Che cosa ho cercato? Dove ho cercato? / La Lomellina nella storia
LA LOMELLINA[1]
Dalle origini fino al 1860
Ci poniamo sempre il dubbio da dove derivi un toponimo di una cittadina…oggi invece andremoa conoscere o a riscoprire da dove deriva il nome della nostra zona: Lomellina.
Come tutti sanno, il nome deriverebbe da Laumellum, importante centro romano posizionato sulla Via delle Gallie. Scomponendo il nome in latino però, si scopre che le origini sono precedenti, Laevum Mellum. Infatti, i Romani non assegnavano nomi a caso alle cittadine, e a quanto pare prima della loro conquista il popolo dei Levi (di origine Ligure) aveva già edificato un villaggio in questa posizione, a ridosso del torrente Agogna. Ora, torniamo a noi, se la Lomellina prende il nome da Lomello, in realtà vi è un significato più profondo e quasi sicuramente trascurato… ossia: terra dei Levi. E in effetti, tutta la zona è rinomata per ritrovamenti brutalmente definiti celtici, ma di celtico c’è ben poco, in quanto le popolazioni presenti prima dell’arrivo dei Romani erano Levi e Marici, ossia popoli Liguri. In realtà la zona durante l’epoca Romana era divisa in due parti; La zona Aliana (scritta da Plinio il vecchio in questo trafiletto: Aliana inter Padum Ticinumque amnes) celebre per il lino. E una parte chiamata Retovina, che deriverebbe dall’antico nome di Robbio, ossia Redobium. Il vero e proprio nome “Lomellina” lo si trova nel Medioevo, quando la cittadina di Lomello divenendo famosa grazie ai Longobardi, aggregò a se tutti i paesi della zona, definendo così il nome attuale. Come ogni toponimo, anche quello della nostra zona ha radici antichissime, che si fondano alle prime civiltà arrivate in questo territorio.
Gli albori della civiltà (dalle origini fino al 2000 a.C.)
La formazione del territorio
Di natura alluvionale, la Lomellina è formata da sedimenti e materiale di trasporto, convogliati in un primo tempo da grandi ghiacciai nell'epoca quaternaria e in seguito trascinati e accumulati dai corsi d'acqua delle Alpi e degli Appennini. Questi materiali, in buona parte sabbiosi, con strati arenosi, argillosi e in parte anche ghiaiosi e quindi di diverse permeabilità, si sovrapposero e mentre nel sottosuolo originarono falde ricchissime di buona acqua, la superficie rimase sabbiosa, piana, con alcuni dossi e rialti di poca elevazione.
Il Mesolitico: l'uomo muove i primi passi in Lomellina
L'uomo fa la sua comparsa in Lomellina nel Mesolitico Recente (5.500-4.500 a.C.), in quel periodo di transizione tra il Paleolitico ed il Neolitico che vede profonde modifiche nel clima (si assiste ad un progressivo aumento della temperatura, con inverni freschi ed estati prima asciutte, poi più umide), nella flora (presenza nelle pianure del querceto misto) e nella fauna (rappresentata da ridotti branchi di animali adatti alla foresta e alla macchia, quali caprioli, cervi, buoi selvatici e cinghiali).
E' chiaro che questo radicale mutamento influisce sui gruppi umani, che tendono a frazionarsi in piccole comunità mobili, per meglio adattarsi alle condizioni ambientali. Mentre alcuni gruppi di cacciatori continuano, come nel periodo precedente, la vita sulle montagne, vivendo sulle battute di caccia, altri gruppi (tra cui i primi abitanti della Lomellina) si insediano nelle valli e giungono in pianura. Il mutamento delle abitudini di vita rispetto al Paleolitico Superiore è, quindi, dovuto alle nuove attività legate alla caccia minore, alla raccolta, all'uccellagione. Se i cacciatori paleolitici erano nomadi, i mesolitici ora si adattano solo a migrazioni stagionali, fatto che dà inizio ad una progressiva sedentarietà.
L'economia dei gruppi umani mesolitici, probabilmente aggregazioni di piccoli nuclei a carattere familiare, non si basa più soltanto sulla caccia, ma comprende anche la raccolta di frutti selvatici e di molluschi d'acqua dolce e di terra, la pesca, la ricerca di nidi d'uccelli da cui prendere le uova o di tartarughe di lago, allora frequenti. La comparsa e la domesticazione del cane ha inizio proprio in questo stesso periodo. E' importante sapere che i molluschi costituivano un'importante fonte di cibo per gli uomini preistorici, che ne utilizzavano spesso i gusci (conchiglie) per ricavarne oggetti decorativi (come pendagli e collanec). Il rinvenimento dei gusci di questi piccoli animali marini, d'acqua dolce o terrestri, permette, inoltre, la conoscenza delle condizioni ambientali del periodo in cui sono vissuti: acque stagnanti, maggiore o minore umidità del terreno. La zona scelta dagli antichi lomellini come sede dei primi stanziamenti è il terrazzo destro del Terdoppio, tra Garbana (Dosso della Guardia) e Gravellona (Il Castagno). Gli uomini si stabiliscono così sui dossi, che rappresentano i punti più elevati.
E' un territorio ricco di risorgive, quindi ben adatto alle esigenze vitali dei vari gruppi: prossimità dell'acqua per bere, per scuoiare gli animali, per lavarsi, ecc. Le abitazioni vengono sistemate sui punti sopraelevati, per evitare impaludamenti e per avere la possibilità di sorvegliare la pianura circostante. Si tratta di modeste capanne, sorrette da pali e con pareti esterne costituite da frasche, canne e pelli. I gruppi Mesolitici probabilmente si stanziano stagionalmente più o meno nelle stesse località, ritornando puntualmente nello stesso luogo a certi intervalli. L'ubicazione sul terrazzo destro del Terdoppio, in una zona pianeggiante e ben esposta è, di conseguenza, adatta per passare l'inverno.
Per utilizzare tutte le risorse che la zona può dare si sviluppano nuove tecniche e si realizzano nuovi strumenti. Gli strumenti litici prodotti sono prevalentemente trapezi, usate come punte di freccia anche a tranciante trasversale, per infliggere vaste ferite, tali da dissanguare la preda o, in caso di volatili, da provocare maggior danno a causa della più ampia superficie d'impatto. Sono stati rinvenuti trapezi a Gravellona (Il Castagno) ed a Vigevano (La Cascinassa). Questi oggetti minuti vengono fissati con mastiche (resine impastate d'argilla) nelle fenditure laterali di bacchette di legno o nella parte terminale di queste mediante legacci. Vengono, inoltre, usate come ami da pesca e per fabbricare arpioni e zagaglie, simili a quelli usati, per le stesse attività, dalle popolazioni primitive attuali. I grattatoi ed i bulini (ben attestati anche nel nostro territorio) sono usati, rispettivamente, per sgrassare pelli e per incidere le ossa.
I periodi Neolitico ed Enolitico
Non ci sono dati sufficienti per conoscere le abitudini di vita degli antichi lomellini durante il periodo Neolitico (4500-3000 a.C.) ed Eneolitico (3000-2000 a.C.). Per quanto riguarda il Neolitico (caratterizzato dal passaggio dallo stadio culturale basato sulla caccia / pesca / raccolta a quello basato sull'allevamento e la coltivazione, con le innovazioni tecnologiche del cuocere la ceramica, plasmare i vasi e levigare la pietra) i reperti sono solo in pietra verde levigata, rinvenuti a Cassolnovo ed a Gravellona. E' noto, tuttavia, da ritrovamenti effettuati in villaggi non molto distanti dalla nostra zona, che la carne consumata proveniva quasi esclusivamente dall'allevamento: maiale, pecora, capra e manzo. Si apprezzava anche il pesce, mentre la caccia, in prevalenza al cervo, era di minore importanza.
I contadini macellavano dal tardo autunno fino alla primavera, da una parte perché frutta e verdura in inverno esistevano solo seccate o conservate in altro modo, dall'altra perché occorrevano molte provviste per nutrire il bestiame d'allevamento. Le mucche giovani non si macellavano praticamente mai, perché fornivano il latte ed assicuravano il ringiovanimento della mandria. Tra tutte le piante trovate, sette erano coltivate: alcuni tipi di frumento, orzo, lino, papavero, piselli (ma il frumento era il più importante). Lino e papavero erano innanzi tutto piante olifere ed il lino, inoltre, forniva fibre apprezzate. Numerose erano le piante ed i frutti selvatici raccolti: mele, bacche, nocciole, ghiande, aglio ursino, insalata di campo, maggiorana e melissa.
Un po' più documentato in Lomellina è l'Eneolitico (o Età del Rame) con reperti vari e sporadicamente sparsi su tutto il territorio. Essi vanno dall'ascia in pietra verde levigata di Vigevano (Piccolini), ai pugnali litici di Vigevano (Morsella) e di Garlasco, al pugnale triangolare in rame di S. Martino Siccomario, all'inumato di Gambolò (Cascina Cernaia), al vaso campaniforme di Garlasco (Boffalora). Sappiamo, dai dati emersi nell'Italia settentrionale, che i portatori della moda del vaso campaniforme prediligevano insediamenti all'aperto lungo il corso dei fiumi e abituati in posizioni dominanti le vie di comunicazione (proprio come è il caso di Garlasco). Avevano, inoltre, una particolare attenzione per i defunti, che si esprimeva nella realizzazione di tombe scavate nella nuda terra (con l'inumato, di solito, in posizione rannicchiata con i consueti corredi d'accompagnamento) e ricoperti da una specie di tettoia lignea.
Abbiamo anche qualche dato sulle loro attività economiche, che vanno da un'agricoltura varia ed intensiva (il frumento è il cereale più rappresentato, seguito dall'orzo, dal farro e dal miglio), ad un potenziamento dell'allevamento legato principalmente ai bovini, in quanto l'uso di questi animali è fondamentale per la tradizione dell'aratro. L'aumento in percentuale dei caprini e degli ovini sembra essere giustificato, oltre che dallo sfruttamento del latte, da una forte richiesta di lana nell'ambito delle produzioni tessili. L'abbondante aumento di semi di corniolo, insieme ad altri frutti (pruno, melo, vite selvatica, sambuco), si potrebbe collegare alla preparazione di bevande alcoliche: i vasi campaniformi usati per questo consumo, ci fanno pensare, con un pizzico di fantasia, a genti allegre e dedite a robuste libagioni.
L’età del bronzo (2000 a.C. – 900 a.C.)
Uno dei momenti più significativi della storia antica della Lomellina è l'età del Bronzo (2000-900 a.C.). In questo arco di tempo, ma soprattutto tra il 1600 e il 1200 a.C., la Lomellina è costellata da tanti piccoli centri a produzione agricola, che godono di uno straordinario benessere e che divengono centri di contatti e di scambi. Il quadro che emerge appare caratterizzato dall'esistenza di una serie di abitati di una certa consistenza, relativamente omogenei fra di loro, i cui abitanti sono quasi esclusivamente dediti alle forme primarie dell'attività produttiva, quali l'agricoltura e l'allevamento. La media e tarda Età del Bronzo, in particolare, sono per la Valle Padana e, quindi, anche per la Lomellina, un periodo di continua crescita economica e culturale.
Lo dimostra, innanzi tutto, l'espansione demografica, testimoniata dalla frequenza degli abitati di questo periodo, che non ha riscontro in nessun altro momento della preistoria, fatto che rivela una precisa situazione di incremento demografico.
La Lomellina, in questo periodo, è caratterizzata da una fitta serie di abitati, dislocati lungo i terrazzi fluviali del Ticino, del Terdoppio e dell'Agogna. Lungo il Ticino, in particolare, abbiamo un susseguirsi ininterrotto di villaggi tra San Martino Siccomario e Vigevano (Buccella), tra i quali acquista una posizione di rilievo e di sviluppo l'abitato di Garlasco (Boffalora). I villaggi lungo il Ticino hanno una durata ininterrotta di almeno trecento anni. Lungo il Terdoppio notiamo due principali concentrazioni abitative: a sud spiccano i siti di Dorno, Scaldasole, Valeggio, Zinasco, dove troviamo le fogge ceramiche più antiche e dove la vita si esaurisce durante la media Età del Bronzo. Più a nord, tra Gambolò (Cavo Busca), Garbana (Dosso della Guardia), fino a nord di Gravellona, gli stanziamenti, che hanno estensione più limitata, proseguono, però, fino all'Età del Bronzo finale. Lungo l'Agogna ricordiamo Castelnovetto-Cascina Gilardona, Ceretto-Cascina Olai e Nicorvo (Cascina Palazzo).
