarebbero stati i continuatori del suo volere ed io, che ero il più piccolo dei suoi nipoti (perché gli altri miei cugini erano tutti molti più grandi di me) ero la sua perla preziosa che avrebbe illuminato, con la sua innocenza, quel mondo e quel futuro che non avrebbe più potuto vivere.
CONTINUA…