LIBRO (da leggere)

 

 

La straordinaria storia di nonno Felice

 

dove finiscono le memorie iniziano le fonti

(da una ricerca genealogica, la romanzata vita di un uomo nato due secoli fa)

 

di Carlo Degiorgi

 

 formato A5, n. 294 pagine

 

TUTTO EBBE INIZIO

 

A Borgofranco, quella sera, regnava un silenzio assordante. La campagna circostante sembrava dormire un sonno profondo e il fiume, poco lontano, seguiva il suo corso lentamente, così come lenta era la vita a quei tempi. Improvvisamente, un vagito squarciò il buio. La nascita di un bambino, in una famiglia di contadini a quell’epoca, giungeva come una benedizione e così aprì gli occhi al mondo una creatura talmente desiderata da sembrare un fatto sorprendente: il miracolo della vita si era compiuto.

Mamma Francesca[1] aveva quasi 40 anni e dopo aver partorito il suo bambino, appariva stremata. Lacrime e sudore comparvero sul suo volto trasfigurandolo in una smorfia di sofferenza. Poi, i suoi meravigliosi occhi celesti, si aprirono ad osservare chi le stava intorno e la stanchezza lasciò il posto ad un timido sorriso di gioia. Diede un bacio sulla fronte al piccolo ancora sporco e si addormentò profondamente.

Nonna Maria glielo tolse dolcemente dalle braccia e se lo mise in seno mentre le altre donne avevano già preparato la grande tinozza piena d’acqua calda per lavarlo. Il bimbo, improvvisamente, smise di piangere, rassicurato dalle amorevoli braccia dell’anziana donna che gli trasmetteva il tenero affetto di una nonna.

Difatti Maria, che in passato aveva accudito molti dei suoi figli[2] era assolutamente pronta ad affrontare quel tipo di situazione, con una naturalezza che sembrava non lasciare nulla al caso.

Un rituale assolutamente meraviglioso, svolto in maniera tale da diffondere nell’aria un aroma “antico” fatto di tepori e profumi leggeri che si sprigionavano da quella tinozza, talmente avvolgenti da riempire ogni area circostante di una nebbiolina leggera.

Come cullato da quelle dolci braccia, il piccolo sorrise piacevolmente a quel tepore mentre veniva avvolto in quelle fasce morbide, preparate per l’occasione dalle sapienti mani delle zie, esperte rammendatrici di tessuti.

In quelle circostanze tutte “al femminile” i padri venivano allontanati, fatti uscire dalla stanza finché ogni compito non fosse terminato. Quando tutto fu compiuto, Maria chiamò suo figlio dandogli la notizia del lieto evento: il bambino e la mamma stavano bene e tutto era andato per il meglio. Severino, il padre, non ci credeva perché le esperienze passate non erano state positive.

Era la sera del 21 Settembre 1820 e in casa Degiorgi, a Borgofranco, nacque un bambino che avrebbe dato speranza al futuro della famiglia.

Dopo un periodo piuttosto difficile, in cui la sventura sembrava essersi abbattuta su quelle terre, venne al mondo colui che fu, da subito, considerato un importante punto di riferimento per tutti, senza minimamente immaginare cosa avrebbe riservato loro il futuro. Severino era così felice tanto da toccare il cielo con un dito e decise di chiamare suo figlio Felice Fortunato. Proprio così: Felice Fortunato Degiorgi. Quel nome doveva far dimenticare momenti in cui la vita sembrava rifiutarsi di proseguire.

Francesca si svegliò dal torpore dovuto alla stanchezza e vide il suo bambino avvolto nel lenzuolo, tra le braccia di Maria che glielo consegnò, come un rito solenne, come a simboleggiare un passaggio importante tra passato e presente. La famiglia Degiorgi aveva un erede e il momento fu davvero meraviglioso per tutti. Francesca pensò quale gioia avrebbe provato se ci fossero stati i suoi genitori: anche loro avrebbero potuto assaporare quel momento e provò una stretta al cuore. Fece poi un bel respiro e pensò che doveva essere felice, come il nome di suo figlio, approvandolo senza esitazione. Per quanto Severino e Francesca ne sapessero, nessuno dei loro antenati aveva mai portato quel doppio nome.

Gli avrebbero portato bene!



[1] Maria Francesca Guarnaschelli (1783-1840) moglie di Severino Degiorgi (1786-1867), i miei quadrisavoli seguendo la genealogia patronimica, mamma di Felice, il protagonista di questo racconto.

[2] Maria Domenica Biancardi, moglie di Giulio Degiorgi (i genitori dei miei quadrisavoli), ebbe 7 figli dei quali Severino fu il terzogenito. Sono i nonni di Felice, il protagonista di questo racconto.

 

UN PO’ DI STORIA

 

Perché si parla continuamente di brutti momenti? Occorre fare un tuffo nel passato di questa famiglia, tornando indietro, di una generazione:

… Severino e Francesca lavoravano la terra e da essa ne raccoglievano i frutti. Entrambi di umilissime origini, non avevano alcun titolo e possedevano quel poco che bastava per vivere. Entrambi figli di quella paludosa Lomellina rivierasca del grande fiume Po. Severino (battezzato come Pietro Francesco Severino Degiorgi) nacque a Borgofranco (Loci Burgi Franchi) il 17 gennaio 1786 da Giulio Paolo (1762-1800) e da Maria Domenica Biancardi (1760-1829), terzogenito di 6 figli. Francesca (battezzata Francesca Maria Guarnaschelli) nacque a Cambiò (Loci Campi Beati et Sparvara) il 1°settembre 1783 da Francesco Carlo (1753-1785) e da Teresa Gagliardi (1757-1800), unica figlia di questa coppia perché il padre morì per un “crudel morbo” quando Francesca aveva soltanto due anni. Si sposarono a Borgofranco il 22 febbraio 1805, lui a 19 anni, lei a 22, entrambi giovani, pieni di speranza per un futuro gioioso, insieme, in un periodo piuttosto difficile, pieno di tumulti e di guerre circostanti per l’incombenza, in quei territori, degli eserciti di Napoleone. La Lomellina, in quel periodo faceva parte del Regno di Sardegna.

I due giovani, facevano progetti, volevano creare una famiglia e avere dei figli da crescere, nonostante le sempre più frequenti inondazioni del fiume in quel periodo. Il 4 febbraio 1806 Francesca stava male, aveva le doglie del parto e, presa da forti dolori e terribili contrazioni, partorì una bambina priva di vita. Il dolore era tale che i genitori non vollero nemmeno darle un nome, presi da angoscia mista a rabbia. In quello stesso giorno, la piccola senza vita venne battezzata dall’ostetrica Marianna Dall’Occhio e sepolta nel cimitero locale. I genitori, timorati di Dio, abbattuti dalla sciagura ma ferventi di una fede profonda, decisero di provarci di nuovo e di avere un altro figlio.  Il 19 aprile 1807 nacque Giuseppe e la luce di una nuova vita entrò in casa Degiorgi allietando tutti. La felicità che la famiglia stava gustando nel modo più assoluto, venne presto interrotta da una tragedia: il 20 ottobre di quello stesso anno, Giuseppe volò in cielo a soli 6 mesi di vita. Severino e Francesca avevano perso il loro secondo figlio. Di nuovo le tenebre calarono inclementi sui poveri genitori. Come se non bastasse l’anno seguente, il 1808, una tremenda alluvione del Po, distrusse l’abitato di Borgofranco inghiottendolo definitivamente. Gli abitanti si misero in salvo tentando di recuperare quel poco che avevano: i loro affetti, le loro cose.