Il rinvenimento il Lomellina di ripostigli con oggetti di metallo integri, quali asce, collari e bracciali (a Pieve Albignola, Robbio, Torrazza di Borgo San Siro) o con pani di metallo e oggetti rotti (a Semiana) non in connessione con i centri allora abitati, fa pensare che la figura dell'artigiano metallurgico non fosse caratteristica di un determinato villaggio, ma fosse itinerante. Proprio questi ripostigli danno l'impressione che esistesse un vivo commercio di oggetti in bronzo, forgiati da specialisti in un tipo particolare di strumento. Appare chiara, inoltre, l'esistenza di vie commerciali e di comunicazione, una delle quali senza dubbio si era sviluppata lungo il corso del Ticino e del Po. Forse venivano fusi sul luogo solo gli spilloni, gli anelli ed i braccialetti, che costituiscono gli unici oggetti di ornamento dei Lomellini dell'Età del Bronzo. Una forma di fusione per spilloni, ad esempio, è stata rinvenuta nel villaggio di Gropello: un particolare interessante è che una identica forma per fusione è stata trovata nell'abitato palafitticolo di Viverone. Gli spilloni dovevano probabilmente servire per fermare tuniche e mantelli. Tutti gli altri oggetti di uso quotidiano erano prodotti generalmente sul luogo, o almeno all'interno di una piccola Comunità soprattutto l'enorme quantità di vasi di argilla, che venivano usati e continuavano a rompersi nel corso degli anni.
I vasai fabbricavano i recipienti da forme tondeggianti di argilla e li cuocevano con grande abilità. Sicuramente nelle vicinanze del villaggio era reperibile un tipo di argilla adatta a questo scopo, che veniva depurata e fatta decantare in una fossa. Come dimagrante in Lomellina veniva impiegata la sabbia, essendo un materiale di immediata disponibilità, affinché i recipienti, essiccandosi, non si spezzassero e si deformassero. Nei vasi si potevano conservare il grano ed i cereali, cuocere il cibo, far bollire gli alimenti, mangiare e bere. Molto progredito era anche l'artigianato del legno.
Ma come vivevano i nostri antenati di quel tempo? Le capanne, a pianta rettangolare o circolare, erano sempre in posizione elevata sui terrazzi fluviali o su dossi e presentavano un'ossatura di pali di legno. Erano estremamente importanti quattro pali angolari e due pali di sostegno delle travi di sommità. A seconda della grandezza, ci potevano essere ancora due pali laterali, per aumentare la stabilità delle pareti. Per la costruzione delle pareti si offrivano diverse possibilità. Poteva essere usato il sistema ad intelaiatura, nel quale travi orizzontali, o sistemate obliquamente, costituivano il collegamento tra i pali di sostegno; gli spazi intermedi venivano riempiti con graticcio e argilla. Oppure si potevano chiudere gli spazi tra i pali con assi o piccoli rami. A tale scopo era necessario che i rami fossero opportunamente provvisti di un sistema di incastri, perché non erano ancora in uso i chiodi. Le fessure dovevano essere chiuse con argilla. Lo stesso valeva anche per una costruzione interamente di tronchi d'albero, nella quale le fessure tra i tronchi venivano chiuse allo stesso modo. I pavimenti erano costituiti o da argilla battuta, talvolta su un fondo di ciottoli, oppure di assi di legno; per costruire il tetto si poteva scegliere tra la paglia, le canne palustri, gli assi di legno o persino la corteccia degli alberi. Il focolare era costituito da semplici pietre, più o meno accuratamente disposte.
Attorno al villaggio l'uomo aveva aree opportunamente disboscate per l'agricoltura. I solchi, dove venivano gettati i semi commestibili, venivano fatti con zappe in corno cervino. I semi noti in questo periodo sono: due varietà di grano, l'orzo, il miglio ed il lino. La mietitura veniva praticata per mezzo di falcetti, costituiti in un primo tempo da una massiccia armatura a semiluna di osso o di legno e da un tagliente realizzato attraverso una successione di lamelle in selce. Dalla tarda Età del Bronzo, in seguito ai progressi della metallurgia, le falci venivano realizzate interamente in bronzo.
Con l'agricoltura, l'allevamento costituiva l'attività principale del villaggio. Le specie più rappresentate erano la capra, la pecora, il bue, il maiale. Dopo essere state le fonti primarie nelle età precedenti, la raccolta, la caccia e la pesca non erano certamente passate in disuso. Tra i prodotti di raccolta vi erano il corniolo, le nocciole, le ghiande, i semi di sambuco, i frutti della vite selvatica, ecc. L'uomo poteva ricavare da essi conserve e sciroppi, bevande fermentate e medicinali. La caccia veniva praticata utilizzando l'arco di legno e le frecce di selce. Il ritrovamento di armi, arpioni, punte di freccia, testimonia la pesca lungo i fiumi.
Pesi da telaio e fusarole in terracotta confermano che l'uomo portava vesti e tessuti di lana e di lino. Poco si può dire della foggia delle vesti e dell'aspetto dell'uomo dell'Età del Bronzo, perché la conservazione dei materiali dipende dal tipo di terreno in cui essi si trovano: terreni particolarmente acidi, come sono quelli lomellini, possono distruggere tutti i materiali organici. Per poter ottenere informazioni più dettagliate dobbiamo rifarci ai ritrovamenti avvenuti nelle torbiere dell'Europa del nord, che hanno fornito maggiori esempi di conservazione dell'uomo dell'Età del Bronzo.
In Danimarca, ad esempio, sono stati rinvenuti corpi umani estremamente ben conservati, con addosso ancora i loro vestiti, gettati nelle paludi o deposti in tombe dell'antica Età del Bronzo, con sarcofaghi di tronchi d'albero. Uno dei casi più famosi di corpi rinvenuti in una torbiera è quello del cosiddetto uomo di Tollund, trovato negli anni quaranta di questo secolo. La sua scoperta destò una grande sensazione: per la prima volta si riusciva a vedere in faccia un uomo, presumibilmente dell'Età del Bronzo. Oltre a conoscerne l'aspetto e l'abbigliamento, sappiamo anche quale fu il suo ultimo pasto: un pasto vegetale, a base di erbe coltivate e no, tra cui orzo, avena e lino.
Quasi altrettanto ben conservati sono i defunti deposti entro un tronco d'albero dell'antica Età del Bronzo. Anche in questi casi si sono conservati parte dei tessuti molli, i capelli ed i vestiti: gli uomini in genere indossavano una sorta di tunica ed un mantello con cappuccio, le donne una blusa con le maniche ed una gonna lunga o, nel caso di donne giovani, corta. Una giovane donna aveva un vestito di lana marrone naturale, non tinta. Per filare venivano utilizzate una conocchia (un semplice bastone all'estremità del quale erano fissate a mo' di nastro le fibre che bisognava filare) ed un fuso costituito da una verghetta in legno appuntito alle estremità. Nell'estremità inferiore veniva infilata una fusarola, che aveva la funzione, con il suo peso, di mantenere verticale il fuso.
Con l'inizio dell'Età del Bronzo finale, lo sviluppo culturale degli antichi lomellini si arresta: assistiamo, infatti, al quasi completo abbandono di tutti i principali villaggi e dalla Lomellina scompare qualsiasi traccia di frequentazione; il motivo di questo fatto non è chiaro, ma possono solo essere azzardate alcune ipotesi, come la concentrazione di interessi economico-politici e di aggregazioni demografiche nella zona di Golasecca-Sesto Calende-Castelletto Ticino, attorno all'uscita del Ticino dal Lago Maggiore. Certo è, invece, che in quel periodo l'Europa è sconvolta da grandi mutamenti, che, culturalmente, si identificano col passaggio dall'inumazione all'incinerazione dei morti e con la graduale sostituzione del bronzo col ferro.
L’Età del ferro e il periodo celtico (900 a.C. – 100 a.C.)
Disertato dalle popolazioni per circa quattro secoli, il territorio lomellino inizia nuovamente ad animarsi nella parte II di Golasecca, nel corso del VI e poi nel V secolo prima di Cristo, grazie al ripopolamento avvenuto da nord e da ovest da parte di popolazioni celto-liguri o semplicemente celtiche: vediamo, infatti, gradualmente nascere tutta una serie di insediamenti, dislocati soprattutto lungo il corso del Ticino. Non a caso il villaggio più importante della prima Età del Ferro è situato proprio lungo il paleo alveo di questo fiume, a Santo Spirito di Gropello Cairoli. Sempre lungo il Ticino, nello stesso periodo, si sviluppa anche il commercio etrusco con i popoli transalpini: a Garlasco, infatti, a documentazione di ciò, è stato rinvenuto un bacile bronzeo di fabbrica orvietana.
Un periodo ancor più interessante nella storia antica della Lomellina, tuttavia, è la successiva seconda Età del Ferro, o Età Celtica. Non vi è praticamente un attuale comune della Lomellina nel quale non sia stato rinvenuto materiale celtico, soprattutto riguardante i secoli II e I a.C., secoli contraddistinti da una particolare floridezza economica e da un incremento demografico, simili a quelli che abbiamo visto caratterizzare l'Età del Bronzo. I principali centri di cultura celtica sono comunque: Vigevano (La Sforzesca), Gambolò (Belcreda), Gravellona, Garlasco, Gropello Cairoli, Valeggio (Cascina Tessera), Dorno, Scaldasole, Sannazzaro, Lomello, Pieve del Cairo.
Il periodo caratterizzato dalla cultura celtica ha inizio in Lombardia attorno al IV sec. a.C., quando i Celti (Galli per i Romani) varcano una seconda volta le Alpi ed invadono l'Italia settentrionale, spingendosi in breve tempo fino a Chiusi (338 a.C.) e, quindi, a Roma, che viene presa e saccheggiata (336 a.C.). Tra le varie tribù celtiche stanziatesi in Lombardia, un ruolo di rilievo occupano proprio quelle che pongono la loro sede in Lomellina. Le fonti storiche ci testimoniano la presenza di tribù nella nostra zona: secondo Plinio sono i Levi e i Marici, di origine ligure, fondatori di Pavia (Ticinum), e i Libici, fondatori di Vercelli; secondo Livio, i Libui (Libici) e i Levi; secondo Polibio, i Libici, liguri celtizzati, che si sono mossi coi Galli per fermarsi ad ovest della Transpadana.
A questi popoli si deve la primitiva colonizzazione della zona che, all'epoca, si presenta in gran parte acquitrinosa e quasi interamente coperta da fitte boscaglie: la scelta dei terrazzamenti diluviali per la fondazione del primi nuclei abitati è perciò obbligata. Numerosi centri vengono fondati sulle sponde dei corsi d'acqua, alcuni dei quali, trasformandosi in empori fortificati, sopravvivono alla successiva conquista romana. Di questi, Vigevano resta uno degli esempi più probabili.
I Celti sono alti, biondi, e di corporatura robusta. I Romani, che si scontrano con loro in battaglia, rimangono colpiti dal loro aspetto terrificante e specialmente dai loro capelli. Sembra infatti che i guerrieri celti li imbevessero di acqua mista a gesso, per indurirli e schiarirli. Li tirano in seguito indietro verso la nuca, in modo che, asciugandosi, rimangono rigidi come una criniera di cavallo. Alcuni portano la barba, ma la maggioranza di essi ha solo i baffi lunghi e spioventi.
I Celti sono senza dubbio dei buongustai, e vari ritrovamenti in Europa hanno appurato che mangiano molta carne. Gli ossi animali trovati nelle cittadine celtiche (gli "oppida") e nelle tombe, dove i ricchi defunti ricevono come offerta pezzi di carne, indicano chiaramente che la selvaggina non ha alcuna importanza per l'alimentazione. Per la vita quotidiana dei Celti, il ruolo del cinghiale è più importante come divinità che nella cucina, mentre sono stati rinvenuti soprattutto resti di maiale, di pecora, di capra e di manzo.
Ma i Celti sono conosciuti soprattutto come grandi amatori di vino. Gli esportatori ed i mercanti di vino greci e romani fanno affari con i ricchi celti. Chi non può permettersi vino beve birra ed una specie di miscuglio al miele, per ubriacarsi. Da Diodoro Siculo sappiamo che: "Amavano straordinariamente il vino che i mercanti portavano e lo bevevano così avidamente che, divenuti ebbri, cadevano in un profondo sonno o in impeti di furore. Così molti mercanti italiani, spinti dalla loro abituale cupidigia, non mancavano di approfittare dell'amore dei Galli per il vino. In cambio di un'anfora di vino ricevevano un giovane schiavo, barattando così la loro bevanda con un coppiere". Tra l'altro, il sabbioso terreno lomellino è particolarmente adatto alla coltivazione della vite ed in Lomellina, all'inizio del II sec. a.C., è stato elaborato un particolare recipiente, che ha la funzione di contenere proprio il vino: il vaso a trottola. Da qui, poi, il vaso si è diffuso in Lombardia e nei territori limitrofi, ma con una particolare concentrazione nei territori situati lungo il corso del Ticino e dei suoi affluenti. La sua sparizione si ha con la romanizzazione, attorno agli anni 40-30 a.C., quando viene sostituito dall'olpe romana. Spesso il corredo per la libagione è accompagnato dalle coppe in ceramica a vernice nera, che nel II-I sec. a.C. vengono fabbricate anche in Lomellina.
Prendendo in considerazione l'armamentario del guerriero di alto rango, possiamo constatare che è composto da svariati elementi. La spada, simbolo di coraggio e di autorità, reca talvolta una punzonatura figurata ed è sostenuta da una catena. La lancia ha la punta ed il puntale in ferro. Tra le armi difensive vi sono l'elmo e lo scudo (ovale, rettangolare o esagonale), con umbone centrale per riparare la mano. Completano il corredo il coltello, le cesoie, il rasoio e, talvolta, l'ascia. Il "carnyx" è una grande tromba da guerra, tenuta verticalmente per portare il suono più lontano e per atterrire il nemico.
