Che cosa ho cercato? Dove ho cercato? / Quali erano le condizioni della gente? Un po' di statistiche...

 

QUALI ERANO LE

 

CONDIZIONI DELLA GENTE?

 

UN PO’ DI STATISTICHE STORICHE

 

Penso proprio che la situazione della vita 400 anni fa sia stata terribilmente diversa dalla nostra. Questo paragrafo, non riguarda la mia famiglia in particolare ma prendendo spunto dai riferimenti storici esistenti e considerandola come un nucleo di persone di ceto medio (oggi diremmo che è una famiglia standard), le caratteristiche di vita riscontrate trovano veritiero fondamento anche tra i suoi membri.

 

Quello che dalle ricerche non appare é la differenza di “calore famigliare” che esisteva tra le famiglie di allora e quelle di adesso; si sente dire dagli anziani oggi: “Ai miei tempi non c’era niente ma si era più contenti, più uniti, si stava bene lo stesso; oggi i nostri giovani, anche se hanno tutto, non sono mai felici e non sanno cosa fare”. E’ una frase fatta, semplice, quasi ingenua che ha il sapore della retorica che detta in un libro non sembra certamente poesia ma fa capire realmente la situazione della vita di allora.

Gli stimoli della vita di coppia, anche se si pensa fossero più morigerati, erano vivi e molto intensi manifestandosi quasi ogni anno con la nascita di un figlio. Nel periodo 1500-1600 (considerando i luoghi della mia famiglia) nascevano circa 100 bambini l’anno, nel periodo 1600-1700 circa 80, dal 1700-1800 circa 70-75, dal 1800 al nostro secolo una sessantina l’anno[1]. Molti di questi bambini non sopravviveva e la mortalità infantile era altissima. Dai dati rilevati, si può affermare che il 10% dei bambini veniva battezzato in casa dalle ostetriche (riscontro che nel 1630 a Pieve del Cairo le ostetriche erano 3, a Borgofranco 2) perché si temeva la morte improvvisa del neonato (“ob imminens mortis periculum”). Molti erano i casi di morte per malattie anche non gravi, banali (veniva scritto in latino “ob mòrbus repentìnus” e più tardi, in italiano “per crudel morbo”). Frequenti erano anche i casi di nati morti[2] e si sa che, purtroppo, la medicina di allora era assai limitata e per una sciocchezza si poteva morire.

Più si va a ritroso nel tempo più bassa era la vita media. Per tutto l’arco del 1600 (esclusi i numerosi morti prematuri) una persona che arrivasse a 50 anni poteva dirsi contenta. I casi di longevità analizzati in quel periodo erano rarissimi. Qualcosa migliora nel 1700: la vita media si alza a 57 anni e le persone longeve sono almeno una decina l’anno. La situazione migliora ancora un po’ nell’800: si passa ad una vita media di 60-61 anni con casi di longevità abbastanza frequenti. Analizzando la nostra famiglia, i DEGIORGI, noto con particolare piacere che il tasso di mortalità infantile non é elevato anche se in alcune generazioni é frequente e la vita media degli individui si aggira intorno ai 60-65 anni per gli uomini e 48-50 anni per le donne e man mano che ci si avvicina ai nostri secoli, sale gradualmente in modo costante.

Nel nostro specifico caso, ci sono casi di parti gemellari (in latino “gemini”) e alcuni di duplice e triplice matrimonio. Le persone più longeve della nostra famiglia sono state: il quasi 92enne Degiorgi Secondo (figlio di Giovanni ed Ercolina Volpini nato a Pieve del Cairo nel 1875 e morto a Milano nel 1967), Gisella Degiorgi (la figlia di questo, nata nel 1907 a Milano morta 96enne a Milano nel 2003), Felice Fortunato Degiorgi (nato a Suardi nel 1820 e morto a Pieve del Cairo nel 1910 all’età di 90 anni). La persona meno longeva (eccetto due casi di bambini nati morti, entrambi i figli di Severino Degiorgi e Francesca Guarnaschelli), é stato Biagio Degiorgi di Borgofranco, figlio di Giulio Giuseppe Degiorgi e di Maria Domenica Trabella, nato il 4 febbraio 1698 e morto dopo appena 10 ore di vita, nello stesso giorno.