Il paese venne ricostruito più lontano dal fiume nel luogo dove oggi sorge il comune di Suardi. La vita nel borgo riprese e il Po a volte amico ma talvolta anche grande nemico, ora faceva un po’ meno paura. Passarono alcuni anni e arrivò l’estate del 1813. Il 16 giugno Francesca diede alla luce un bambino ma per la terza volta la sventura gravò sulla famiglia Degiorgi. Il piccolo nacque senza vita. Sembrava proprio che Severino e Francesca, per qualche atroce beffa del destino, non dovessero diventare genitori. Venne battezzato e direttamente sepolto. Un altro bambino “sine nomine” (senza nome) venne scritto nella storia di quel periodo, in cui anche venire al mondo era un problema. La tristezza, il pianto, l’amarezza pervasero quella coppia, sconfitta dalla sorte. Decisero di lasciar perdere e non provarci più. Severino era un uomo adulto di 27 anni (sicuramente, lavorava già da almeno vent’anni) e Francesca, più vecchia di lui ne aveva 30. In un arco temporale di sette lunghi anni, la coppia non pensò più a crearsi una famiglia fino all’arrivo dell’anno della svolta: il 1820.

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In quella casa regnava un’atmosfera così festosa che si poteva percepire in ogni minimo dettaglio, come se la vita della famiglia Degiorgi si fosse miracolosamente trasformata, come se quella triste nebbia che avvolgeva ogni cosa si fosse improvvisamente dissolta, svelando la bellezza di tutto l’ambiente circostante, oscurato tristemente da sette anni di desolazione. Il nulla si era improvvisamente trasformato in “tutto”, come se la vita si rianimasse dopo una lunga pausa di rassegnazione e sgomento.

Il bambino era bellissimo con due occhioni splendidi che osservavano quel mondo rurale e l’atmosfera che regnava in casa era veramente densa di amore. Severino era prudente perché dopo tutto quello che gli era successo, temeva il peggio da un momento all’altro. Era però convinto che questa fosse la volta buona e quel bambino sarebbe vissuto. Voleva prenderlo in braccio per coccolarlo ma tutte le donne presenti in quella casa (la madre, la moglie e le altre aiutanti che erano accorse per il lieto evento) glielo negarono consigliandogli di recarsi in canonica da don Francesco[1] e accordarsi per il battesimo del figlio.

“Don Francesco glielo porto adesso?” chiese Severino al parroco, impaziente come un bambino che non sa aspettare.

“Ma figliolo, ormai è quasi notte, la giornata sta volgendo al termine, ci penseremo domani mattina, all’alba” rispose il parroco mettendogli una mano sulla spalla.

Severino, agitato, gli chiese:” Reverendo, devo aspettare fino a domani?”. Il parroco lo invitò a recitare una preghiera e a non preoccuparsi perché presto sarebbe arrivato il momento che tanto attendeva.

Corse a casa per lo stretto sentiero, schiarito dai riflessi della luna e da un firmamento stellato che sembrava volerlo guidare ovunque andasse. A casa, trovò Felice che dormiva in braccio a mamma Francesca che, udito il cigolio della porta, si era svegliata. Severino le disse: “Domani mattina alle sei andremo tutti in chiesa per battezzare il bambino”. Francesca si riaddormentò e lui non la disturbò più fino al sorgere del sole, quando l’alba di un nuovo giorno avrebbe accolto tutta la famiglia in un clima sereno e festoso.

Le prime luci dell’aurora fecero capolino all’orizzonte, specchiandosi sul grande fiume. Erano le cinque del mattino ed entro un’ora bisognava essere in chiesa. Non era una mattina in cui fervevamo chissà quali preparativi: ci si alzava, si faceva colazione con del pane secco ma ci si preparava per il solenne battesimo del piccolo. I genitori, il bambino, la nonna, il padrino e la madrina che erano i vicini di casa, invitati dalla famiglia per presenziare, si recarono in chiesa. Non era di certo una festa in pompa magna, un “gran galà” dell’alta aristocrazia ma soltanto una cerimonia semplice, fatta di poche persone, le più intime. Ci si voleva bene, senza sfarzi, senza fronzoli inutili: una giornata come tante che sarebbe iniziata invece con rito religioso.

Francesca, Severino, mamma Maria si prepararono per l’occasione tirando fuori dal vecchio armadio, i vestiti di tutti i giorni. Maria, vedendo Francesca che si stava pettinando, prese un fiore da un vaso sulla finestra e le ornò i capelli. Severino finì di sistemarsi il nodo del foulard in tessuto grezzo, si mise le scarpe ed era pronto. Maria vedendo quei calzari sporchi ai piedi del figlio, lo sgridò: “Tä ghé miä intension dä gnì in cesä con cui scarp tüt immältà!? (Hai mica intenzione di venire in chiesa con quelle scarpe tutte sporche di fango!?). Severino, prontamente: “No mamä, ä serä invià ä fai pulìd!(No mamma, li stavo pulendo) brandendo un fazzoletto trovato da qualche parte, in casa.

Felice era stato preparato per l’occasione, pulito e profumato, avvolto nelle sue fasce. “Va ä ciämà i nos ävsìn che ändumä(vai a chiamare i nostri vicini che andiamo) disse Maria a Severino mentre chiudeva la porta di casa.

La famiglia Degiorgi abitava a circa 15 minuti di strada dalla chiesa parrocchiale già aperta a quell’ora per la consueta messa in albis.

Si incamminarono per il sentiero e percorsero tutti insieme quell’umida campagna. Mamma Francesca cercava di riparare il bimbo dalla rugiada del mattino che gli bagnava il visino. Il loro arrivo alla chiesa di San Bartolomeo Apostolo venne accolto da don Francesco Bosio che si trovava già davanti al portone insieme a due assonnati chierichetti.

            “Il Signore sia con voi, figlioli” disse il parroco appena li vide invitandoli a prender posto, davanti al fonte battesimale.

“Che nome date al vostro bambino?” chiese ai genitori emozionati.

“Felice Fortunato” risposero con voce forte e solenne. Era un nome bellissimo, nessun antenato prima di lui aveva portato quel nome[2] (che loro sapessero ovviamente). Il padrino era Felice Arpiani, un contadino vicino di casa e la madrina era sua moglie, Angela Maria Grossi. I nomi scelti erano questi: probabilmente il nome Felice gli fu imposto in onore del padrino e Fortunato perché il destino era stato benevolo e forse sarebbe stato di buon auspicio per una lunga vita come tutti gli auguravano.

“Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Felice Fortunato, ora sei figlio di Dio” disse don Francesco “accogliamolo nella comunità di Borgofranco” aggiunse allargando le braccia in segno di affetto e di lode al Signore. Proseguì la Santa Messa e al termine, invitò la famiglia in sacrestia per la compilazione dell’atto di battesimo. Lo scrisse in un perfetto latino e lo lesse ai presenti. Il nome di “Felix Fortunatus Degiorgi” era stato registrato e giusto il tempo di far prendere un po' d’aria all'inchiostro per farlo asciugare, venne riposto insieme agli altri atti nel polveroso archivio della canonica. Quel bimbo era il quarantesimo battezzato del 1820.