Gli elementi sui quali basare una ricostruzione del vestiario nella seconda Età del Ferro in Lomellina sono piuttosto scarsi. Ipotizziamo l'indumento base maschile e femminile semplice come una tunica, stretto in vita da una cintura in tessuto che, a volte, è chiuso da anelli in ferro o in bronzo. Le fibbie con bottone rialzato servono probabilmente ad agganciare delle cinture non di tessuto, ma di cuoio. Il mantello viene agganciato sulla spalla sinistra mediante una grossa fibula, che nel nostro territorio è generalmente quella di tipo Pavese; sono attestate. Però, anche grosse fibule in ferro (a Gambolò e Gropello) e le grandi fibule a corpo fogliato (a Dorno, Lomello e Valeggio).
L'elemento più diffuso è di gran lunga proprio la fibula, poiché riassume in sé valore sia funzionale che decorativo. La loro collocazione è sulle spalle o sul petto. Quando sono utilizzate in un certo numero, vengono disposte a coppia su varie altezze, fino alla vita. Tra gli anelli digitali, vi sono quelli a bocca di pesce, quelli a castone ed a vera. Numerosi sono i braccialetti rinvenuti negli scavi lomellini, persino in pasta di vetro ed in argento. Essi vengono indossati all'omero ed al polso. Non si può parlare in Lomellina di vere e proprie collane costituite da un sufficiente numero di vaghi: generalmente si tratta di vaghi in pasta vitrea, o di semplici anellini in bronzo o in ferro, che probabilmente sono appesi al collo mediante un legaccio.
Nell'abbigliamento femminile compaiono più o meno accessori metallici identici a quelli maschili: gli ornamenti, però, sono più ricchi. Una donna celta è in grado di indossare senza difficoltà più di una quindicina di fibule. Le donne celte sono alte e robuste: hanno i capelli lunghi, che portano sciolti o intrecciati. Tengono molto al loro aspetto: si tingono le sopracciglia di nero e si scuriscono le labbra e le guance con succo di bacche di sambuco. Di solito le donne dedicano l'intera giornata a cucinare, a curare la conservazione dei cibi, a filare, a tessere e ad allevare bambini. Tessono le stoffe dai colori vivaci su dei telai verticali. I fili dell'ordito, attaccati in alto, sono tenuti in posizione dal peso di pietre forate o da blocchetti d'argilla (pesi da telaio).
Anche nella seconda Età del Ferro gli insediamenti in Lomellina sono per lo più ancora localizzati sui dossi posti lungo i paleo alvei fluviali. Ogni tribù ha il proprio villaggio. Ceramica di tipo domestico è stata recuperata in vari siti di Gravellona, a Gambolò (Belcreda) ed a Gropello (Santo Spirito). Le capanne sono semplici costruzioni di pali e di tronchi d'albero, che poggiano direttamente sul suolo: le fessure vengono chiuse con l'argilla. Nell'area celtica a nord ed a ovest delle Alpi, invece, nello stesso periodo (soprattutto a partire dalla seconda metà del II sec. a.C.) si determina una tendenza verso insediamenti di grandi dimensioni, dall'aspetto di città (chiamate dai Romani "oppida"). Occupano una grande superficie in un luogo di facile difesa, sono circondati da un muro di pietre, da terrapieni e da palizzate in legno. All'interno vi sono botteghe artigianali di ogni genere ed il santuario. L'economia dei villaggi lomellini è, invece, a carattere esclusivamente agricolo-pastorale. Se, come ha scritto Tito Livio, sono stati l'abbondanza di vino e delle messi che hanno spinto i Galli a valicare le Alpi e ad invadere l'Italia, la Lomellina deve senza dubbio essere stata da loro giudicata un territorio idoneo alle aspettative. Gli invasori, quindi, si sono gradualmente trasformati in agricoltori ed in pastori, pacificamente stanziati su un territorio fertile.
Dopo la I guerra punica (264-241 a.C.), 50.000 fanti e 25.000 cavalieri Celti valicano le Alpi e vengono dapprima fermati in Etruria, a Talamone, nel 225 a.C., e definitivamente sconfitti da Marco Claudio Marcello a Casteggio (Clastidium) nel 222 a.C.; dopo questa battaglia avviene l'occupazione della Lomellina da parte dei romani. Il passaggio di Annibale nella II guerra punica (218-201 a.C.) ridà l'indipendenza alle tribù galliche, alleate coi cartaginesi. Infatti, nel 218 a.C., dopo l'incredibile traversata delle Alpi coi suoi elefanti, Annibale costeggia a sinistra il Po, giunge in Lomellina e sconfigge l'esercito romano del console Scipione, che gli si para incontro sul Ticino; secondo molti storici la battaglia avviene in una spianata fra Garlasco e Gropello; certo è che prima dell'evento Annibale soggiorna a Dorno.
Anche dopo la rotta di Annibale a Zama, i Galli non cedono se non sotto l'urto delle armi; con tre battaglie, nel 197, 194 e 191 a.C., i romani hanno la meglio sulle popolazioni stanziate in Lomellina. Tuttavia non è ancora dominazione: Roma, come sempre, preferisce penetrare lentamente, stabilire del "foedera" (patti d'alleanza) coi vari popoli. Pochi anni dopo, si profila la prima minaccia di invasione barbarica, quella dei Cimbri e Teutoni scesi dalla Danimarca; nel 101 a.C., nei "campi Raudii" situati fra Candia e Robbio, avviene lo scontro tra Caio Mario e queste popolazioni, scese in Italia con mogli, figli ed armenti. La lotta è terribile: 52.000 romani affrontano 250.000 barbari e li sconfiggono. Restano sul campo migliaia di morti e di morenti i quali vengono gettati nel fiume agonizzanti. Di qui si vuole appunto derivare il nome Agogna da "agonìa", in ricordo di quelle terribili giornate.
La dominazione dei Romani (100 a.C. – 476 d.C.)
Quando Roma inizia la penetrazione nell'Italia settentrionale, ha come strumento principale la deduzione di colonie. L'espansione ha uno scopo sia strategico, sia di penetrazione economica e culturale. Le deduzioni coloniali sono accompagnate, oltre che da centuriazioni (cioè da suddivizioni del territorio), dal progressivo perfezionamento ed accrescimento della rete stradale. Nell'89 a.C. (con la "Lex Pompeia de Civitate") viene estesa alle popolazioni a nord del Po la condizione giuridica della quale godono le città di diritto latino (il cosiddetto ius latii): tutti i centri di un certo rilievo vengono costituiti in colonie (anche se fittizie, cioè senza deduzione di coloni) ed urbanisticamente ristrutturati.
Anche Pavia (Ticinum) diventa forse colonia nell'89 a.C., assumendo gradualmente la fisionomia urbana ancor oggi riconoscibile. Giulio Cesare, nel 49 a.C. (con la "Lex Roscia"), concede agli abitanti delle nuove colonie a nord del Po la piena cittadinanza romana. Cesare, infatti, riversa sulla Cisalpina tutta la sua intraprendenza ed il suo ingegno: a lui si devono anche i piani regolatori delle città, la centuriazione e la bonifica delle campagne e l'ordinamento amministrativo e giuridico. Nel 42 a.C. la Gallia Cisalpina cessa di essere giuridicamente considerata come una provincia e viene definitivamente unita al resto d'Italia. Anche "Ticinum" diventa un "municipium" e viene iscritta alla tribù "Papiria".
La Lomellina viene completamente romanizzata in modo incruento solo nel 25 a.C., in età augustea, data nella quale facciamo cronologicamente terminare la seconda Età del Ferro, anche se numerosi elementi tendono a sopravvivere ancora all'inizio del I sec. dopo Cristo; in particolare, la Lomellina, conserva, per molto tempo, le proprie tradizioni culturali, soprattutto l'uso celtico dell'incinerazione. Alla fondazione dell'impero romano fanno seguito, per la nostra terra, alcuni secoli di pace e di benessere economico.
Augusto divide tutta l'Italia settentrionale in undici regioni. La Lomellina rientra nella XI Regio Transpadana, con capitale Milano (Mediolanum). Ampiamente dibattuto è stato ed è il problema della avvenuta o meno centuriazione in Lomellina: sono state rilevate tracce di centuriazione solo nelle zone della Lomellina settentrionale. Tuttavia, mentre si riteneva che solo la zona di Cassolnovo fosse stata interessata dal limite inferiore della centuriazione novarese, ora è possibile asserire, con buona probabilità, che tale limite, tra Terdoppio e Ticino, giungesse almeno fino ad una zona a sud di Vigevano, localizzabile poco prima della Sforzesca. Dovrebbe quindi essere spostato a questa linea il confine tra il territorio di "Ticinum", i cui cittadini, come già detto, sono iscritti alla tribù "Papiria", e quello di "Novaria", i cui cittadini sono assegnati alla tribù "Claudia". Purtroppo non abbiamo alcuna testimonianza epigrafica che attesti ciò.
Sembra tuttavia di poter individuare alcune coincidenze tra i "limites" delle divisioni agrarie e le più antiche vie del territorio. Il pullulare di ritrovamenti archeologici di età romana, non solo lungo i terrazzi fluviali (caratteristica, come abbiamo visto, delle età precedenti) ma su tutto il territorio tra Terdoppio e Ticino, è da collegare alla centuriazione ed a nuovi tracciati viari. Sembrano scorrere lungo il percorso, ad esempio, la strada vecchia di Cilavegna, di Vignazza, la strada tra Mulino del Conte e la Buccelletta, la via Tocca, la strada vicinale del Valer, la strada della Castellana, la strada delle Tre Colombaie, la strada Nuova, la strada di Cascina Cavalli, la strada di San Pietro o vecchia di Parona, la strada di San Marco o vecchia di Mortara e, forse, la strada i Lasagna tra la Sforzesca e Fogliano. Molte attuali cascine insistono sul tracciato della centuriazione. Il cardine in senso ver<ticale di tutto il sistema deve ritenersi la linea naturale di scorrimento, a ponente del Ticino, che proseguiva, da un lato verso la cascina Remondata e la direzione di Milano, dall'altro verso la cascina Borzolo e, poi, la direzione di Mortara-Cozzo. Nei pressi della cascina Borzolo, infatti, sono stati rinvenuti due enormi pozzi romani.
Una carta della Lomellina di allora ci mostra la presenza di strade principali e di centri di notevole importanza. Tre vie consolari, provenienti da Pavia, la attraversano: la Francisca, la Romea e la Settimia. Alla "mutatio" (luogo di avvicendamento logistico di salmerie e deposito di vettovaglie) di Dorno (Durnae), la Settimia si stacca per dirigere al Sempione; alla "mutatio" di Cozzo (Cuttiae), la Romea muove verso il Piccolo San Bernardo e la Francisca prosegue verso il Moncenisio. Lomello (Laumellum), sede di una importante "mansio" (luogo di sosta ed accampamento delle legioni) e Cozzo sono i municipi, cioè i due centri amministrativi della Lomellina; Pulchra Silva è Mortara, Retovium è Robbio.
Probabilmente il territorio è organizzato in alcuni "vici" di una certa grandezza, dotati di medie e grandi proprietà, posti sulle vie di transito (come Gropello Dorno, Valeggio, Lomello, Cozzo, Garlasco, Belcreda, Viginticolumnae, ecc.) ed in numerosi insediamenti minori, riferibili a strutture di appoderamento minuto. I romani lasciano guarnigioni militari in accampamenti semipermanenti, denominati dapprima "emporii", muniti di fortificazioni e dislocati lungo i tracciati da cui avranno poi origine le maggiori vie di comunicazione, ancor oggi in uso. Tracce di abitazioni importanti sono state rinvenute, per ora, solo a Lomello, Gropello e Garlasco. Dall'età augustea il territorio lomellino diventa anche zona di espansione demografica, sia con lo stanziamento di gruppi veterani (ex soldati che, o acquistano a basso prezzo, o ricevono terre in compenso del servizio militare prestato), sia con l'arrivo di elementi centroitalici immigrati, che danno l'impulso ad attività commerciali e artigianali e che si affiancano alle popolazioni preesistenti. In questo modo, gli empori si rafforzano, dando origine ai meglio organizzati "castra" (accampamenti permanenti).
Proprio ad elementi medioitalici immigrati si deve l'introduzione in Lomellina (relativamente all'età augusteo-tiberiana), della moda di adornare la barella funebre con applicazioni in terracotta. Sulla barella funebre di legno viene posto il cadavere per essere cremato. Le applicazioni in terracotta (testine, bustini, medaglioni a basso rilievo raffiguranti volti umani ritratti di profilo, protomi di animali, ecc.) che vengono ottenuti a stampo da matrici, ornano testate laterali di queste barelle. Queste terrecotte non sono diverse per conformazione e per collocazione da quelle decorazioni in metallo lavorato, avorio, ed osso intagliato, che sono applicate su tetti, lettighe o altri mobili come ornamento.