 


[1] Oggi, in un paese come Pieve del Cairo, di circa 2500 anime, nascono mediamente 10-12 bambini l’anno contro gli 80-100 di allora mentre, in un paese come Suardi di circa 700 abitanti, nascono 3-4 bimbi contro i 40-50 di allora. Un calo delle nascite spaventoso, quasi incredibile: purtroppo i documenti parlano da soli e le somme sono presto fatte. E anche un calo di popolazione per Pieve del Cairo che oggi, nel 2020, è scesa al di sotto dei 1900 abitanti.

[2] Purtroppo devo rilevare che la mia famiglia ha avuto 2 casi di bambini nati morti e precisamente i figli di Pietro Severino Degiorgi e Francesca Guarnaschelli, nel 1807 una bambina e nel 1813 un maschio (non sono stati dati nomi agli infanti morti ma sono comunque stati registrati negli atti di battesimo e di morte come “infante nato morto”)

 

LE GUERRE

 

Tra le registrazioni parrocchiali si trovano anche vari accenni alle guerre che, più o meno marginalmente, hanno interessato le nostre campagne. Compaiono negli atti parrocchiali diversi nomi spagnoli, intorno al 1600. Nel settembre 1637, per esempio, a Pieve del Cairo viene annotato che “non è possibile, per la minaccia degli eserciti, registrare alcun battesimo”. Negli atti parrocchiali si hanno anche registrazioni di morte di soldati francesi, tedeschi, presenti nelle nostre campagne o per caso, o per vagabondaggio, o perché fuggiaschi o sfollati. Nel caso della mia famiglia non vi sono su di loro annotazioni riguardanti coinvolgimenti in guerre, assedi, sommosse ma non è detto che questi, come altre famiglie della zona, non siano stati coinvolti in scontri, tafferugli, in un periodo tanto ostile quanto difficile per vivere. Le zone di confine territoriali quali Pieve del Cairo, Borgofranco, erano sicuramente sempre al centro dell’attenzione. Il Fiume Po poteva essere per molti, milizie e civili, una via di fuga, una possibilità per salvare la propria vita. Si hanno notizie di periodi di guerra alla fine del 1700. Una sorta di diario tenuto dall’allora parroco di Cairo Lomellina Don Carlo Rolandi[1], fornisce, seppure in modo discontinuo, spunti importanti sugli effetti delle campagne Napoleoniche d’Italia che nei dieci anni a cavallo tra il ‘700 e l’800 interessarono le nostre contrade e i nostri avi. Furono loro, purtroppo, a sopportarne le conseguenze dirette in termini di saccheggi, espropriazione dei loro beni (dei loro pochi beni) di almeno tre degli eserciti contendenti, gli austriaci e i russi (alleati tra di loro come esercito Austro-Russo) e i francesi. I danni furono tantissimi, la gente maltrattata, i cittadini delle nostre terre lomelline furono cacciati di casa per far posto ai soldati. Negli scontri ci furono tanti feriti, trasportati su vari carri nella città di Pavia. Le milizie, fermatesi circa quindici giorni recarono danni, per quel periodo, immensi ed incalcolabili[2].

 

 

 



[1] Carlo Rolandi, parroco di Cairo dal 1798 al 1828 (per 30 anni).

[2] Relazione tratta dal libro “I Giacobini e gli Austro Russi nelle memorie di Pieve del Cairo” di Giuseppe Ponte, edito nel 1933 da Trigo – Lavagna in Mede. E’ una storia tratta dal Diario del prevosto Carlo Rolandi al tempo delle vicende napoleoniche nelle nostre terre lomelline. Lo storico pievese Giuseppe Ponte trovò questo diario in qualche umido scaffale nell’archivio parrocchiale di Cairo. Pensò bene di non lasciarlo all’incuria del tempo ma di sistemarlo e renderlo pubblico per i posteri.Ecco le che testimonianze raccolte e soprattuto scritte serviranno per le generazioni future a non far perdere il passato e le vicende accadute ai nostri antenati pievesi.