Dall’atto di battesimo:

“Anno Domini Millesimo Octigentesimo Vigesimo die vero vigesima prima 7bris. Ego Franciscus Bosio Rector baptizavi infantem hac mane hora decima quarta natum ex Petro Severino Degiorgi et Francisca Maria Guarnaschelli jugalibus cui impositum fuit nomen Felix Fortunatus. Patrini fuerunt D.nus Felix Apiani et Angela Maria Grossi filia Aloysii ad hoc idonei”

Al termine della celebrazione, alle 6 e mezza del mattino, tornarono a casa, riposero il piccolo nel suo lettino e si prepararono ad affrontare l’ennesima giornata di lavoro nei campi, che durò fino a tarda sera, quando i loro occhi si chiusero per la stanchezza. A differenza di quegli anni bui e pieni di solitudine, questa volta le prospettive di Severino e Francesca erano diverse, tanto da iniziare a fare progetti per un futuro nuovo. La nascita del figlio aveva dato loro speranza e quella famiglia che risiedeva da oltre duecento anni al Burg stava cercando di “cambiare aria”. L’alluvione del 1808 aveva ridotto drasticamente le loro risorse e il paese, per Severino iniziava a non essere più quello che ricordava. Il padre Giulio era riuscito ad acquistare un terreno nella vicina Cairo e aveva messo da parte qualche risparmio che, per fortuna, non era andato perduto. Severino, con quella somma, iniziò a pensare che forse era arrivato il momento di staccarsi da quella terra ed andare in un altro posto dove c’erano più lavoro e più prospettive. Le terre degli Isimbardi, ricca famiglia milanese ma originaria del pavese avrebbero potuto garantire a Severino e alla sua famiglia un futuro migliore.

Non succederà immediatamente, ma tutto questo accadrà, molto presto.



[1] Don Francesco Bosio, parroco di Borgofranco dal 1817 al 1849, pastore della comunità per ben 32 anni. Fu colui che curò personalmente gli indici alfabetici degli atti parrocchiali, favorendo le ricerche d’archivio per le persone come me.

[2] Dalle ricerche effettuate, nessun antenato diretto o collaterale ha avuto questo nome, il nonno si chiamava Giulio, il bisnonno Pietro Francesco e gli altri prima di questi Giulio Giuseppe, Angelo Francesco, Ambrogio, Antonio e Gerolamo. Ma questo l’ho scoperto io, molto più tardi: loro non lo sapevano. Tuttavia, Severino aveva conosciuto appena suo padre Giulio, morto nel 1800 quando aveva 14 anni. Il nonno Pietro Francesco non lo aveva nemmeno conosciuto perché era morto 3 anni prima che lui nascesse, nel 1783.

 

DA BORGOFRANCO A CAIRO: L’INFANZIA

 

Dalla nascita di Felice passarono circa tre anni e in questo lasso di tempo successero tante cose[1]. Eravamo nel primo quarto di secolo dell’800, in un contesto prevalentemente agricolo in cui i ricchi davano lavoro e ospitalità ai poveri in cambio della loro manodopera. I bambini come Felice giocavano con quel poco che c’era. Nonna Maria gli aveva costruito un pupazzetto di stoffa fatto con le pezze consulte ed avanzate di qualche straccio e papà Severino glielo aveva abbellito con due piccoli bottoni neri per occhi e due lembi corti e stretti per il naso e la bocca. Felice era un bambino adorabile che, dato che la vita non gli aveva regalato fratelli o sorelle, giocava spesso da solo o con i figli dei vicini di casa suoi coetanei, (i tre bimbi della famiglia Arpiani[2]). I Degiorgi e gli Arpiani avevano in comune una stalla con alcune vacche, un toro e dei vitellini. In quel luogo i bambini giocavano a nascondino, rincorrendosi tra le greppie e sfiorando pericolosamente gli attrezzi agricoli lasciati in giro dagli anziani. Noncuranti del pericolo, capitava spesso che brandissero dei rastrelli come spade, inscenando immaginarie battaglie per la conquista di un qualche luogo inesistente. Il mondo dei bambini di quel tempo era fantasioso, semplice, spontaneo e innocente ma, sicuramente meraviglioso.

Arrivò così la mattina dell’11 Aprile 1823 quando Severino e Francesca, decisero di andarsene da Borgofranco e costruire il loro futuro a Cairo. L’uomo era un umile contadino analfabeta, che però aveva progetti[3] ambiziosi in mente ed un coraggio che nessuno dei suoi antenati aveva mai avuto: abbandonare il proprio paese, ma senza rinnegare le origini. Felice non capiva ancora bene quel che stava accadendo e che si sarebbe dovuto trasferire in un altro posto. Per suo padre furono giorni di intensi preparativi: aveva infatti perso la settimana a riparare un carretto malandato, sistemandolo alla bell'e meglio, giusto da permettergli di affrontare il viaggio con tutta la famiglia. Con i pochi averi che possedevano c'era anche un vitello che, crescendo, sarebbe stato utile al sostentamento di tutti.

Il bimbo aveva un ultimo desiderio: “Päpà, von ä sälütà i mé ämis” (Papà vado a salutare i miei amici). Severino acconsentì e mamma Francesca gli disse: “Và gioiä, và pürä(vai gioia, vai pure). Ci andarono insieme, Felice abbracciò i suoi piccoli amici, Francesca diede loro un bacio in fronte e strinse a sé i loro genitori ringraziando per tutto quello che avevano fatto. Li avrebbero portati nel cuore per il resto della loro vita. Quella partenza sarebbe rimasta nei loro ricordi non come un addio ma come un nuovo inizio.

Da parecchio tempo Severino e Francesca avevano sentito parlare di Cairo, di Pieve, delle Cascine di Guazzora[4], della Guja. Lei era nata nella vicina Cambiò ma la madre, Maria Caterina Gagliardi era originaria di quei luoghi e si ricordava, fin da bambina, che “ä lä Pièv” (a Pieve), come diceva la madre: “gh’erä l’ariä bonä” (c’era l’aria buona). Lui aveva trovato un lavoro ed un alloggio nel grande stabile di Palazzo Isimbardi e avrebbe lavorato anche alla cascina Guja (la cui proprietà era della famiglia Salvaneschi). Felice si ambientò bene nel borgo di Cairo. C’era fermento, vita, tante attività e ci stava bene, curioso com’era. C’era la chiesa a pochi passi e Francesca avrebbe lavorato in campagna, aiutato il marito e fatto la ricamatrice per la famiglia Isimbardi, diventando piuttosto brava. Severino avrebbe lavorato la sua terra assieme a quella dei suoi datori di lavoro; inoltre, il rettore Don Carlo Rolandi gli avrebbe fatto scoprire una professione quasi del tutto estranea: quella del sacrestano. Severino accettò senza riserva e si impegnò moltissimo, per parecchio tempo[5]. È probabile che non ci fosse soltanto lui a svolgere questo impiego ma anche altre persone.