Rimane di primaria importanza l'agricoltura. La fertilità della Cisalpina ci viene più volte ricordata dalle fonti storiche. Polibio dice che la produzione di grano e di vino è così abbondante, che i prezzi di questi generi erano molto inferiori a quelli praticati altrove. Prodotti in quantità straordinaria sono anche orzo, miglio e panico. Sempre secondo questo storico, la frequenza delle foreste e la quantità delle ghiande sono talmente propizie all'allevamento dei suini, che la valle del Po rappresenta la zona di produzione più considerevole di carne suina per la necessità sia dei privati che dell'esercito.
Anche Plinio il Vecchio pone tra i prodotti della Transpadana al primo posto vino e frumento, seguiti dalle rape, favorite dal clima freddo e nebbioso. Abbiamo visto che la Lomellina produceva vino già in età celtica e che, anzi, aveva elaborato un particolare contenitore della bevanda: il vaso a trottola. Questo recipiente in età romana viene sostituito dall'olpe. Famosa è la statuina in terracotta raffigurante un vignaiolo, rinvenuta a Gropello Cairoli in una tomba dell'età augusteo-tiberiana. Tracce di viticci sono state anche trovate entro un'olpe di età augustea a Cassolnovo.
La Lomellina sembra essere stata soprattutto famosa per la linicoltura, favorita dal terreno sabbioso. La "Regio Aliana" (da identificare con la Lomellina), è collocata al terzo posto in Europa per la produzione di lino. Plinio sostiene: "In Germania le donne lavorano il lino in fosse ed in sotterranei. Così accade anche in Italia, nella regione Aliana, tra Po e Ticino". Un brandello di tessuto di lino è stato rinvenuto ad Ottobiano, in una tomba di età augustea.
Per quanto concerne l'abbigliamento, notizie sul modo di vestire dei Romani ci vengono fornite dall'ampia documentazione delle arti figurative e delle testimonianze scritte. Gli scavi, inoltre, restituiscono in genere una notevole quantità di oggetti in osso, bronzo, vetri e metalli vari relativi all'ornamento della persona, o usati per la toilette e per il trucco. In Lomellina non ci si discosta molto dalle usanze generali del periodo. Il vestito viene modellato sulla figura con cinture e drappeggi. Appare, quindi, chiara l'importanza delle fibule anche in età romana, che, variamente ornate, chiudono e fermano i lembi delle stoffe. Gli uomini indossano in casa la tunica, sopra la quale mettono la toga, anch'essa di lana, ma lunga ed ampia, drappeggiata attorno al corpo. Ovviamente vi sono differenze nei particolari, in relazioni alle classi sociali, alle professioni ed ai mestieri. Ai piedi vengono calzati sandali con suole chiodate: iniziamo a trovare resti di borchie per calzature, in Lomellina, solo a partire dalle tombe di età augustea.
Da una testimonianza letteraria, sappiamo che questa è, invece, la situazione dei vestiti per gli schiavi: "Una tunica di tre piedi e mezzo ed un saio ogni due anni. Ogni volta che assegni ad uno la tunica od il saio, prima ritira quelli usati, per confezionare con essi i centoni (cioè vestiti fatti di pezze). Conviene dare ogni due anni un buon paio di zoccoli". Le donne indossano la stola, una lunga tunica. Sopra questa, per uscire, indossano la palla, una specie di toga di colore vivace, con un lembo della quale si coprono il capo. Le donne ricche amano i profumi, i cosmetici, i gioielli. Nelle tombe lomelline, il corredo femminile comprende collane di pasta vitrea turchese, di ambra, di bronzo, anelli, braccialetti, lo specchio, numerosi balsamari, spatole per l'applicazione di cosmetici, pinzette, ecc. Sono presenti, quindi, anche tutti gli accessori per il trucco. Si dipingono in bianco (con gesso e biacca) sulla fronte e sulle braccia, in rosso (con ocra) sui pomelli e sulle labbra, in nero (con fuliggine o con polvere di antimonio) sulle ciglia ed attorno agli occhi. Gli uomini, invece, portano solo anelli: a vera o con castone. Per le acconciature la moda cambia con la stessa rapidità di oggi. Attraverso la piccola coroplastica lomellina, possiamo seguire l'evoluzione delle pettinature femminili: dalle trecce avvolte a cercine sulla fronte (ad imitazione di Livia e di Ottavia), a complicatissimi riccioli ostentati nell'epoca dei Flavi.
La vita giornaliera in Lomellina, per la maggior parte della popolazione, deve essere assai semplice, come si conviene ad un ambiente agricolo-pastorale. Orge e banchetti, descritti nella cronaca scandalosa dell'epoca, si praticano solo in una piccola parte dell'alta società. I commensali mangiano generalmente sdraiati di sbieco, con il gomito sinistro appoggiato ad un cuscino ed i piedi rivolti verso destra. Tengono il piatto con la sinistra e mangiano con le dita. La tovaglia entra in uso nel I° sec. d.C. Il pranzo (cena) importante è suddiviso in tre momenti. Nel primo vengono serviti gli antipasti, durante i quali si beve il "muslum" (bevanda a base di vino e miele). Poi vi è la cena vera e propria, con varie portate. Infine il dessert, che comporta cibi secchi e piccanti, per eccitare la sete: si beve, infatti, in abbondanza. Tra la cena ed il dessert vengono collocate sulla tavola le statuette delle divinità protettrici della casa ed in loro onore si fanno libagioni con vino puro. Nelle abitazioni si provvede all'illuminazione con lucerne in terracotta e in bronzo. Pochi sono generalmente gli oggetti di cui ciascun commensale dispone a tavola: una ciotola larga e bassa, oppure un piatto capiente, il bicchiere o la coppa, non necessariamente in ceramica comune, oltre all'indispensabile cucchiaio.
Tra la ceramica comune sono abbondantemente testimoniati in Lomellina: i tegami, le olle, i mortai, i bicchieri, i vasi per conservare gli alimenti, le olpi, le coppe. Le anfore, invece, sono utilizzate per il trasporto di alimentari: vino, olio, "garum" (salsa di pesce); vngono adoperati anche i servizi da mensa in ceramiche più fini (terra sigillata, a pareti sottili, ceramiche firmate, invetriate, ecc.), in vetro, in metalli anche preziosi (rame, bronzo, argento). La frequenza degli oggetti in vetro, è proprio uno degli aspetti caratteristici dei corredi lomellini, soprattutto femminili, del I sec. d.C. La facilità di approvvigionamento della materia prima (la sabbia bianca) non esclude sul nostro territorio l'esistenza di vetrerie locali.
Nel III secolo si può collocare l'apparizione anche in Lomellina, ed in forma ovviamente clandestina, del Cristianesimo. Con l'editto di Costantino (313), e l'elevazione di Ambrogio a vescovo di Milano (374), anche la pace religiosa viene assicurata. Dopo il grande sviluppo agricolo, economico ed artigianale del I ed in parte del II sec. d.C., comincia, anche in Lomellina, un graduale processo di decadenza.
Gli anni che precedono la caduta dell'Impero Romano (476 d.C.) sono traumatici per la Lomellina, che subisce l'onda d'urto delle invasioni dei barbari, popoli di razza germanica o euroasiatica, di proverbiale malvagità, che invadono e mettono a "ferro e fuoco" la nostra terra. Dapprima i Visigoti di Alarico (401 e 409), poi gli Unni di Attila (452), i Vandali di Genserico (455) e gli Eruli, comandati da Odoacre il quale, nel 476, depone l'ultimo imperatore d'occidente, si fa nominare re e porta la capitale a Pavia.
[1] Da www.lomellina.net il sito internet più completo dedicato alla Lomellina, alla sua storia e al suo territorio.
L’Alto Medioevo (476 d.C. – 773 d.C.)
La vicinanza della capitale Pavia potrebbe far pensare ad un periodo di pace per la nostra terra, ma non è così: infatti, nel 479, gli Ostrogoti di Teodorico, con una marcia velocissima, occupano tutta l'Italia settentrionale. E solo due anni dopo, nel 491, scendono dal nord i Borgognoni e fanno delle nostre campagne e di Milano il deserto; quel poco di vita che rimane, o che risorge, è dovuto alla carità dei vescovi, primo fra tutti il santo vescovo Lorenzo, di Milano.
Gravi lutti reca all'Italia la guerra tra Goti e Bizantini; la sospirata pace viene, dopo centocinquant'anni di stragi, con l'arrivo, nel 568, dei Longobardi, con a capo Alboino, che scendono in Italia e pongono la capitale a Pavia. Questi provengono dalla Pannonia, assieme, come narra Paolo Diacono, a molti Cepiti, Bulgari, Sarmati, Pannoni e Norici. Ventimila Bulgari si stabiliscono sulle sponde del Ticino (da Galliate fin quasi a Pavia) e vi fondano il "Comitato di Bulgaria", con capitale Vigevano. In questo periodo crescono le foreste, già estese dopo l'invasione dei Goti, tanto che la Lomellina è coperta da una smisurata coltre di boschi. Le città sono composte in prevalenza di case costruite con creta e vimini e coperte di paglia.
Per la Lomellina ha inizio un periodo glorioso. Sotto la dominazione dei Longobardi, infatti, il centro di Lomello assume grande importanza tanto da estendere il proprio nome all'intero territorio; viene anche munito di un forte castello ed è difeso con solide mura; inoltre viene fatta sede di un "graf" (conte) ed è capoluogo amministartivo della regione. Proprio qui, con ogni probabilità, avviene il celebre incontro che prelude alle nozze tra la regina Teodolinda, vedova di Autari, ed il Duca di Torino, Agilulfo. La chiesa di S. Maria Maggiore viene da lei beneficata con donazioni ricchissime e a Lomello fonda due monasteri.
Proprio Lomello, come ne fanno testimonianza documenti del X secolo, è sede di una "iudicaria". Infatti, in una torre dell'antica rocca, oggi scomparsa, nel 629 viene imprigionata Gundeberga, figlia di Teodolinda e Agilulfo, e sposa di Arioaldo; accusata di tradimento nei confronti del marito, viene liberata dopo tre giorni, grazie alla conclusione favorevole del duello tra il suo paladino Pittone ed il suo accusatore (il respinto Adalulfo), in quello che è il primo "giudizio di Dio" celebrato in Italia.
E proprio la Lomellina è destinata ad essere teatro della fine del regno dei Longobardi: infatti, nel 773 Carlo Magno, ripudiata la moglie longobarda Ermengarda, scende in Italia dal Moncenisio tentando di aggirare alle Chiuse l'esercito longobardo del re Desiderio. Sfuggito all'aggiramento dell'esercito franco, attende il nemico a Mortara, fino ad allora chiamata "Pulchra Silva" o Silvabella, già residenza di caccia di re Rotari. Lo scontro avviene il 12 ottobre 773 nel luogo ove ora sorge l'Abbazia di Sant'Albino (nella foto a lato) ed è giornata veramente epica, vinta, dopo una vera ecatombe di Longobardi, da Carlo Magno.
Il Medioevo (773 - 1250)
Per la nostra terra si apre un nuovo periodo di pace. Il re franco introduce in Lomellina il regime feudale, suddivide il territorio in "Comitati" affidati ai Conti, e Lomello è il capoluogo del Comitato di questo nome, appartenente alla marca di Ivrea. Dal secolo IX quindi si afferma la presenza dei Conti di Lomello che, nella persona di Riccardo di Langosco, ottengono l'investitura della zona da Carlo Magno. A loro si deve la rinascita della Lomellina. Conti di Lomello sono patrizi pavesi, discendenti di un leggendario Manfredo del ciclo carolingio. Il capostipite di questa famiglia, potentissima dal X al XIV secolo, è Cuniberto.
Ma un'altra minaccia incombe ancora sulla Pianura Padana; come cinquecento anni prima, da est scendono le orde ungheresi, appena dilagate dai Carpazi nella Pannonia. Il primo assalto, nel 915, è respinto; il secondo, nel 924, fa terra bruciata: Pavia e la Lomellina sono messe a saccheggio; Vigevano, che gode di una certa agiatezza per l'industria della lana, viene ridotta alla più grande miseria. Passata la tormenta, è di nuovo la Chiesa che accoglie i dispersi: il marchese Adalberto raccoglie a Breme i monaci benedettini dell'abbazia di Novalesa, in fuga dalle scorrerie dei Saraceni nella Val di Susa. Nel 926 qui viene fondato l'Ordine Bremetense, destinato a diventare una potenza, con cento dipendenze, esercitando grande influenza sotto il profilo politico e religioso ed occupando il terzo posto tra le abbazie più importanti dell'Impero.