 

L’ANALFABETISMO

 

E’ difficile dire chi dei nostri antenati sapesse leggere e scrivere; nessun documento contenente una firma poteva permettere di capire questo[1]. Si sa che un tempo, le persone parlavano prevalentemente il dialetto locale (nel nostro caso il “lomellino”) e si esprimevano così con chiunque, con il parroco, con il dottore, con il notaio. Le scuole nel ‘500, nel ‘600 non erano per tutti e nei piccoli centri spesso non c’erano tante comodità come nei grandi centri abitati che iniziavano a sorgere. Dagli atti degli archivi parrocchiali, fino al 1837, non si possono rilevare altre scritture fuorché quella latina del parroco che redigeva gli atti (non sempre una bella calligrafia e non sempre un parroco “istruito”). Le prime indicazioni certe sul tasso d’analfabetismo si rilevano a partire dal 1838 in quanto, da questa data in poi, si fa uso della doppia anagrafe (civile e religiosa). La parrocchia, per l’archiviazione degli atti, d’ora in poi userà moduli prestampati in lingua italiana che sostituiranno definitivamente il classico formulario latino. Scopriamo così che nel 1838 (parlo per esempio di Pieve del Cairo), 40 padri su 90 non sono in grado di scrivere il proprio nome: riusciva veramente difficile, in questo periodo trovare, specialmente negli atti di matrimonio, entrambi i coniugi in grado di sottoscrivere l’atto e a volte anche i testimoni non conoscevano la scrittura. Tale incidenza si mantiene intorno al 50% fin verso il 1880, tendendo drasticamente a diminuire fino quasi a scomparire verso il 1920. Tralasciando il caso generale ed entrando nel particolare della mia famiglia, mi accorgo che la maggior parte dei suoi membri conosce la scrittura (almeno, é in grado di scrivere il nome e il cognome).

 

L’analfabetismo nei Degiorgi lo si trova nelle donne (non in tutte), nelle mogli dei miei antenati (da quando le registrazioni in italiano consentono di sapere questo particolare scopro che Santina Sozzi, Volpini Ercolina, Gatti Teresa non sanno firmare). La prima firma la si intravede alla fine del ‘700 con Degiorgi Giulio (1762-1800), una bella calligrafia e poi ancora suo figlio Degiorgi Severino (1786-1867) e successivamente tutta la sua generazione diretta fino a me. Anche i parroci non erano tutti molto afferrati nello scrivere e penso anche nel capire. La gente parlava dialetto e a volte si trovano tantissime forme del cognome “italianizzate” molto male dal dialetto o addirittura scritte nel dialetto. Un povero ricercatore senza pretese alla ricerca della sua storia (che in questo caso, molto indegnamente, sono io), potrebbe trovarsi in serie difficoltà in quanto il suo cognome, a seconda di chi lo annotava, poteva cambiare da un anno con l’altro o addiritutta da un atto con l’altro. Potevano accadere tre cose e chi si imbatteva in questo genere di trascrizioni poteva trovare: il cognome scritto normalmente, il cognome dialettizzato o il cognome latinizzato (gli amanti del “latinorum” c’erano e lo usavano anche senza conoscerlo alla perfezione, quasi in maniera grossolana, maccheronica). Un esempio semplice come questo che riporto, fa capire molto bene quello che poteva realmente accadere al cognome Cunteri (cognome molto diffuso a Pieve in quel periodo). Lo tratto quasi come un racconto ma è assolutamente una cosa vera: Nel 1831, alla famiglia Cunteri nasce un bambino durante la notte. La prima cosa che si pensa è al suo battesimo. Alle prime ore dell’alba, quando il nascituro ha pochissime ore di vita, i genitori (povera gente) lo portano dal parroco. Il parroco (in questo caso un povero parroco di paese) chiede alla famiglia (che parla solo il dialetto): come vi chiamate? – e la famiglia – “a suma CUNTE’ (in dialetto)”. Ecco che viene dato il nome al bambino, Luigi, e il cognome da Cunteri viene scritto Cuntè: il bambino, Luigi Cunteri sarà annotato come Aloisius Cuntè (in latino). La famiglia offre qualcosa al parroco e torna a casa. L’anno seguente, il 1832 (la scrittura degli atti è ancora quella latina) il parroco viene a mancare e subentra un altro prete (questa volta è un sacerdote molto colto), il bambino della famiglia Cuntè si ammala di tifo (succedeva spessissimo in quegli anni) e muore all’età di 1 anno. La famiglia addolorata ma sempre timorata di Dio va in chiesa per la celebrazione delle esequie: il parroco chiede le generalità del bambino. La famiglia risponde allo stesso modo, come l’anno prima. L’atto di morte viene registrato come Aloisio Cunteri[2]”.