Era un lavoro piuttosto impegnativo perché i sacerdoti, a quell’epoca, erano più occupati, le Sante Messe erano più frequenti e il sacrestano, oltre ad essere responsabile della custodia delle suppellettili, preparava gli arredi per le funzioni e si occupava delle campane e dell’orologio. Severino prendeva servizio all’alba, prima di recarsi al lavoro e lo riprendeva al tramonto, dopo le fatiche nei campi. Sette giorni su sette, 365 giorni l'anno. Il suo tempo libero era la sera dopo cena, durante la quale trovava il tempo per stare un po’ con il bambino e con sua moglie, prima di “crollare” dal sonno. 

Felice cresceva, i passatempi per i bambini non erano molti e spesso le sue aspettative si scontravano con la brusca realtà che imponeva a mamma e papà di lavorare costantemente tutto il santo giorno per poter sopravvivere. Anche la nonna andava al lavoro che però le occupava solo mezza giornata: mattino o pomeriggio.

Nel 1826 andava a lavorare con il padre presso gli Isimbardi e alla cascina Guja: due manine piccole e veloci facevano comodo per certe mansioni e allora, si iniziava a lavorare da piccoli. Non erano lavori pesanti quelli che faceva ma considerando i suoi sei anni, potevano già bastare. Faceva le commissioni, portava piccoli secchi d’acqua per dissetare i contadini, puliva le stalle e teneva in ordine l’ambiente di lavoro. Felice stava diventando un aiuto indispensabile a tutti.

Ma era soltanto un bambino e gli adulti lo ricompensavano facendolo riposare tra un lavoro e l’altro, permettendogli di giocare all’ombra di una pianta, consentendogli anche di dormire quando era stanco. Agli occhi attenti del papà e degli altri genitori non sfuggiva nulla se si trattava del bene dei loro figli.

Felice era un bambino che non si risparmiava soprattutto se si trattava di dare una mano al padre, così ogni sera, tornando dal lavoro, lo seguiva in chiesa per la messa del “vespro”. Era molto sveglio per la sua età e quando si accorgeva che papà, inginocchiato ai piedi dell’altare si addormentava per la stanchezza, gli dava una gomitata (gumià) e gli sussurrava all’orecchio: “Papà, lä mäsä l’è no äncurä finì … stà svìg, indrumentät no! (Papà, la messa non è ancora finita, stai sveglio, non addormentarti!)

Così quando Severino si perdeva qualche passaggio nel dare le risposte alle preghiere del prevosto, Felice interveniva facendo la voce grossa, rispondendo al suo posto e risolvendo la situazione. Al termine della Santa Messa, don Francesco benediva quel pover’uomo e suo figlio dicendo al piccolo: “Porta la benedizione del Signore anche alla tua mamma, mi raccomando”. Mentre faceva questo, arrotolava dentro un tovagliolo (äl mäntìn) un pezzetto di pane dolce dicendogli: “Sei un bravo bambino, te lo sei meritato, che Dio ti benedica per tutto quello che fai ogni giorno!”. Il piccolo ringraziava con un “Sia lodato Gesù Cristo” e prendendo per mano suo padre, si incamminava verso casa che, fortunatamente, distava poche decine di metri.

Severino non sarebbe riuscito a fare un metro in più, perché la stanchezza che provava era troppa e una volta a casa, spesso, la fatica vinceva sulla fame. 



[1] L’infanzia di Felice non la conosciamo, dai documenti rinvenuti non sappiamo nulla di quello che abbia fatto da piccolo ma, facendo una ricostruzione storica di quei luoghi, in quel periodo, possiamo immaginarla benissimo.

[2] Si leggerebbe anche Apiani o Appiani, ma la famiglia Arpiani è tuttora presente a Borgofranco che oggi si chiama Suardi. Erano padrino e madrina del bambino.

[3] Severino imparerà a scrivere, lo scoprirò più avanti, da diversi documenti parrocchiali di Cairo, dal 1838 in poi. Imparerà anche a leggere, successivamente. Lo scopriremo: la sua vita non fu affatto breve.

[4] L’abitato di Cascine Nuove (ora frazione di Pieve del Cairo), un tempo si chiamava proprio così: Cascine di Guazzora.

[5] Ci sono molti atti parrocchiali di Cairo in cui lui firma come testimone a battesimi, a nozze, ad esequie funebri.

 

 

L’ADDIO A NONNA MARIA

 

Da qualche mese, nonna Maria era tornata nuovamente a Borgofranco, non era più la donna sana e dall’aspetto colorito di un tempo, per questo motivo, pensando al peggio era voluta tornare al paese natale. La accudiva Cristina[1], una delle sue figlie rimasta vedova con 4 bambini ancora piccoli. Aveva visto di buon occhio il ritorno a casa dell’anziana madre che le avrebbe tenuto compagnia.

Prima di partire per Borgofranco, nonna Maria aveva raccomandato al piccolo Felice: “Äm räcumändi nanu, fa sempär äl brav fiulìn(mi raccomando piccolo, fai sempre il bravo bambino). La curiosità del bimbo spinse a chiederle: “Nonä, pärché ät vé viä?(Nonna, perché vai via?). La Nonna diede un grosso bacio sulla fronte del piccolo e lo salutò come se fosse l’ultima cosa che sentiva di fare. Abbracciò Francesca ma non le riuscì di salutare Severino perché era al lavoro e sarebbe rincasato verso sera. Madre e figlio insistettero perché restasse ad aspettarlo ma la nonna decise di partire per quel viaggio che sarebbe stato l’ultimo. Quell’anno aveva trascorso il Natale a Cairo, con suo figlio, sua nuora ed il suo adorato nipote. 

Era la mattina del 5 febbraio del 1829, Maria stava molto male. Nel mese trascorso sembrava essersi ripresa, ma quel giorno, improvvisamente, svenne tra le braccia di Cristina. Aprì gli occhi e chiese: “Ciamä äl prév che l’è urä(chiama il prete che è ora). Cristina, in preda al panico e all’angoscia, mandò uno dei suoi bambini ad avvertire don Francesco e a riferirgli che la nonna stava molto male.

“Figliolo caro, arrivo subito ma non riesco a correre come te. Intanto vai, io cerco di fare più in fretta che posso” disse il sacerdote al ragazzo. Prese con sé il breviario, la stola viola e l’acqua santa per la benedizione e si precipitò dalla nonna.

La trovò sdraiata sul letto ma fortunatamente ancora viva. Don Francesco le si mise accanto e pregò dandole l’assoluzione dai peccati e l’unzione degli infermi. La donna si riprese, come se quella medicina spirituale avesse risolto ogni disturbo. Cristina chiese ad un suo vicino di casa che possedeva un carretto, di recarsi a Cairo ad avvisare Severino, Francesca e il piccolo Felice augurandosi di vederli arrivare in tempo prima che succedesse il peggio. Mario attaccò il carretto al cavallo e corse alla volta di Cairo, passando da Gambarana, tagliando per San Martino fino alla Guja.

Arrivò sulla via principale del borgo e si mise ad urlare: “Severino, Francesca, vostra madre sta molto male”. Soltanto Felice sentì quella voce che arrivava dalla strada, uscì e apprese la brutta notizia dal Mariu däl Burg. “Von a ciämà päpà che l’è in més di cämp(vado a chiamare papà che è in mezzo ai campi) disse Felice che si precipitò verso la campagna alla ricerca di Severino. Mariu intanto aveva caricato Francesca sul carro. Dopo circa quindici minuti arrivarono, saltarono sul sedile e il Mariu afferrata la frusta fustigò il povero cavallo partendo come una furia alla volta del Burg. “Sperumä dä fa in temp gioiä(speriamo di fare in tempo, gioia) disse mamma Francesca a Felice, asciugandogli il sudore dalla fronte per la folle corsa. Speravano di giungere in tempo e di vederla ancora per l’ultima volta.