La penetrazione religiosa che si verifica tra X e XI secolo è di decisiva importanza per lo sviluppo economico della Lomellina. Numerosi ordini monastici arrivano nella regione. Oltre ai Benedettini, sono i Cistercensi quelli che lasciano le maggiori tracce. Alla loro opera, infatti, si devono i primi interventi di bonifica del territorio, finalizzati non solo al recupero delle terre paludose, ma anche al contemporaneo reimpiego delle acque reflue. I terreni acquitrinosi vengono drenati e prosciugati: le acque in eccesso smaltite da una serie di canali che, nel volgere di alcuni secoli, vengono tracciati attraverso l'intera pianura lomellina favorendo lo sviluppo dell'agricoltura, ancora oggi una delle primarie attività economiche della zona. In questo periodo viene introdotto il prato a marcita[1] che assicura una produzione foraggera costante nell'arco dell'anno. Ed inoltre, a partire dal X secolo, attraverso la Lomellina iniziano a transitare numerosi pellegrini, in viaggio verso Roma percorrendo l'importantissima strada che collega la "città eterna" con le regioni del nord Europa, la cosiddetta "Via Francigena" o "Romea".
Nel 951 ha inizio una nuova epoca, una delle più felici per l'Europa ed anche per la Lomellina. Il 23 settembre, l'imperatore Ottone I di Sassonia è incoronato a Pavia re d'Italia e, da quel momento, monasteri, nobili famiglie e, più tardi, piccoli borghi risentono dei benefici imperiali. Nel 969 il borgo di Cassolo è ceduto ai conti di Novara; Dorno è data in feudo ai conti di Lomello; nel 979 Gropello è ceduta al monastero della Ss. Trinità di Pavia; nel 977 Ottone II dona il borgo di Suardi al vescovo di Pavia. L'importanza che riveste la Lomellina presso l'imperatore è ben attestata dalla nomina, nel 990, da parte di Ottone III, di Cuniberto, conte di Lomello, a conte palatino, cioè tra i massimi consiglieri del Sacro Palazzo. La dinastia dei conti palatini si ramificherà nei secoli e i vari conti (non palatini) prenderanno il nome della località a loro infeudata; i più potenti saranno i Lomello Langosco, poi semplicemente conti di Langosco. Molto tempo dopo, nel 1496, Massimiliano Sforza rinnoverà i privilegi che i conti palatini di Lomello hanno sulle loro terre sparse in Piemonte, Emilia e Lombardia.
A seguito di questa nuova situazione, i conti palatini estendono in breve il loro dominio a gran parte dei centri abitati, con l'intento di fare della Lomellina un piccolo stato indipendente. Tale strategia determina la necessità di disporre, su tutto il territorio controllato, di una serie di opere fortificate per la difesa del comitato dagli appetiti delle dinastie circostanti. E' questo il periodo della nascita di numerosi castelli, rocche, torri di guardia, capillarmente distribuiti: fortificazioni destinate in gran parte a scomparire nel corso delle vicende belliche successive.
Alla fine del X secolo la carta politica della Lomellina è ben delineata: la parte settentrionale (Cassolo, Gravellona) è infeudata ai conti o vescovi di Novara; la Lomellina centrale è semindipendente dei conti palatini di Lomello, con oasi sparse infeudate a chiese esterne: Gropello e Suardi, come detto, a Pavia, e Garlasco al monastero di San Salvatore a Pavia. Nel secolo XI incominciano a definirsi i feudi originati dai conti palatini: Palestro, Castelnovetto e Langosco feudo dei Langosco, Sannazzaro feudo dei Sannazzaro. Si fondano nuove abbazie, come quella cistercense di Acqualunga (poi passata in commenda ai vescovi di Vigevano) o come Erbamara, in quel di Cergnago, passata nel 1170 ai Vallombrosani e poi commendata. La "Constitutio de feudis", proclamata nel 1037 da Corrado II il Salico, non fa che confermare la situazione in Lomellina, quasi identica a quella che abbiamo delineata. Una costituzione, però, non ferma il corso degli avvenimenti: altre famiglie, scese dagli Appennini, più precisamente dalla Garfagnana, si affacciano alla pianura pavese e alla Lomellina; prima fra tutte quella dei Beccaria, che avranno un ruolo fondamentale, da Pavia al Sesia, fino in epoca sforzesca.
Il disinteresse degli imperatori germanici per più di un secolo (XI e XII), è uno dei tanti motivi del sorgere dei liberi comuni. Si viene così a creare una catena di risentimenti, se non di odio, tra comune e comune: basterà l'apparire in Italia di un imperatore per far scaturire precisi allineamenti, chi con l'imperatore (ghibellini), sperandone i favori, chi per la libertà comunale (guelfi). Inspiegabile appare l'attacco portato nel 1140-1145 da Pavia (ghibellina) contro Guidone di Lomello; inspiegabile perchè nel 1154, all'apparire del legittimo sovrano, Federico I Barbarossa, i conti palatini non possono che essere al fianco dell'imperatore, il cui atteggiamento verso la Lomellina è, tutto sommato, benevolo. Ai Confalonieri, suoi fedeli, infeuda Candia, Cozzo, Cassolo e Cerano; Gambarana ai conti di Lomello, creando la stirpe dei conti di Gambarana; a Rufino Langosco dà il titolo comitale aggiungendovi Mede; ai conti di Lomello infeuda Olevano, creando la stirpe degli Olevano; ai Sannazzaro-Tortona conferma il feudo di Sannazzaro; Gambolò è infeudata ai conti di Biandrate; solo Cairo e la vicina Pieve subiscono l'ira del Barbarossa.
Nel 1155 i Pavesi dilagano in Lomellina, e, per vendetta contro l'ingerenza dei Conti di Lomello sulla loro città, assediano e distruggono il castello di Lomello. Questi si uniscono allora in lega con Milano e Vercelli e si ritirano a Langosco assumendo il nome di quel paese. Nel 1157 i milanesi, dichiarata guerra a Pavia, scendono a Lomello e la riedificano in pochi mesi, mentre l'imperatore Federico Barbarossa, loro nemico, è in Germania; ma quando questo torna in Italia, Lomello viene di nuovo distrutta dai pavesi e l'imperatore, nel 1164, decreta che non può più essere ricostruita. Al comune pavese viene riconosciuta la giurisdizione sui paesi della contea lomellina.
Partito l'imperatore, la vendetta di Milano si scatena su Pavia; in Lomellina, solo Castelnovetto fa le spese della sua fedeltà ghibellina. Il Barbarossa scenderà poi in Italia altre quattro volte, nel 1158, nel 1163, nel 1167 (questa discesa provoca il giuramento di Pontida e la controffensiva dei comuni) e nel 1174; quest'ultima volta è fatale a Federico I: nella giornata di Legnano (26 maggio 1176) la supremazia imperiale crolla e i comuni possono darsi liberamente il loro statuto; nel 1183 la pace di Costanza sancisce queste libertà. Dopo la sconfitta di Legnano, l'impero può solo emanare carte di privilegi per legittimare l'uno e l'altro libero comune; e ogni comune sarà sempre in guerra coi vicini per la supremazia. La vendetta di Milano si abbatte sulla Lomellina a due riprese, nel 1213 e nel 1222; tranne la fedelissima Vigevano, i milanesi devastano quasi tutte le rocche tra Sesia, Ticino e Po: Candia, Galliavola, Gambolò, Lomello, Sartirana, Semiana, Torreberetti e Valeggio.
I conti palatini di Lomello si riducono al grado di una potente famiglia, la più potente nell'orbita pavese, dividendosi nei rami patrimoniali. Ne derivano così i conti di Robbio, di Mede, di Albonese, di Nicorvo, di Rosasco e ovviamente di Langosco. A quest'ultimo ramo viene concesso di riacquistare, nella seconda metà del secolo XIII, la signoria pavese in avvicendamento coi rivali Beccaria, altri latifondisti dell'agro lomellino. Il capostipite della famiglia dei Beccaria è Lanfranco di Gropello, eletto nel 1180 vescovo di Pavia.
La restante parte del XIII secolo trascorre senza gravi traumi per la Lomellina. A Milano la volontà popolare ha affidato il governo del comune a un suo fedele capitano, Filippo della Torre (1263-1265) ed il suo successore, Napo (1265-1277) più che alle conquiste militari pensa al dominio interno: è il passaggio dal libero comune alla signoria. Con Napo termina la signoria dei Torriani e subentra quella dei Visconti.
Nell'Estimo del 1250 le terre del comune di Pavia vi figurano divise in Lomellina, oltre Po e terre tra Milano, Lodi e Pavia. Ciascuna di queste regioni è vigilata da un Console di giustizia. Le terre nominate sotto la voce "Lumellina" sono 140 e la regione è in un periodo di grande espansione.
I Visconti e gli Sforza (1250 – 1500)
Alla fine del XIII secolo, Filippone Langosco si fa attore diretto dell'alleanza coi Visconti e coi Torriani di Milano, con il marchese del Monferrato e con Roberto d'Angiò; suo figlio Riccardino si fa signore di Pavia. Nel 1311, i Visconti diventano vicari imperiali con Matteo, che, nel 1315, entra in Pavia e, dopo un feroce combattimento, ha la meglio su Riccardino, che cade mortalmente ferito. La città viene quindi presa dai Visconti, che assumono il titolo di signori perpetui, con Azzone, nel 1330; possono governare da sovrani a pieno titolo e svolgere una politica intesa a rafforzare il loro dominio territoriale. La Lomellina, marca di confine con il pericoloso e potente marchesato del Monferrato, è la prima delle terre viscontee ad essere per così dire "regolata", sia con vere e proprie conquiste, sia con la concessione di feudi ai nobili più fedeli alla signoria milanese; conseguenza vistosa di questa nuova politica è la fine delle autonomie comunali, peraltro inesistenti in Lomellina, se si eccettua il caso (che non è lomellino ma milanese) di Vigevano.
Le storie milanesi narrano delle numerose guerre combattute sulle terre lomelline. In lotta con Pavia percorrono e saccheggiano queste terre nel 1307 e 1312; è del 1314 uno scontro tra i due schieramenti ad Albonese. Nel 1319 viene eletto podestà di Vigevano Luchino Visconti, che dà inizio alla ricostruzione delle antiche rocche lomelline, alcune delle quali andate distrutte nel corso degli eventi bellici, altre cadute in rovina dopo l'abbandono da parte dei Conti Palatini. Nel 1323 Marco Visconti invade di nuovo la Lomellina, come pure fa nel 1326 il marchese Malaspina, duca di Tortona.
Spente le ultime resistenze pavesi, ha inizio la sistemazione amministrativa-feudale della Lomellina: nel 1355 la terra di Castelnovetto è affidata ai Beccaria; Dorno a Luchino dal Verme (i Dal Verme sono i veri conquistatori e colonizzatori viscontei della Lomellina dopo il passaggio, non del tutto proficuo, di Marco Visconti); Gravellona, già dei Barbavara, è presa nel 1361 dai soldati viscontei; Lomello (riedificata dai Visconti nel 1381) riprende il suo gran posto di antica capitale e nel suo castello, nel 1391, Gian Galeazzo Visconti riceve gli ambasciatori francesi di Carlo VI; Palestro, già dei Langosco, è assegnata nel 1335 ai Beccaria e a questi l'imperatore Carlo V assegna, nel 1355, la terra di Sant'Angelo; Sartirana, dominio dei conti locali ramificati dai conti di Lomello, è presa nel 1380 da Jacopo Dal Verme; Semiana, che i Langosco tendevano a portare nell'orbita del Monferrato, viene assegnata nel 1399 ai Barbavara, ritornati in auge presso la corte di Milano.
Dal 1348 al 1380 nella valle padana si svolge un grandioso duello tra due grandi signorie: gli Scaligeri di Verona e i Visconti di Milano. Attorno ad essi giostrano, ora alleati, ora nemici il duca di Savoia ed il marchese del Monferrato. Giovanni di Monferrato nel 1369 occupa Garlasco ma, costretto dai Visconti ad abbandonarlo, dà alle fiamme il castello e fa distruggere tutte le opere di fortificazione.
Con Galeazzo II e Bernabò Visconti si riafferma il potere visconteo sulla regione: la Lomellina diventa il luogo preferito per gli svaghi della corte e per l'esercizio dell'attività venatoria, favorita dalla ricchezza di selvaggina che brulica nelle foreste di querce e frassini e che è costituita da cervi, daini, lepri, conigli, cinghiali ed ogni sorta di volatili.
La stabilità e l'unità della Lomellina, conquistate con le armi e con la diplomazia viscontee, vengono messe in pericolo alla morte di Gian Galeazzo, avvenuta nel 1402. Nominalmente assegnata a Filippo Maria, conte di Pavia, in realtà la Lomellina viene conquistata con dura mano dal vero signore di Pavia, Facino Cane: nel 1404 le soldatesche pavesi devastano Albonese, feudo dei Langosco, Cairo, Frascarolo, Mede, Olevano, Pieve. Nella dissoluzione dello stato visconteo fa la sua apparizione in Lomellina anche il marchesato del Monferrato: nel 1404 il marchese Teodoro II prende Castelnovetto e Lomello. Una seconda spedizione di Facino Cane è proprio diretta, nel 1407, contro Lomello e una terza, nel 1409, contro Mortara.