 

Altri cognomi ho trovato scritti in modo diverso, alterato, modificato e precisamente: Taschieri in Taschè, Volpini in Volpi o Vulpè, Barbieri in Barbè, Audazio in Audazi, Laudazi o D’audazi, Cavezzale in Cavezali oppure De’Cavezalis, Trotti in Troti o DeTrotj, Degiorgi in Giorgi, De’Georgj, Degiorgis, Degeorgis, Bettaglio in Bettalio, Bettali, Alessi in De’Alesi o Alessio oppure ancora Alesi.

Purtroppo, per un lungo periodo di tempo, tutti i cognomi vennero modificati, italianizzati, latinizzati, dialettizzati a piacimento da chi redigeva gli atti parrocchiali. Dal 1838 al 1841 gli atti parrocchiali iniziano cambiare e in questi anni si trovano fascicoli molto grandi (come il nostro foglio A3 di adesso) e con formulari prestampati. Non cambiano molto i modi di scrivere il cognome, molti venivano scritti ancora secondo le intenzioni del parroco o di chi redigeva l’atto al momento della segnalazione di nascita, battesimo, morte o matrimonio. Dal 1842 al 1866 i registri cambiano, sono più piccoli (come il formato A4 di adesso ma un po’ più quadrati) e con formulario prestampato. Inizia un po’ di precisione e scrupolo in più nell’annotare i nominativi ma dobbiamo aspettare la doppia anagrafe, cioè lo “stato civile” che arriva con l’unità d’Italia nel 1866 quando i comuni (i municipi) redigono gli atti in modo molto preciso e diventano veri e propri documenti ufficiali che poi si tramanderanno di generazione in generazione fino ad oggi.



[1] Almeno dagli atti parrocchiali cioè la maggior parte dei dati ricavati dalle mie ricerche storiche sui Dergiorgi.

[2] L’esempio è della famiglia Cunterì quindi chi si mettesse alla ricerca di persone facenti parte di questa famiglia (ma anche altre con una dizione simile) potrebbe incorrere in questo piccolo problema cioè la dialettizzazione nonché la latinizzazione di un cognome. Cunteri scritto in 3 modi: Cunteri (normale), De’Cunteris (latinizzato), Cuntè (dialettizzato)

 

L'analfabetismo, come riporta questo eloquente grafico, era molto presente in quasi la totalità della popolazione. Qui partiamo dal 1861 che era al 78% ma negli anni precendeti, ancora privi di censimento, notiamo, dati ancora più preoccupanti. La quasi totalità della popolazione di ceto medio basso, non sa ne leggere ne scrivere. Le donne sono completamente analfabene, alcuni uomini, sanno scrivere soltanto il proprio nome.

 

LE INONDAZIONI

 

Una curiosa annotazione che testimonia una grave inondazione ci ricorda che Pieve, Gambarana, Suardi, sono sempre centri rivieraschi del Po, con tutte le amenità che ne devivano. Il 19 Novembre 1647, dunque, vengono somministrate le preghiere e il rito del battesimo ad un bambino nato nel bel mezzo delle acque che avevano sommerso tutta quella regione più di quanto potesse credere la madre la quale, con altre persone presenti era salita su un albero comunemente chiamato “gabba[1]presso il vicolo chiamato “inferno”. Un’altra disastrosa inondazione del Po si ebbe il 25 Ottobre 1706, essa procurò una piccola strage alla frazione di Messora dove trovarono la morte per annegamento una donna di 36 anni con la figlia di 9 mesi, una donna di 38 anni con due figlie (di 2 anni e di 22 giorni), una donna di 30 anni con la figlia di 18 mesi, un bambino di 5 anni e due giovani sposine di 16 e 22 anni. E’ tutto annotato nei registri parrocchiali di Pieve del Cairo.