Arrivarono finalmente al Burg ed in prossimità della casa di zia Cristina, Felice saltò giù dal carro e si precipitò in casa. Severino e Francesca lo raggiunsero subito dopo, insieme al Mariu. La visione del piccolo non fu delle migliori. Era soltanto un bambino e, sicuramente era la prima volta che vedeva un moribondo. Titubante, prese coraggio e si avvicinò al letto sul quale giaceva la nonna.

 “Nonna, mi senti?” le chiese timidamente “…vero che mi senti?” aggiunse con la stessa tonalità di voce dandole un bacio sulla fronte. Nonna Maria, agonizzante, aprì gli occhi e quando riconobbe Felice, accennò un timido sorriso e disse: “Gioiä bélä, son propi cuntentä che t’è gnü ä truàm(Gioia bella, sono proprio contenta che sei venuto a trovarmi). Poi, carezzandogli il viso, alzò la testa trovando gli sguardi compassionevoli di tutti i suoi figli e dei nipoti. La stanza era piena di calore famigliare e d’amore per nonna Maria.

I suoi grandi occhi pieni di commozione parlavano da soli passando in rassegna ognuno dei presenti, si soffermò un attimo in più sui figli: Severino, Cristina, Veneranda e Marianna. A loro rivolse le raccomandazioni più importanti, tutte le premure che una madre è solita fare ai figli, anche se già maturi e sposati. Il suo testamento non aveva un valore economico perché la famiglia era povera ma avrebbe lasciato un ricordo indelebile nel cuore di tutti. Maria, nelle sue ultime ore di vita mostrava una serenità imperturbabile come chi non ha pegni con la vita. 

Volle che tutte le persone presenti uscissero dalla stanza ad eccezione dei quattro figli ai quali fece un discorso semplice ma concreto. Mamma Maria parlava soltanto in dialetto, l’italiano lo conosceva poco, non sapeva né leggere né scrivere ma la saggezza che usciva dalle sue semplici parole era qualcosa di veramente disarmante. Si rivolse ad ognuno di loro dicendo, con molta fatica: “Son cuntentä cä si tüti chi insémä ä mi. Ünestà, sempär, värgognä, mai. Téstä ältä, guärdè ävänti pärchè i temp i gnärän veräment dür. Eh, ültmä robä … äm räcumändi … tinì dä cünt i mé fiulìn”. (Sono contenta che siate tutti qui insieme a me. Onestà, sempre, vergogna mai. Testa alta, guardate sempre avanti perché i tempi che verranno saranno veramente duri. Eh, ultima cosa, mi raccomando, abbiate riguardo per i miei bambini)

Non avrebbe mai fatto preferenze perché i suoi figli e i nipoti erano da lei considerati tutti allo stesso modo ma, in punto di morte, Maria guardò Severino e gli raccomandò queste parole: Pär äl mé Felicìn lä särà longä lä sunadä: stag ädrerä finché ät säré in grad!”. (Per il mio Felicino sarà molto lunga, stagli dietro finché sarai in grado!)[2]

Abbassando il capo spalancò gli occhi e pronunciò le ultime parole della sua vita: “Ä von!” (Vado!). E mamma Maria, dolcemente, spirò.

Erano le cinque della sera del 5 febbraio 1829 quando la morte si presentò in quella casa portandosi via Maria Domenica Biancardi[3] di 68 anni. Don Francesco, le chiuse gli occhi e le diede un’ultima benedizione. Intanto i figli uscirono dalla stanza per comunicare a tutti quello che era appena accaduto.

Il piccolo Felice corse in braccio alla mamma e pianse disperato chiedendole: “Adesso allora la nonna è in cielo?”. Lei gli rispose: “Si gioiä, lä nonä l’é in pärädis(si gioia, la nonna è in paradiso)

Il bambino si rannicchiò in un angolo della stanza stringendo al petto il bambolotto di pezza che nonna Maria gli aveva regalato. Per lui era un tesoro prezioso e non se ne sarebbe mai più separato.



[1] Lei è Degiorgi Ildegarda Cristina (1789-1866), sposata con Giuseppe Antonio Alliori, morto nel 1828 a soli 37 anni. Si sposa a Borgofranco nel 1811. È la quartogenita della famiglia di Maria e di Giulio Degiorgi, sorella si Severino.

 

[2] Come se nonna Maria sapesse che la vita di Felice sarebbe stata lunghissima: difatti visse 90 anni. Le sue parole furono come un segno premonitore, come se lei se lo sentisse che quel bambino era geneticamente predisposto a vivere più a lungo di tutti gli altri.

[3] Maria Domenica Biancardi, nata il 4 settembre 1760 da Carlo Francesco Biancardi e Francesca Trotti. La famiglia si trasferisce a Borgofranco da un altro comune perché le prime notizie su di loro ci sono a partire dal 1660. Nell’archivio parrocchiale di Suardi le registrazioni iniziano dal 1580 quindi negli 80 anni precedenti non ci sono persone con questo cognome. Maria Domenica è la quartogenita di 10 figli. Le notizie su questa famiglia si fermano al suo bisnonno, Francesco, nato a Borgofranco nel 1660. I suoi nonni paterni si chiamavano Antonio (1699) e Marta Millo (del fu Francesco).

 

 

FELICE E LA SUA “BIBBIA”

 

Severino Degiorgi era un brav’uomo, un contadino al servizio degli Isimbardi e vivendo in quel grande palazzo, sulla via principale, veniva spesso a contatto con alcuni di loro. Severino non era andato a scuola ma aveva offerto a suo figlio l’opportunità, vivendo li, di apprendere qualche nuova parola o frase dai figli dei signori (i siùr) talvolta fermandosi a passare un po’ di tempo con loro. Felice giocava con il bambolotto di pezza, dono della nonna Maria e loro con i giochi più sofisticati e “moderni” in legno pregiato. Era il 1830, Felice aveva 10 anni e imparò a leggere da solo, seguendo talvolta le lezioni che il precettore insegnava ai piccoli benestanti.

Vedendo la curiosità del bambino, il parroco di Cairo don Giuseppe Ferrari[1] che conosceva Severino lo informò che il maestro di scuola, Lancellotto Maino, oltre a svolgere il lavoro di insegnante, impartiva lezioni ai bambini meno abbienti (la sua famiglia era benestante, composta per lo più da avvocati e notai). Il sacerdote affidò a Felice un libro molto particolare: un compendio religioso chiamato Bibbia del nuovo e vecchio testamento[2] sul quale, prima il bambino e poi anche Severino impararono a leggere e a scrivere. Le giornate di Felice erano pertanto intense, iniziando all’alba con la partecipazione alla Messa insieme al padre e successivamente al lavoro nei campi. Seguivano poi la messa del vespro e la lezione scolastica dal maestro Maino che svolgeva a turno (una sera il figlio e una sera il padre) per poi rincasare, stanco e affamato. Quel poco che apprendeva gli sarebbe servito sicuramente in futuro. 