Governato nominalmente dal giovane, crudele tiranno Giovanni Maria Visconti, in realtà, percorsa dalle soldatesche di Jacopo Dal Verme, di Carlo Malatesta e di Facino Cane, il ducato di Milano è in piena anarchia. Il primo accenno di rinnovamento è dato dalla scomparsa di Giovanni Maria, assassinato il 16 maggio 1412 da una congiura di nobili. Rimane unico erede del ducato il pavido Filippo Maria, chiuso in Pavia e quasi prigioniero di Facino Cane; con l'aiuto di questi e del conte di Carmagnola, Filippo Maria, il 16 giugno 1412 entra, acclamato duca, in Milano. Per la Lomellina ricomincia un periodo, tutto sommato tranquillo, di ridistribuzione dei feudi, secondo la più o meno provata fedeltà ai Visconti. Dorno si dà nel 1428 a Filippo Maria, Cozzo pure si mette al ripari del biscione; Langosco nel 1421 è tolto agli omonimi feudatari e data ai Carmagnola; Lomello, ripresa dai Beccaria, si lega a Pavia; Mortara dal 1418 invoca il dominio diretto del duca; Ottobiano è assegnata, nel 1432, ai Porro; Semiana è dal 1436 feudo dei pavesi Del Maino.
La morte di Filippo Maria e la fine della dinastia viscontea (1447) portano qualche turbamento anche in Lomellina; si affacciano i duchi di Savoia e qualche terra è temporaneamente occupata, come Castelnovetto, Sant'Angelo e Semiana; anomalo è il caso di Vigevano che, come libero comune, aderisce all'Aurea Repubblica Ambrosiana, trascinando anche Cilavegna.
La vittoria di Francesco Sforza (11 marzo 1450) segna per Milano e per tutto il ducato l'inizio dell'epoca più felice, più serena, più ricca di opere d'arte; la luce della corte sforzesca si riverbera potentemente anche in Lomellina, ove troviamo, mandati da Milano, uomini di primo piano. La dominazione sforzesca segna il periodo di massimo splendore per la nostra terra. Gli Sforza e la loro corte costruiscono e ripristinano numerosi castelli con funzione non solo difensiva ma anche residenziale. L'edilizia urbana ne riceve un impulso notevole e nel volgere di pochi anni molti borghi si sviluppano più di quanto sia avvenuto in un intero millennio. Molte famiglie nobili milanesi scelgono, sull'esempio della corte ducale, di costruirsi una residenza in campagna: sorgono così numerosi palazzi signorili.
Sotto Francesco e Galeazzo Maria Sforza avviene la solita inevitabile ridistribuzione dei feudi, ma l'epoca è tale che ogni feudo diviene una piccola, splendida corte, sempre prescindendo dalla gran dimora di Vigevano, ove vivono e governano i duchi incoronati. Queste nuove infeudazioni comprendono: Alagna, ai Malaspina di Fortunago (1466); Cairo, agli Isimbardi di Milano (1467); Candia, ai Fisorini di Alessandria, poi ai Barbiano di Belgioioso, infine ai Gallarati Scotti, signori di Cozzo (1465); Castellaro dè Giorgi, confermato ai Biraghi (1454); Cozzo, ai Gallarati Scotti (1465); Frascarolo, direttamente agli Sforza; Gropello, ad un Visconti (1470); Lomello, ai Crivelli (1450); Mortara, a Ludovico il Moro, nominato conte di Mortara ancora fanciullo (1467); Ottobiano, prima ai Dè Rossi, poi ai figli di Galeazzo Maria Sforza (1467) i quali lo vendono ai Biraghi (1481) e a questi rimarrà fino all'avvento dei Savoia; Palestro, ai Borromeo (1452); Pieve del Cairo, ai Crotti; Sannazzaro, ai Malaspina (1466); Sartirana, al segretario ducale Cicco Simonetta (1452), poi a Bonifacio Guasco (1494); Semiana, direttamente agli Sforza (1454).
Durante il ducato di Ludovico Maria Sforza detto il Moro (nato nel castello di Vigevano), nuove colture vengono introdotte in Lomellina, in particolare quella del riso, già tentata da Galeazzo Maria attorno al 1470. Grande diffusione ha la coltura del gelso, le cui foglie sono indispensabili per l'allevamento del baco da seta, anch'esso introdotto in età sforzesca. La produzione serica acquista rapidamente importanza, diventando, per quasi quattro secoli, la maggiore fonte economica della zona. Proprio a seguito di questo sviluppo dell'agricoltura vengono costruiti nuovi complessi rurali, le cascine, per i quali si utilizza la classica tipologia "a corte chiusa".
[1] La marcita è una pratica colturale che si fa risalire al secolo XII. Introdotta in Lombardia dai monaci Benedettini e Cistercensi che, con abnegazione e fatica, bonificarono fontanili e paludi e risanarono vaste aree della zona dove sgorgano le risorgive, essa si ottiene riversando per scorrimento sul terreno l'acqua di queste fontane naturali, la cui temperatura si aggira attorno ai 10 gradi centigradi. I terreni beneficiati dalla stabilità termica delle acque che fuoriescono dal suolo a temperatura costante, permettono annualmente fino ad otto tagli di erba, fornendo anche nei mesi più rigidi dell'inverno prezioso cibo fresco per gli allevamenti zootecnici. I bellissimi tappeti verdi delle marcite che, specie in inverno, suscitano ammirazione, sono altresì indispensabile fonte alimentare per anatre selvatiche, folaghe e gallinelle durante le rigide giornate invernali e le nevicate. L'abbandono dell'allevamento del bestiame da parte dei contadini ha portato a trascurare le marcite, che rischiano di scomparire dal paesaggio di queste campagne.
Le dominazioni straniere (1500 – 1700)
Nel 1500 Luigi XII re di Francia, sceso in Italia per combattere contro Ludovico il Moro, lo sconfigge nella battaglia di Novara, prendendo possesso anche della Lomellina, che unisce al regno francese fino al 1512. E proprio quando Milano cade sotto l'urto di Gian Giacomo Trivulzio, comandante delle armate francesi di Luigi XII, l'alta nobiltà Lomellina è tutta favorevole al sovrano d'oltralpe; questi viene fastosamente accolto dai Gallarati Scotti a Cozzo; Gambolò è governata prima dai Trivulzio, poi dal cardinale di Sion Mattia Shiner e poi dai Litta Visconti di Arese; Bonifazio Guasco si affretta a vendere il dominio di Sartirana al governatore francese, il cardinale Rohan d'Amboise.
Dai primi di maggio alla fine di giugno di quell'anno i francesi, incalzati dai veneziani e dagli svizzeri, devono abbandonare le fortezze del milanese. Solo il novarese rimane nelle loro mani ed il 6 giugno 1513 si scontrano con gli svizzeri di Massimiliano Sforza e vengono sconfitti. I francesi si prendono la rivincita dopo due anni. Morto infatti Luigi XII, gli succede Francesco I, di 22 anni, che conduce personalmente la guerra in Italia. A Melegnano, nel 1515 contro gli svizzeri, vince la cosiddetta "battaglia dei giganti" e riconquista col trono d'oltralpe anche le terre lomelline.
Il fiscalismo francese riduce rapidamente il popolo del Ducato di Milano alla estrema miseria. Approfitta della situazione l'imperatore Carlo V, che raduna un esercito composto da truppe imperiali e pontificie, comandato da Prospero Colonna, presso Reggio Emilia. Il 9 novembre 1521, superando a Cassano d'Adda il ponte tenuto dai francesi, li mettono in fuga e liberano Milano.
Il 4 aprile 1522 Francesco II Sforza riprende possesso delle sue proprietà, ma l'impero considera ormai devoluto a sé il Ducato di Milano. La Francia ritenta l'occupazione del Ducato nel 1523 mandando un esercito che occupa Novara e assedia Milano, ma a metà novembre è costretto a ritirarsi ad Abbiategrasso. Gli imperiali, dopo alcuni mesi di logoramento, decidono di passare il Ticino e si stanziano a Gambolò. I francesi occupano allora Vigevano e Mortara dove possono ricevere le vettovaglie dal Monferrato e da Novara. Il duca Francesco Maria di Urbino con soldati veneziani, collegati con gli imperiali di Carlo V, avanza allora verso Garlasco con lo scopo di interrompere l'affluire delle vettovaglie all'esercito imperiale; ne assalta il castello e lo saccheggia dopo aver fatto prigionieri 500 francesi. Poi avanza verso San Giorgio, piegando successivamente verso Pieve del Cairo per accostarsi a Sartirana, in posizione volta ad impedire l'arrivo delle vettovaglie agli imperiali. Forte di 2.000 fanti e dell'artiglieria ne espugna la rocca difesa da 600 fanti. I francesi si muovono per soccorrere Sartirana, ma nel cammino intendono quanto accaduto e si fermano a Mortara. Di qui, considerato l'incalzare dei nemici, si ritirano prima a Novara e poi in terra di Francia, protetti dagli svizzeri. La spedizione, durata sette mesi, ha dato risultati negativi, ma la guerra viene ripresa l'anno successivo e questa volta conclusa definitivamente con la sconfitta dei francesi a Pavia e la prigionia dello stesso re Francesco I.
Questi fatti non portano nulla di nuovo in Lomellina, se non la cessione del castello di Sartirana agli Arborio di Gattinara, conti di Sartirana, che lo terranno fino al 1934.
Nel 1530 Francesco II Sforza ottiene da Carlo V l'annessione di Vigevano al ducato di Milano e da papa Clemente VII l'elevazione del borgo a rango di città e la creazione della diocesi di Vigevano. Anche questo fatto riguarda solo la città sforzesca e l'amministrazione religiosa di Mortara e di Gambolò; per il resto la Lomellina continua ad essere parte della diocesi di Pavia e, per piccole porzioni di territorio, delle diocesi di Novara e Vercelli.
L'andirivieni degli eserciti di Francesco I di Francia e di Carlo V d'Asburgo causa qualche guasto in Lomellina, ma sono scaramucce alle quali la nostra terra è da sempre abituata. Nel 1524 Garlasco, tenuta dai francesi, è presa e distrutta dagli spagnoli; Mortara è saccheggiata dai francesi nel 1527. Nel contempo, Carlo V infeuda le terre di Tromello ai conti Stampa di Milano e quelle di Velezzo ai Biglia, pure milanesi (1535); poco più tardi il castello di Villanova passerà ai Gonzaga di Mantova.
Nel 1535 il ducato, e con esso la Lomellina, con la morte di Francesco II passano definitivamente agli spagnoli e rimangono a quella monarchia per quasi due secoli, fino al 1713. In questi due secoli si ripete, pressapoco, la stessa situazione di mille anni prima, all'epoca dei Longobardi: benché la Lomellina sia stabilmente inglobata in uno stato (il ducato spagnolo di Milano), la sua posizione di marca di confine la espone ai continui passaggi di eserciti tra spagnoli, francesi, piemontesi e poi austriaci.
Le condizioni economiche del ducato sono disastrose. Nell'inverno del 1529 una relazione di ambasciatori veneziani annota che "tra Vercelli e Pavia per cinquanta miglia tutto è deserto, i campi sono tornati selvaggi. Vigevano è un deserto, Pavia fa pietà". Da segnalare che, nel corso delle sue visite di carità, S. Carlo Borromeo visita la parrocchia di Mortara nel 1578.
Nel 1612, alla morte di Francesco Gonzaga, duca di Mantova e marchese del Monferrato, il duca di Savoia, Carlo Emanuele I, avanza pretese di successione; si accorda con Enrico IV re di Francia, ed ottiene il suo impegno militare contro la Spagna in Italia. Dal canto suo, il governatore di Milano, il conte Fuente de Ezevedo, raccoglie un forte esercito in Lomellina. Ne viene una guerra che si conclude nel 1617, lasciando il tutto come prima. Ne va di mezzo solo Palestro, che è investita dalle truppe savoiarde nel 1614. Queste scorribande di eserciti nella Lomellina dal 1614 al 1617 spiegano la presenza in questo periodo di molti disertori spagnoli e napoletani.
La seconda guerra di successione per il Monferrato, nel 1627, che vede invertite le parti, non è nemmeno registrata in Lomellina, e nulla cambia. Più pesanti gli effetti della guerra, ormai endemica, tra Francia e Spagna. Nel settembre 1629 l'esercito alemanno, proveniente dalla Valtellina, si congiunge a quello spagnolo a Milano. Il capitano Rambaldo, con i tedeschi, assale Mantova e il capitano Spinola, con gli spagnoli, Casale. Questi, con 16.000 fanti e 4.000 cavalieri mescolati di spagnoli, tedeschi, napoletani e lombardi, dirigendosi nel Monferrato, sostano in Lomellina e vi lasciano la peste. Anche la Lomellina viene quindi colpita dalla peste del 1630, descritta dal Manzoni nel romanzo "I Promessi Sposi".
Nel 1635 il duca Vittorio Amedeo di Savoia stringe, con la Francia, un'alleanza con i duchi di Parma, di Modena e di Mantova. A lui viene dato il comando di tutto l'esercito alleato, ma non ottiene che 8.000 uomini dalla Francia. Sapendo che gli spagnoli sono bene armati, vorrebbe desistere, ma il Richielieu riesce ad indurlo ad aprire le ostilità il 20 settembre 1635. I due eserciti si fronteggiano a Valenza, e parecchie volte i francesi scendono in Lomellina ad occupare o demolire fortezze e castelli. Memorabile l'assedio avvenuto tra il 27 ed il 30 marzo 1638 con cui gli spagnoli assalgono e mettono in fuga 1.000 cavalieri francesi asserragliati nella fortezza di Breme; a metà maggio dello stesso anno la flotta spagnola sbarca a Finale 2.000 soldati napoletani, che si dirigono in Lombardia impadronendosi di Valenza e Mortara.