 

 



[1] Tipica pianta della pianura: la Gabba. Assomiglia ad un gelso o ad un grosso salice, ma non ha né la robustezza né la tenacia di quei due, è una pianta povera

 

LE EPIDEMIE

 

Tra l’agosto 1676 e il maggio 1679 si abbattè su Pieve del Cairo un’epidemia che procurò un alto numero di decessi (111 nel 1670 contro i 60-70 degli anni immediatamente precedenti e ben 159 nel 1678), quasi la metà di questi riguardavano bambini di età non superiore a 10 anni. Non si hanno indicazioni sulla natura dell’epidemia; nonostante che tutti i morti vengano sepolti “[1] In Parrocchialis Ecclesia” oppure in[2]Cemeterio Ecclesia prope chorum” e non nel Lazzaretto (che pure esisteva gia da almeno un secolo), potremmo pensare che si trattasse di peste. Da segnalare, tra i morti, il “Canonicus” Giacomo Antonio Gorrani e altri 3 giovani preti definiti “clerici prima clericali tonsura insignibus[3]rispettivamente di 19, 19, 22 anni. Si rileva anche il ritrovamento di alcuni corpi senza nome alla Guja, uno presso S.Sebastiano (che allora era in aperta campagna) e un paio sul greto del Po. Anche il colera, che si manifestò in Italia non prima del 1835 abbiamo tracce certe di due casi a Messora il 10 ottobre 1854. Si trovano anche registrate le morti di due soldati, uno in Romania nel 1855 e l’altro in Kamara[4] nel 1856. Altre morti per malattie contagiose sospette ci fanno avanzare delle ipotesi in quanto tra l’aprile e il maggio del 1801 la famiglia Clavenzani venne colpita interamente morendo 4 persone nell’arco di 1 mese. Casi analoghi di malattie sospette ci fanno pensare al rinvenimento, sempre attraverso i registri di morte, di intere famiglie nel giro di pochi giorni, nel 1683, nel 1706, nel 1729 e casi analoghi ancora negli anni 1738-39-49-50.

 



[1] Sepolti In chiesa Parrocchiale.

[2] Sepolti nel Cimitero vicino al coro della chiesa.

[3] Con la tonsura clericale e con le insegne del clero: erano praticamente in veste da celebranti.

[4] Battaglia di Balaklava in Crimea (guerra 1854-1856)

 

L’IMMIGRAZIONE

 

Un doveroso cenno va fatto anche sul fenomeno dell’immigrazione. Compare come testimone di battesimo, nel 1632, tale Andrea Moreschi originario di Mendrisio, che viene definito “faber murarium[1]”; duecento anni dopo, nel 1841, è registrata la morte di tale Giuseppe Vanini di Cambiaglio (Como) che viene definito “maestro muratore, qui dimorante per l’esercizio della sua arte[2]. Nel giugno 1638 troviamo testimone un tale Prospero Solerte “fabro lignario neapolitano sed hic abitatore et arte sua exercente[3]”. Il 23 settembre 1767, tale Carlo Andrea Collaretti, 40 anni, di nazionalità genovese ma da molti anni vivente qui, muore per un colpo di pistola sparatogli da uno straniero che era stato allontanato dallo stesso Collaretti dall’Osteria “del Falcone” dove lavorava come servo. Frequenti sono anche poi le indicazioni ed anche gli intrecci matrimoniali riguardanti i paesi vicini quasi Castelnuovo Scrivia, Sale, Mede, Cergnago, Bassignana, Lomello e molti altri.



[1] Praticamente un “architetto” del giorni nostri.