Nel 1834, il ragazzo aveva 14 anni e decise di mettere una firma su quel “compendio” onde permettere, in caso di un suo smarrimento, di vederselo restituire. E visto che veniva da tutti chiamato “Filicìn” per la statura piuttosto minuta[3] si firmò “Filicìn Degiorgi” a chiare lettere. Sfogliando quella “Bibbia” si sentiva grande, più sicuro perché sapeva leggere ed iniziava a pensare che il mondo avesse qualche segreto in meno, data la sua maggiore conoscenza delle cose. Alla sera, prendeva da parte suo padre e gli leggeva qualche brano spiegandogli quanto fosse emozionante scoprire i misteri della fede.

Papà, ädés che son bon dä leŝ, ät mustri mi!(Papà, adesso che sono capace di leggere, ti insegno io!) diceva a Severino. “L’è stai propi gentìl äl mäéstär Maino(è stato proprio gentile il maestro Maino). Severino lo guardava compiaciuto perché sentiva – in cuor suo – che quel ragazzo gli avrebbe dato tante soddisfazioni. Soltanto all’idea che a Felice capitasse qualcosa di imprevisto, Severino stava male e quando lo osservava, spesso e volentieri piangeva. Ripensando a quanti anni tribolati aveva passato dopo la perdita del padre (avvenuta quando aveva soltanto 14 anni) e dopo la morte dei suoi tre figli precedenti era spesso sopraffatto dall’angoscia: Felice tuttavia era arrivato come una manna dal cielo, era il figlio che non aveva più sperato di avere. Sia lui che Francesca avevano smesso di pregare ma Dio, che guarda sempre i più bisognosi, aveva deciso il contrario, donando loro una meravigliosa creatura.

Felice passava ore ed ore a leggere la Bibbia che gli stava svelando tutti i “segreti” – come li chiamava lui – su Dio, la Madonna e i Santi. Mamma Francesca gli diceva: “Fiulìn, ät vé no äncurä ä drumì?” (Non vai ancora a dormire?)

Allora prometteva alla mamma che avrebbe letto ancora una pagina alla quale ne seguiva un’altra e un’altra ancora finché non crollava dal sonno sul libro aperto. Il ragazzo era già grandicello, la mamma non lo poteva prendere in braccio come quando era piccolo ma lo portava ugualmente a letto, sorreggendolo come si fa con i vecchi bisognosi di aiuto.

La lettura era il suo passatempo preferito ma non poteva permettersi di comprare libri nuovi. Leggeva qualsiasi cosa gli capitasse tra le mani: dai proclami, alle leggi pubblicate sui manifesti e quando andava in chiesa sfogliava quei giganteschi “messali” scritti in latino e anche se non ne capiva il significato, leggeva lo stesso.

Quella Bibbia aveva acceso in Felice un’innaturale curiosità, che gli permetteva durante il giorno di non sentire la stanchezza e lavorare continuamente con l’intenzione di arrivare a sera e dedicarsi alla lettura. Avrebbe voluto portarselo anche al lavoro ma mamma e papà non volevano perché lo consideravano una distrazione che avrebbe influenzato il suo rendimento.

Prima äl duér, pö äl piasì(prima il dovere, poi il piacere) gli aveva sempre raccomandato nonna Maria e quando pensava a lei, tutto appariva più semplice da realizzare. Felice aveva scoperto che non era solo il lavoro a nobilitare l’uomo ma anche la cultura, il saper fare cose che non tutti potevano permettersi: come leggere e scrivere.

A Borgofranco, almeno 8 persone su 10 erano analfabete e lui si considerava fortunato. Si, Felice e Fortunato, proprio come il nome che portava.



[1] Il parroco che successe a don Carlo Rolandi nel 1828, rimase in carica per 4 anni, fino al 1832, anno in cui morì.

[2] Posseggo ancora questo “compendio”, sgualcito dal tempo ma ancora piuttosto conservato nonostante la sua età. Un oggetto affascinante che trasuda ricordi, storia ed emozioni ancora dopo così tanti anni.

 

[3] Felice, in un documento trovato qualche anno più tardi, era alto 1 metro e 53 centimetri. L’indicazione è stata ricavata dal “passaporto per l’interno” rinvenuto nell’Archivio storico comunale di Pieve del Cairo (la carta d’identità di allora). Purtroppo, non c’è la fotografia.

 

IL RITORNO AL PAESE

 

Il ritorno di Felice a Borgofranco, dopo 10 anni dalla morte della nonna, non fu per un’occasione gioiosa o una ricorrenza di festa ma per un altro lutto familiare. Non era provato emotivamente come per il precedente: l’elaborazione di un evento nefasto all’età di 19 anni è sicuramente diversa rispetto a quando se ne hanno soltanto 9. Nella circostanza era mancato lo zio Pietro Berri e la famiglia si era recata a consolare Marianna[1], la sorella di papà Severino. Il pover’uomo era morto improvvisamente per un incidente, un maledetto incidente sul lavoro: era stato uno dei buoi della sua mandria a provocarne il decesso, incornandolo all'addome. Aveva 50 anni. La disperazione della famiglia era più che comprensibile e Severino abbracciò teneramente la sorella cercando di consolarla per la perdita subita. Con loro c’era il figlio sacerdote, don Luigi Berri, cappellano dell’Ospitale del paese, denominato “Opera Pia San Giacomo”.

Felice si ricordava bene del cugino, erano più o meno coetanei (lui era del ’20 e l’altro del ’18), giocavano insieme da piccoli. Gli tornò in mente un fatto curioso: a Luigi piaceva giocare "a fare il prete" ed ora, lo era diventato veramente. Durante la cerimonia funebre per lo zio Pietro, ritornò con nostalgia agli anni dell’infanzia e sebbene il suo desiderio era di restare per qualche giorno nei luoghi che lo avevano visto bambino, sapeva bene che il lavoro non poteva aspettare e doveva far ritorno a Cairo con mamma Francesca il prima possibile perché, l’indomani avrebbe dovuto adempiere ai suoi doveri.  Papà Severino si sarebbe fermato qualche giorno a casa della sorella per aiutarla a sbrigare alcune faccende urgenti.

Don Francesco Bosio, lo stesso sacerdote che aveva battezzato Felice 19 anni prima, era ancora parroco di San Bartolomeo. Lo rivide con piacere e si abbracciarono calorosamente, come due vecchi amici:

“Tu sei Felice, vero? Ora sei un uomo buono e responsabile che presto troverà la sua strada. Ti sei già sistemato?”

“Don Césco, son no äncurä spusà” (Don Francesco, non sono ancora sposato) gli rispose.

 Il parroco riprese: “Figliolo, non preoccuparti, verrà presto il tuo momento”. E mentre gli parlava, indicò con lo sguardo una giovane fanciulla che si era recata a pregare e che la famiglia Degiorgi conosceva bene da quando, con i genitori, si era trasferita da Gambarana a Borgofranco.

La osservò da lontano e notò che era molto bella. Era in compagnia di un’amica mentre il padre era fuori sul sagrato ad aspettarle. Il tempo che Felice aveva a disposizione era veramente poco, dovendo ripartire per Cairo prima di sera e non fu possibile, in quel frangente, trovare un momento per farli incontrare.