Nel 1644 i francesi occupano Vigevano. Due anni dopo questa viene espugnata dagli spagnoli che devono accorrere a Mede contro francesi, savoiardi e parmigiani che la stanno mettendo a sacco. Palestro viene incendiata dai francesi nel 1639 e nel 1655; quando i franco-piemontesi pongono l'assedio a Pavia, mezza Lomellina è interessata dal passaggio degli eserciti; Celpenchio viene assediato dal duca di Modena, alleato dei franco-piemontesi, nel 1658; nello stesso anno, Langosco viene devastata dai francesi e, nel 1659, dagli spagnoli; truppe delle diverse parti si accampano a Sannazzaro; Semiana subisce il saccheggio dei piemontesi nel 1655.
Nel 1656 Valenza cade di nuovo in mano ai francesi, ma i ripetuti tentativi dei franco-piemontesi di entrare in Lomellina attraverso Frascarolo fortificata, vengono respinti dagli spagnoli. Il 28 maggio 1658 il generale piemontese Villa ritenta l'impresa. Il governatore spagnolo di Milano, il conte Fuensaldagna, non avendo forze sufficienti per difenderle, distrugge tutte le fortificazioni lomelline affinché il nemico non le prendesse.
La pace dei Pirenei, del 7 novembre 1659, pone fine alla guerra tra francesi e spagnoli, durata 23 anni; come conseguenza, Valenza e Mortara ritornano agli spagnoli, che restituiscono ai piemontesi Vercelli.
La desolazione della Lomellina, percorsa per quasi mezzo secolo da eserciti in guerra, si aggrava talmente da determinare forti correnti emigratorie; Lomello conta nel 1689 solo 550 abitanti. Nello stato spagnolo si possono distinguere il Contado di Vigevano ed il Principato di Pavia da cui dipende la Lomellina. Fra le nobili famiglie lombarde che vi hanno possedimenti vanno citate i Gattinara a Dorno, i Crivelli a Lomello, gli Stampa a Parona, i Confalonieri a Ferrera, i Cattaneo a Mortara, i Maino a Mede e i Della Pergola a Mortara.
La Provincia di Lomellina è amministrata da una congregazione eletta da 25 comuni e composta da un Sindaco generale sedente presso il Governo di Milano, un Sindaco forense, quattro Consiglieri - di cui uno di Mortara - e un Cancelliere. Nel 1675 comincia ad uscire una gazzetta regolare.
In seguito alla vendita di Casale, possesso di Carlo Gonzaga, nel 1688 scoppiano le ostilità fra la "lega d'Austria", costituita da Inghilterra, Spagna, Olanda, Svezia ed Austria, contro la principale potenza di allora: la Francia di Luigi XIV, il "re sole". Il duca di Savoia, Vittorio Amedeo II, che allo scoppio della guerra si era posto sotto la protezione francese, nel 1690, temendo l'ingerenza francese, con politica spregiudicata cambia campo e si schiera con le potenze della lega. Avuta poi Casale dal re di Francia, gli si allea per gettarsi contro gli spagnoli; Langosco, nel 1696, è di nuovo campo di battaglia e Luigi XIV è costretto ad abbandonare la partita italiana. Il celebre ed inutile trattato che il 7 ottobre 1696 i diplomatici francesi e austriaci firmano a Vigevano presso il convento domenicano rappresenta la prima sconfitta subita dal grande re. La Francia deve cedere Pinerolo ai Piemontesi e smantellare la fortezza di Casale, mentre gli spagnoli e gli austriaci si impegnano a ritirare le proprie truppe dall'Italia.
I Savoia (1700 – 1789)
Trattato inutile, quello del 7 ottobre 1696, perchè già l'anno successivo, mentre il trattato di Rijswijk suggella la pace di Vigevano, scoppia la guerra di successione spagnola, che segna l'apparire sul teatro italiano dell'Austria e, ancora una volta, l'inversione delle alleanze: questa volta Piemonte, Francia, Spagna e Baviera si uniscono contro la nuova potenza, cui si uniranno, successivamente, Inghilterra e Olanda. In Italia Vittorio Amedeo II ottiene il comando dell'esercito franco-ispano-savoiardo, ma i generali francesi si rifiutano di obbedirgli. Il re entra astutamente di nuovo in trattative con l'Austria che, in un trattato segreto firmato a Torino l'8 settembre 1703, gli promette Valenza e la "provincia che dicesi Lumellina". Una delle condizioni è però che le fortificazioni di Mortara siano rase al suolo a spese del duca.
Nel 1706 i franco-ispanici si accingono ad occupare una dopo l'altra le fortezze piemontesi e pongono l'assedio a Torino. Al comando degli imperiali scende in Italia, in aiuto a Vittorio Amedeo II, il principe Eugenio di Savoia; marciando alla destra del Po, mira a congiungersi con le milizie del duca. Francesi e spagnoli, muovendo con la cavalleria da Pavia per Gropello, Lomello e Mede passano il Po a Valenza con l'obbiettivo di difendere la linea del Tanaro. Abbandonano però questo piano ed il 23 agosto muovono su Torino. L'esito della gloriosa battaglia del 7 settembre 1706, combattuta sotto le mura di Torino, vede infine vincitore il principe Eugenio. Questi, il 28 settembre 1706, assedia il castello di Milano (cadrà il 20 marzo 1707): è la fine del dominio spagnolo in Italia e la fine dell'alleanza franco-piemontese, perchè i Savoia, sempre attenti ad estendere il proprio stato, comprendono che è meglio appoggiarsi ai nuovi venuti che agli antichi alleati. Inizia così la dominazione austriaca.
Il distacco del Piemonte dalla coalizione franco-spagnola ha il prezzo sancito con il trattato del 1703 con l'Austria: la cessione al Piemonte di alcune terre dell'ex ducato milanese e cioè Alessandria, Valenza, la Lomellina e la Valsesia. La nobiltà pavese protesta presso il principe Eugenio, che in un rapporto del 23 febbraio 1707 all'imperatore d'Austria si fa portavoce di questa opposizione. Le carte dell'antico principato ticinese vengono portate dai decurioni pavesi a Gropello e solo con l'uso della forza consegnate a Torino. Nei primi mesi del 1707 l'Austria consegna a Vittorio Amedeo II la Lomellina ed il 18 marzo le comunità lomelline prestano giuramento di fedeltà e omaggio al nuovo signore. Al momento del pagamento della cambiale, Vittorio Amedeo di Savoia alza il prezzo: si aggiungano Vigevano, il Vigevanasco e terre nel Novarese. Le trattative finiscono a Vienna, perché i Milanesi sono tutt'altro che disposti a privarsi di così fertili terre. Da Vienna le trattative tornano a Milano e la materia del contendere è proprio il Vigevanasco: la conferenza diplomatica si apre nel gennaio 1712 a palazzo Marino, sono previste tre sedute settimanali. Dopo sei mesi il Savoia la spunta: Vigevano e la Lomellina passeranno allo stato sabaudo, il che diventerà effettivo dopo la firma del trattato di Utrecht, del 17 aprile 1713, per quanto concerne la Lomellina (Mortara ne è il naturale capoluogo); tuttavia, malgrado la promessa, Vigevano rimane all'Austria.
Passano vent'anni e una nuova guerra quella di successione di Polonia, sconvolge l'Europa e l'Italia; questa volta Carlo Emanuele di Savoia si schiera contro l'Austria, sperando in qualche acquisto: per quasi tre anni (1733-1736) Milano è governata dai franco-piemontesi, poi tornano gli austriaci. L'ultima guerra di successione, quella austriaca, scoppiata nel 1740, dà modo a Carlo Emanuele III di Savoia di togliere all'Austria l'ultima "foglia di carciofo" (così era definita la politica sabauda) lombarda ad ovest del Ticino: con il trattato di Worms, del 13 settembre 1745, anche Vigevano passa alla casa Savoia.
Dopo l'unione con il Piemonte, la Lomellina mantiene per lungo tempo i suoi statuti. Una congregazione di cittadini, tra i più qualificati della regione, si raduna nel castello a Mede e stabilisce le imposte. Questo sistema economico-finanziario dura fino al 1775, quando viene soppressa la congregazione e la Lomellina viene aggregata per la parte amministrativa all'Intendenza di Alessandria fino all'anno 1779. Poi, fino al 1814, fa parte del Dipartimento di Agogna e, cessato il governo francese in Italia, viene aggregata all'Intendenza di Novara.
Sotto i Savoia può svolgersi un'illuminata politica riformistica. Quella più importante di Vittorio Amedeo II in campo economico è la perequazione del tributo fondiario, da conseguirsi con la compilazione del catasto. L'opera, terminata nel 1730, viene estesa alla Lomellina nel 1770. Il 30 ottobre 1723 viene inoltre istituito nella Lomellina l'ufficio dell'"insinuazione", ovvero del registro. A regolare questa istituzione sono stabiliti tanti piccoli centri, detti luoghi di "tappa" a cui devono far capo i paesi limitrofi. Tappe sono istituite a Lomello, Mede, Pieve del Cairo, Gropello, Garlasco, Dorno e Ottobiano. Con un successivo decreto dell'11 febbraio 1743 vengono tutte concentrate nell'unica tappa di Mortara.
Dal 1745 al 1747 eserciti franco-ispanici e austro-savoiardi percorrono di nuovo la Lomellina. I primi, forti di 70.000 uomini, scendono dall'Appennino e puntano su Tortona, i secondi tentano, senza riuscirci, di passare il Po a Frascarolo, per entrare in Lomellina "paese grasso e fertile, donde si forniscono di vettovaglie" come si annota. La pace di Aquisgrana del 18 ottobre 1747 pone fine alle ostilità e per le terre lomelline seguono 44 anni di pace, che permettono finalmente di vedere campi razionalmente coltivati, l'aprirsi di nuovi canali ed il netto miglioramento delle condizioni di vita della popolazione.
La rivoluzione francese (1789 – 1820)
La bufera rivoluzionaria, scatenatasi nel 1789 in Francia, ha una grave ripercussione anche in Italia, specialmente nella regione piemontese; la prima conseguenza è quella di spaventare i sovrani d'Europa, logico quindi che i nemici di un tempo diventassero alleati di fronte al pericolo comune.
Il re Vittorio Amedeo III viene spinto dai fuoriusciti francesi a rifiutare l'invito alla dichiarazione di neutralità; l'alleanza tra questi e l'imperatore d'Austria Francesco II è firmata a Milano il 22 settembre 1792. L'assemblea legislativa francese ordina allora al generale Montesquieu di invadere la Savoia e al generale Anselme di occupare Nizza. In quest'ultima milita il capitano d'artiglieria Napoleone Bonaparte. In ambedue queste provincie i piemontesi sono obbligati a cedere terreno ed immensa è la costernazione per le disfatte militari subite.
Arrivano intanto a rinforzo alcuni reggimenti austriaci dalla Lombardia e parecchi cittadini corrono volontariamente alle armi costituendo milizie urbane. La Lomellina dà 1.200 volontari incorporati nel reggimento Casale. Viene nominato comandante delle truppe piemontesi il generale Colli di Vigevano, che è al servizio dell'Austria. Nel 1794 le truppe repubblicane si impadroniscono dei versanti delle Alpi verso la Savoia e giungono fino al colle di Tenda.
Al principio del 1795 le condizioni del Piemonte sono molto gravi: l'erario esausto, il popolo scontento e l'esercito abbattuto e sfiduciato. Il re, più che mai avverso alla Francia, impone la tassazione del 6% su tutti i contratti di affitto, colpendo in questo modo le masse degli agricoltori. Si aggiunge un'imposta sul focatico e sui servi e si procede alla vendita dei benefici semplici di nomina regia e dei beni delle confraternite.
Si riprendono però le azioni militari e la campagna d'Italia viene affidata a Napoleone, che, malgrado i suoi 27 anni, riesce a marciare rovesciando sperimentati feld-marescialli e soldati veterani. Napoleone riporta la vittoria di Mondovì, cui segue l'armistizio di Cherasco del 27 aprile 1796, col quale il re, abbandonando l'alleato austriaco, concede alla Francia la libera disponibilità delle strade e delle fortezze del Piemonte. Il 10 maggio è la giornata di Lodi, cioè la vittoria di Napoleone nella prima campagna d'Italia. La Lomellina viene percorsa dai francesi mandati a rafforzare l'esercito in Italia. Assicurata poi la pace con l'Austria col trattato di Campoformio del 26 ottobre 1797 e inaugurata a Milano la repubblica Cisalpina il 9 luglio dello stesso anno, pare ai francesi giunta l'ora di far crollare il trono della casa Savoia. Le truppe francesi, su ordine del Direttorio, iniziano ad occupare militarmente tutto il Piemonte il 27 novembre 1798. Il re Carlo Emanuele abdica il 9 dicembre 1798 ed in Piemonte viene costituito un governo provvisorio, dapprima di 15, poi di 20, ed infine di 25 membri. In realtà il comando rimane nell'ambasciata di Francia. Tutta l'amministrazione viene organizzata sul sistema francese, ed il Piemonte, perdendo la sua indipendenza, è aggregato alla Repubblica.