[2] Si tratta di un caso di quei “maestri comacini” vale a dire quegli artisti dell’arte muraria che seppero conquistare tanta fama dappertutto. Qui a Pieve avevamo anche Angelo e Ignazio Degiorgi, maestri comacini di Cambiaglio (Como) che coadiuvarono i lavoro dei fratelli Ivaldi da Ponzone nei dipinti e nelle decorazioni della nostra chiesa parrocchiale. Erano dei Degiorgi ma non c’entrano nulla con la nostra famiglia. Sono comunque rimasti a Pieve per tantissimi anni.

[3] Mastro falegname napoletano abitante qui, dove esercitava la sua arte.

 

I CIMITERI A PIEVE DEL CAIRO

 

Fino al 1830 i cimiteri al servizio della comunità pievese erano stati almeno quattro. Il primo destinato a raccogliere le spoglie della stragrande maggioranza dei nostri antenati era situato presumibilmente nell’area racchiusa tra la chiesa di San Giovanni Battista (della “lë cesä di bätù”) ed il coro della chiesa Parrocchiale, interessando anche l’area attualmente occupata dalla casa parrocchiale e da quelle adiacenti, ivi compreso il complesso della “Casa del Giovane” (l’Oratorio). Il secondo era costituito dalla Chiesa Parrocchiale stessa, dove abitualmente venivano sepoliti i parroci, per i quali esisteva un apposito sepolcro definito “Sepulchro Sacerdotum”. Un secondo sepolcro era riservato ai Padri Barnabiti, ne troviamo traccia allocheè il 30 gennaio 1831 muore a Pieve un Barnabita di Monte Acuto Beccaria[1], tale Angelo Fiocchi e viene sepolto in Chiesa Parrocchiale di fronte all’Altare di San Gerolamo. In chiesa, normalmente, venivano sepolti i nobili e i benestanti.

Il terzo cimitero era posto nell’Oratorio di San Sebastiano[2] che sorgeva all’estremità Nord del paese. Vi era sepolto l’Avvocato Giuseppe Maria Paltineri. Il quarto era il Lazzaretto, ancora oggi visitabile, posto fuori dall’abitato in direzione del Po sulla strada conosciuta come “Po vègg”. Secondo la lapide fatta apporre dal Prevosto Gerolamo Avanza, questo luogo risale al XVI secolo e fu quindi, molto probabilmente, approntato per raccogliervi i resti degli appestati dell’epidemia del 1576, quella stessa che nella sola città di Milano fece 18.000 morti. Esisteva anche nel 1630, all’epoca dell’altra epidemia di peste narrata da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi. Poiché il più antico libro dei morti dell’archivio parrocchiale parte dal 1637, non ci sono notizie scritte nè di quella epidemia nè del lazzaretto. La situazione è quindi di 4 cimiteri fino al 1830.

Il prevosto Giovanni Cerra (parroco dal 1824 al 1864) ci informa che il 14 giugno del 1830 venne posta la prima pietra per la costruzione del nuovo cimitero, per il quale l’Amministrazione Comunale aveva stanziato la somma di 4830 “nuove monete di Piemonte”. Il nuovo cimitero sarebbe sorto nell’area delle attuali Via Ricchieri e SS.211, attualmente occupata dai due condomini chiamati “i ca pupular” e da alcune villette antistanti. Esso fu consacrato solennemente dal prevosto Cerra il 14 Nocembre 1830 e fu soppresso 120 anni dopo, nel 1951.

Il cimitero definitivo, vale a dire quello attuale, situato circa ad 1 km fuori dal paese, in direzione Lomello, è stato attivato nel 1925 e costruti dalla ditta Piacentini[3]

 

 

 

 

 

 

 



[1] Oggi si chiama Montù Beccaria, in Valle Versa, nell’Oltrepò Pavese.

[2] L’Oratorio è stato abbattutto nel 1969 perché dichiarato pericolante.

[3] Le dicerie popolari, ma forse è la verità, raccontano che lo stesso costruttore del nuovo cimitero fu il primo ad esservi sepolto perché morì nel 1925.