Chiese a don Francesco: “Me clé äl so nom?” (Quale è il suo nome?).

Rispose: “Si chiama Rosa, fa la filatrice a Gambarana”.

Prima di congedarsi, Felice provò a raggiungerla riuscendo solamente a salutarla in modo piuttosto goffo ed impacciato.  La ragazza sorrise, contraccambiò il saluto e scappò fuori prendendo per mano la sua amica. L’approccio tentato durante un funerale non era stato dei migliori ma l’occasione era quella e doveva sfruttarla a proprio favore. Come da una terra arida può nascere un fiore, da un momento triste poteva sbocciare un amore? Probabilmente sì. Una cosa era certa: Rosa lo aveva salutato e questo semplice gesto gli aveva suscitato una forte emozione.

Se nella circostanza non era stato possibile un approccio più diretto, si sarebbe ripresentata senz’altro una seconda occasione. Felice, molto probabilmente, si era invaghito di Rosa e intendeva rivederla, a tutti i costi.

Don Francesco gli aveva detto che aveva 18 anni, che abitava al Burg ma che ogni giorno si recava al lavoro a Gambarana. Lui considerò che la distanza che li separava non era poi così grande e che sarebbe stato possibile rivederla. Doveva osare. 

La sua non era una famiglia composta da molte persone, come le classiche famiglie patriarcali. Loro erano soltanto in tre: papà, mamma e figlio. Le bocche da sfamare non erano molte e quindi l’esigenza di abbandonare la propria casa non c’era e lasciare libero un posto non era così importante. Tuttavia se per Felice il pensiero di metter su famiglia non si era ancora presentato era altrettanto vero che quando l’amore arriva, bisogna farsi trovare pronti. Lui non aveva mai preso in considerazione la possibilità di andarsene di casa, non appena raggiunta l'età da matrimonio, assolutamente no! Era sempre stato un bambino tranquillo, poi un ragazzo pacato ed ora un giovane con la testa sulle spalle, intelligente e volenteroso, pronto ad affrontare il suo tempo e le sue responsabilità in un mondo che stava cambiando velocemente.

Don Francesco gli aveva dato l’imbeccata e se non fosse stato per il prete forse non si sarebbe nemmeno accorto che quel giorno, al funerale di zio Pietro, c’era quella ragazza e che grazie a quell’incontro, qualcosa nella sua vita sarebbe cambiato.

 



[1] Marianna Degiorgi era l’ultima figlia di Giulio Degiorgi e di Maria Domenica Biancardi, sorella di Severino. Nata nel 1792, sposata a Pietro Giuseppe Berri nel 1810. Dal loro matrimonio nascono 5 figli tra i quali Don Luigi Berri, divenuto poi cappellano dell’Opera Pia San Giacomo (l’Hospitale di Borgofranco)

 

L’INCONTRO CON ROSA

 

Felice aveva quasi vent’anni e da uomo qual era diventato desiderava finalmente concretizzare l’incontro con Rosa. Nel 1840, Rosa, dopo un breve periodo vissuto a Borgofranco (perché il padre, che faceva l’oliaro, aveva trovato lavoro li), si era trasferita a Gambarana. Per la ragazza era più comodo, dovendo spostarsi di poco per recarsi al lavoro. Per il giovane era giunto il momento di poterla frequentare con più assiduità, date le pochissime occasioni avute in quell’anno. Lei riuscì a mettersi in contatto tramite don Luigi Berri, cugino di Felice, approfittando di un incarico che l'avrebbe portato a Cairo.

Il giovane sacerdote arrivò a Cairo, verso sera e si presentò a casa di zio Severino per parlare con Felice che, nel frattempo, era tornato dal lavoro nei campi. Don Luigi portò con sé questo messaggio: “Rosa ti vuole incontrare domani sera, davanti alla Chiesa Parrocchiale di Gambarana”. Emozionato, Felice non stava più nella pelle e pensò che il suo momento stava per arrivare. Quello in cui aveva sperato, forse, stava per avverarsi.

Era un giorno di maggio, le giornate si stavano allungando, il sole splendeva alto in cielo e c’era nell’aria quel tepore tipico della primavera. Felice partì per la sua destinazione. Era Felice, di nome e di fatto, perché avrebbe incontrato Rosa.

Arrivò davanti alla Chiesa Parrocchiale, lei non c’era ancora ma pochi minuti dopo giunse accompagnata da un’amica che subito li lasciò soli e se ne andò. L’approccio fu quello di due giovani ragazzi un po’ timidi ed impacciati. Felice ruppe il ghiaccio balbettando solamente un flebile “Buonasera!” che la fanciulla ricambiò.

Le prese la mano e la accompagnò a sedersi sul muretto antistante il sagrato. Iniziarono a conoscersi nel modo più semplice e sobrio possibile.

Felice lasciò a Rosa il compito di presentarsi.

“Mi chiamo Rosa Ferrante, ma tutti mi chiamano Rosetta, sono nata l’8 gennaio 1821, ho 19 anni compiuti, faccio la tessitrice qui in paese. Papà si chiama Michele, fa l’oliaro e mamma che purtroppo non c’è più, si chiamava Teresa Nardi e faceva la tessitrice, come me. Sono nata a Tortorolo e sono l’ultima di quattro figli. Sono l’unica femmina”

Mentre parlava trasmetteva al giovanotto una forte emozione. La sua voce era dolce, suadente e ogni tanto accarezzava i suoi lunghi capelli biondi con le dita. Poi disse: “Felice, raccontami qualcosa di te”. 

Il ragazzo prese fiato, fece un bel respiro ed emozionato, esordì: 

“Mi chiamo Felice Degiorgi ma tutti mi chiamano Filicìn perché, come puoi vedere, sono piccolo di statura. Sono nato il 21 Settembre 1820 a Borgofranco, compirò vent’anni tra qualche mese. Papà si chiama Severino e mamma è Francesca Guarnaschelli. Abitavamo a Borgofranco ma quando ho compiuto tre anni con la mia famiglia ci siamo trasferiti alla cascina Guja, nel comune di Cairo. Sono figlio unico perché i miei genitori, come mi è stato raccontato, hanno avuto tre figli prima di me che – purtroppo - non sono sopravvissuti.”

Incuriosita da quello che Felice stava dicendo, si avvicinò prendendogli la mano e dandogli un bacio sulla guancia. Lui, meravigliato ma anche contento del gesto, contraccambiò con galanteria, dandole prima un bacio sulla mano e poi un altro sulla fronte. Avevano rotto il ghiaccio! 

La conversazione andò avanti spedita, le domande si susseguivano una dopo l’altra e così le risposte. Si raccontarono praticamente tutto della loro vita, dei loro sogni e delle loro aspirazioni. L’entusiasmo, il coinvolgimento e l’emozione erano così mescolati tra di loro che le ore passarono in fretta tanto da non accorgersene. Si era fatto buio. Nel 1840 non c’era la luce elettrica ma quella sera c’era una meravigliosa luna che illuminava ogni cosa. Rosa e Felice sembravano conoscersi da sempre, le loro parole ormai non erano più impacciate ma fluenti come le onde del mare. La luna sembrava avvolgerli nella sua luce creando una magica atmosfera. Il silenzio regnava sovrano, si udivano solo le loro parole sovrastare ogni altro tipo di rumore.