La Lomellina fa parte del Dipartimento dell'Agogna. In ogni paese viene piantato l'"albero della libertà" e sono abbattuti a colpi di martello tutti gli stemmi reali degli uffici pubblici. La regione più dissanguata dalle taglie, requisizioni e sequestri da parte dei francesi è la Lomellina. Tra i pionieri delle nuove teorie politiche in Lomellina troviamo l'ingegnere Magenta di Zerbolò, l'avv. Corbella di Mortara, l'avv. Pollini di Alagna e i vigevanesi Cotta Morandini, Fusi e Ferrari Prosa, tutti futuri rappresentanti del Dipartimento di Alagna ai comizi di Lione.
I governanti si adunano il 1° febbraio 1799 e, dopo lunga discussione, deliberano di raccogliere i voti per l'annessione del Piemonte alla Francia. Si ottiene la risposta affermativa di oltre 800 comuni, quelli di Lomellina compresi. Il Piemonte viene diviso dal commissario francese Musset in quattro dipartimenti: Eridano, Sesia, Stura e Dora. Nel frattempo, mentre Napoleone è in Egitto, Russia e Austria si alleano e spediscono un esercito di 52.000 soldati in Italia, comandati dal generale Suvarov. Battuti i francesi in marzo e aprile tra l'Adige ed il Mincio, e battuti ancora a Cassano d'Adda, questi si ritirano concentrandosi tra Casale e Valenza. Il 28 aprile 1799 gli austro-russi entrano in Milano e raccolgono forze in vista dell'attacco decisivo; il 5 maggio 1799 un corpo di truppe russe comandato dall'arciduca Costantino è accampato presso Dorno e Lomello. Intanto un corpo di truppe alleato ha passato il Sesia e dalla Lomellina entra nel vercellese, e un altro corpo passa alla destra del Po. Il generale Moreau, comandante dell'esercito francese, ridotto a 20.000 uomini, si ritira verso Genova. Alla notizia della sconfitta della battaglia di Novi del 15 agosto 1799, il commissario Musset arresta 57 aristocratici sospetti di cospirazione. Tra questi il marchese di Breme, che viene tradotto prima a Grenoble, poi a Digione quale ostaggio.
Nella primavera del 1800 Napoleone, di ritorno dall'Egitto, con una marcia inusitata fino ad allora nella storia militare, dal 15 al 20 maggio, superate le Alpi, invece di cercare le truppe del generale austriaco Melas disseminate nel basso Piemonte, punta su Milano e, dopo la vittoria di Turbigo, la occupa il 2 giugno. Nel castello di Lomello si tiene un consiglio di guerra presenti il feld-maresciallo austriaco Mulas, il generale russo Suvarov ed il principe russo Costantino. Napoleone, passato il Po, si scontra con gli austriaci nella pianura di Marengo il 14 giugno 1800, riportando una memorabile vittoria, che lo rende padrone dell'Italia fino al Mincio e pone fine alla presenza austro-russa in Italia.
In quegli anni l'aspetto della Lomellina è miserabile: una carestia e le rapine dei soldati l'hanno ridotta in estrema miseria. Si aggiunge anche una prolungata siccità per cui, come si trova nelle testimonianze d'epoca, si è "poco prodotto o quasi niente la meliga o i fagioli ed il raccolto del grano è stato scarsissimo".
Napoleone il 7 novembre 1800 ordina il distacco dal Piemonte di tutto il territorio a sinistra del Sesia, Lomellina compresa, e l'unione di queste province alla Repubblica Cisalpina, che dopo i comizi di Lione, in cui fu approvato dai delegati italiani lo statuto napoleonico, prende il nome di Repubblica Italiana. Ai comizi sono delegati 8 membri della Lomellina fra cui il marchese di Breme, che è presidente del Consiglio del Dipartimento di Agogna. La Lomellina viene staccata dal Piemonte con decreto del 2 aprile 1801 e segue le sorti della Repubblica Italiana, fino a che Napoleone assume il titolo di imperatore dei francesi e re d'Italia il 15 marzo 1805. E' questo un periodo di tranquilla floridezza.
Napoleone, sconfitto il 4 maggio 1814, fugge all'isola d'Elba e gli austriaci occupano Milano il 25 maggio 1814. Vittorio Emanuele I ritorna a Torino e la Lomellina e Vigevano, che prima fanno parte del Regno Italico, tornano a riunirsi al Piemonte.
L'Austria, dopo la caduta di Napoleone, fa attraversare alle sue truppe il Ticino ed occupa la Lomellina e poi il Piemonte. Da alcuni documenti si viene a sapere l'intenzione dell'Austria di annettersi le province alla sinistra del Sesia e solo un'abile politica diplomatica presso la Russia permette il ritorno al Piemonte delle provincie di Novara e della Lomellina.
L'Austria tiene a lungo una guarnigione in Piemonte, nei paesi prossimi al Ticino. Le sue truppe causano i soliti guai e gravi danneggiamenti. Non mancano le proteste del re piemontese ed i reclami presso le potenze estere ottengono che le truppe sgombrassero finalmente nel marzo 1816 il territorio del regno.
In Lomellina dopo il trattato di Vienna e fino al 1817 imperversa una vera carestia e miseria generale dovuta all'inclemenza del clima e all'imprevidenza dello stato.
Il re sabaudo chiede al pontefice che il confine ecclesiastico coincida con quello politico del suo stato, ovvero che le 69 parrocchie della Lomellina siano staccate dalla diocesi di Pavia dalla quale dipendono e unite a quella, minuscola, di Vigevano. Ciò viene concesso nel 1817. Si compie così un processo di "piemontesizzazione" della Lomellina (anche la diocesi di Vigevano, generata da Milano, è inserita nella metropolitana piemontese di Vercelli) che, se da una parte lascia maggior libertà ai fautori dell'imminente Risorgimento, dall'altra rallenta lo sviluppo economico della regione.
Verso l’unità d’Italia (1820 – 1860)
Dopo i moti rivoluzionari del 1821 gli austriaci, per desiderio del re, mantengono guarnigioni su una linea militare che, passando per Voghera, Tortona, Valenza e Casale e terminando a Vercelli, mantengono le comunicazioni col Lombardo-Veneto per Vigevano e Pavia. In tutto sono 12.000 soldati pagati dal Piemonte a partire dal 21 luglio 1821.
Nell'ottobre dello stesso anno Carlo Felice ritorna in Piemonte e l'anno seguente stipula una convenzione con l'Austria per l'evacuazione del proprio territorio dalle truppe austriache. Sono anche ristabilite le confraternite.
Nel periodo storico che giunge alle guerre di indipendenza lo stato di floridezza delle finanze permette a Carlo Alberto di incominciare nel 1854 la costruzione della ferrovia Genova-Milano attraverso la Lomellina. Mortara, Vigevano e i paesi per cui passa ne sono notevolmente avvantaggiati.
Degno di nota il Congresso Agrario di Mortara, promosso da Cavour nel 1846, di carattere più politico che agrario, perché vi possono partecipare anche i lombardi possessori di terre in Piemonte. Gli auguri e le promesse che si scambiano alla chiusura del congresso, il 9 settembre 1846, sono il primo atto di intesa fra gli italiani delle due sponde del Ticino. Dopo le gloriose cinque giornate di Milano, dal 18 al 23 marzo 1848, Carlo Alberto fa passare alle sue truppe il Ticino a Pavia. Le sfortunate vicende belliche successive costringono il re a ritirarsi a Vigevano ed a chiedere l'armistizio del 6 agosto 1848.
L'anno successivo, scaduto l'armistizio, vengono riprese le ostilità: dopo un primo scontro a Cava Manara, le truppe austriache comandate dal vecchio generale Radetzky sconfiggono i piemontesi in due sanguinose battaglie, alla Sforzesca (il 21 marzo) e a Sant'Albino di Mortara (il 22 marzo). L'infausta giornata di Novara determina l'abdicazione di Carlo Alberto il 23 marzo 1849.
Il "decennio di preparazione", capolavoro del genio politico di Cavour, meriterebbe una lunga trattazione: la Lomellina, infatti, era destinata ad essere il terreno del primo e decisivo scontro tra le armate franco-piemontesi e austriache, perciò era più che logico che a questa terra venissero dedicate da Torino cure particolari. Il Cavour incrementa la pioppicultura e la risicultura con un doppio scopo: migliorare il livello economico della regione e creare naturali difficoltà agli eserciti nemici; in vista delle future operazioni, fa costruire la ferrovia tra Mortara e Novara.
Dopo la campagna di Crimea del 1855 e l'alleanza fra il Piemonte e la Francia sancita dagli accordi di Plombiers nel 1858, iniziano l'anno successivo i preparativi bellici contro l'Austria.
Il 22 aprile 1859 l'Austria invia al Piemonte un "ultimatum" perché metta l'esercito su piedi di pace e licenzi i volontari. Cavour lo respinge, mentre la Francia avvisa l'Austria che avrebbe considerato come dichiarazione di guerra il passaggio del Ticino da parte di truppe austriache. Il 29 aprile l'armata austriaca invade il Piemonte varcando il Ticino a Boffalora, a Bereguardo e a Pavia, mentre le prime colonne dell'armata francese arrivano a Susa e di là scendono a Torino. In quello stesso giorno, a Zinasco, avviene il primo scontro fra i due eserciti contrapposti, quando alcuni cavalleggeri piemontesi si scontrano con gli usseri austriaci: gli italiani perdono un uomo, gli austriaci, che dovono ritirarsi, tre. Il 30 aprile gli avamposti austriaci sono schierati a Mortara, Novara e Vercelli, mentre il quartiere generale è a Garlasco. Il 1° maggio uno squadrone di usseri irrompe a Mede, abbandonandosi al saccheggio, e catturano il sindaco.
Tutto fa credere che il comandante supremo dell'esercito austriaco, il generale Giulaj, punti su Torino. Un tale colpo di mano avrebbe messo Napoleone III in condizioni tragiche. Cavour già pensa di organizzare il trasporto degli archivi di stato da Torino a Genova. Per diversi motivi, quali l'inondazione della Lomellina, ordinata dal Cavour per ritardare il cammino degli austriaci, il cielo con le piogge, la piena dei canali in Lomellina e nel vercellese e l'impreparazione dei comandanti austriaci, l'avanzata non avviene. Prima ancora che dai cannoni, gli austriaci sono fermati dall'acqua. Infatti, in quell'occasione, l'ingegnere direttore generale del Roggione di Sartirana, che sarà poi progettista del canale Cavour, dà l'ordine di raddoppiare l'acqua immessa nei canali, in maniera che interi distaccamenti austriaci si trovano con l'acqua sino alla cintola. "Grazie alla grande opera di inondazione" - dirà poi il Cavour alla Camera - "l'esercito potè raccogliersi e ordinarsi, occupare formidabili posizioni e le truppe francesi poterono giungere in aiuto". Il 12 maggio l'imperatore Napoleone III arriva a Genova. Il principe di Savoia-Carignano muove incontro all'ospite illustre accompagnato dal conte Nigra, ministro della Casa Reale, e dal marchese di Breme. Primo fatto d'arme notevole è l'occupazione di Montebello da parte dei franco-piemontesi il 20 maggio 1859, mentre gli austriaci si ritirano al di là del Po, in Lomellina. Mentre gli austriaci stanno raccolti nelle terre lomelline e l'attenzione del loro comandante è attratta dalla minaccia verso l'ala sinistra, il 27 maggio il re Vittorio Emanuele II ottiene dall'imperatore francese che tre divisioni piemontesi, rinforzate dal 3° Reggimento Zuavi, si rechino sull'ala destra a Palestro, ove, tra il 30 ed il 31 maggio, avviene la famosa e cruentissima battaglia con cui i piemontesi, forti di 10.800 fanti e 100 cavalleggeri, sconfiggono duramente gli austriaci. La Lomellina è sgomberata. L'esercito vittorioso è trasportato col treno ed il 4 giugno Napoleone III piomba di nuovo sugli austriaci, attaccandoli a Boffalora ed occupando Magenta; l'8 giugno 1859 Vittorio Emanuele II e Napoleone III entrano in Milano. Dopo la vittoria di Magenta e la pace di Villafranca, nel giugno del 1859, l'armata degli alleati piemontesi e francesi stanzia in Lomellina fino ai primi di settembre; l'alloggio di questi militari è l'ultimo dei gravosi tributi sostenuti della comunità lomellina. Il 23 ottobre di quell'anno, ricostituita la provincia di Pavia, la Lomellina, con l'Oltrepò, torna a far parte della provincia di Pavia. Nel 1878 anche la diocesi di Vigevano ritorna in seno alla Chiesa Ambrosiana. Originari della Lomellina sono i Cairoli di Gropello, celeberrima famiglia di patrioti del Risorgimento.