Quando si accorsero dell’ora tarda, si ritrovarono a ridere pensando che, magari, qualcuno si stava domandando dove fossero finiti e, non volendo impensierire i loro famigliari, si decisero a intraprendere la strada di casa. Felice la accompagnò e camminando si tenevano per mano. La ragazza, sulla soglia dell’uscio, diede un dolcissimo bacio a Felice che contraccambiò, stavolta con meno galanteria e con più confidenza.

“Quando ci vediamo Felice?” domandò Rosa visibilmente dispiaciuta di doverlo lasciare. “Magari domani sera?” riprese nuovamente. Sicuro di sé, il ragazzo rispose: “Non preoccuparti Rosa, tornerò prestissimo da te e staremo di nuovo insieme, come stasera. Dimmi una cosa: sei stata bene?”

Lo guardò con quei suoi stupendi occhi verdi, illuminati dalla luce della luna e con un meraviglioso sorriso disse: “Certo che sono stata bene: non vedo l’ora di rivederti di nuovo”.

Il ragazzo si incamminò verso casa ma lei lo chiamò: “Felice, Felice, aspetta: mi daresti ancora un bacio?”. Tornò indietro correndo, lei gli volò in braccio e lui, senza farselo ripetere una seconda volta, le diede un bacio stringendola forte a sé. Fu Felice, in quella occasione, a prendere coraggio e a dirle quelle due parole che avrebbero sigillato il loro incontro: “Ti amo!”

Era un sentimento sbocciato a maggio, come una travolgente primavera di fiori, colori, profumi e sensazioni uniche ed irripetibili.

Era notte fonda quando Felice arrivò a casa ma nel suo cuore c’era un tumulto di emozioni così forte da non riuscire a prendere sonno: aveva sempre in mente la sua Rosetta che, nonostante l’avesse appena salutata, già gli mancava. L’agitazione, l’emozione e chissà quale altro sentimento, non gli permisero di prender sonno e le poche ore che sarebbero servite a riposare, le trascorse a pensare e a guardare quella luna che, galeotta lo stava ispirando così profondamente, a tal punto da suggerirgli una poesia: 

 

“La bellissima Rosetta - il suo Felice aspetta.

Lo aspetta con gli occhi, lo aspetta col cuore …

… e Felice arriva, col suo grande amore”

 

Cosciente del fatto di non aver scritto un brillante componimento o chissà quale eccellenza letteraria, era compiaciuto di quello che aveva pensato ed aveva messo per iscritto d’impulso, perché – come diceva lui – altrimenti se ne sarebbe dimenticato in pochi istanti. Era una poesia semplice, quasi banale ma – per lui – era un vero capolavoro dettato dal cuore per la sua Rosetta.

Tra un pensiero e l’altro e l’agitazione rimasta a Felice dopo il loro incontro, arrivò mattino al canto del gallo. La devozione lo spingeva ogni giorno a presenziare alla Santa Messa dell’alba insieme a suo padre Severino. Il ragazzo era stanco perché non aveva dormito molto, anzi, non aveva dormito per nulla, passando la notte a pensare a Rosetta e a quando avrebbe potuto rivederla.

… e si rividero di nuovo, ovviamente perché tra di loro stava nascendo una bellissima storia d’amore.

 

ADDIO MAMMA

 

Dopo un’estate di caldo piuttosto intenso, stava arrivando l’autunno e – a detta degli anziani, non solo perché sentivano i dolori alle ossa ma soprattutto perché conoscevano molto bene le stagioni – quello sarebbe stato un autunno freddo con un inverno decisamente rigido[1]. Il 10 ottobre 1840 era una normale giornata lavorativa, anche se era di sabato. Felice e Severino erano, come di consueto, nei campi e la mattina era quasi terminata. Durante la pausa del pranzo consumata con un po’ di pane e formaggio ricevettero una sgradita notizia: mamma Francesca si era sentita male, improvvisamente. Ad avvisare fu il vicino di casa, Amedeo Re, corso a chiedere loro di tornare a casa il più in fretta possibile. Severino che non era più un ragazzo ma un uomo di ormai 54 anni e con qualche acciacco fisico, disse a Felice: “Ti che t'è giun, curä sübit ä cä dä lä mamä che mi intänt ä rivi” (tu che sei giovane, corri subito a casa dalla mamma che io intanto arrivo). 

Si precipitò verso casa dicendo a suo padre: “Am räcumändi, fa präst äncä ti ä rivà” (mi raccomando, fai presto anche tu ad arrivare).

Attraversò tutto il campo in pochi minuti e di gran carriera arrivò a casa. “Mamä, mamä, in duä t’è?” (Mamma, mamma, dove sei?). La trovò riversa sul letto, in modo scomposto. La postura era chiaramente dovuta ad un mancamento improvviso. La testa non era appoggiata sul cuscino ma verso il centro del letto, le braccia incrociate sul petto come a voler proteggere il cuore o a lenire un dolore forte che proveniva da lì. Felice la chiamò ma, in un primo momento, senza ottenere risposta.

Allora cercò di prenderla in braccio per sistemarla più comodamente. Francesca emise un forte gemito: probabilmente Felice, muovendola, le aveva fatto male. “Scüsä mamä, t’hö fai mal?” (Scusa mamma, ti ho fatto male?). In qual momento Francesca si ridestò e guardando Felice disse: “T’è rivà gioiä bélä? T’äspitavä propi” (Sei arrivato gioia bella? Ti aspettavo proprio).

Lui la rassicurò: “Mamä, ädes son chi, stà tränquilä” (mamma, adesso sono qui, stai tranquilla). Nel frattempo arrivò Severino che, quando la vide distesa sul letto insieme a Felice, scoppiò in lacrime, pensando al peggio. Accorse, in quel mentre, anche un signore della famiglia Isimbardi che, gentilmente, mise a loro disposizione un cavallo ed una carrozza nel caso dovessero accompagnarla dal medico. Felice comprese quanto fosse troppo dolorante per poterla muovere.  Proprio in quel momento passò Salvaneschi, il campanaro, di passaggio verso la chiesa. Felice gli disse: “Giüsép, và ä ciämà äl prevost, pär piäsì” (Giuseppe, vai a chiamare il prevosto, per favore). L’uomosi affrettò ed il parroco accorse poco dopo. Don Giovanni Braccio era un bravo sacerdote e vedendo il dolore che stava provando Francesca in quel momento, le diede, solo a scopo precauzionale, l’estrema unzione. Severino pianse disperato ma il sacerdote lo rimproverò: “Severino, tua moglie non è morta, l’estrema unzione non si dà ai morti ma ai vivi, affinché la benedizione del buon Dio la faccia riprendere”. Allora quell’uomo si rasserenò e cominciò a pregare. Intanto il signor Isimbardi, corse a chiamare il medico di Pieve del Cairo, il dottor Aliprandi. Il figlio – confortato dal fatto che la mamma fosse assistita dal prevosto e dal padre – si recò dallo speziale Marianini a prenderle qualcosa per i forti dolori all’addome che avvertiva.

Il medico, accorso un quarto d’ora dopo, visitò Francesca e dopo averle palpato l'addome ipotizzò   un blocco intestinale temendo per lei una difficile se non impossibile ripresa. Se avesse superato la notte, l’indomani si sarebbero potuti augurare una lenta guarigione ma, vedendola così sofferente non poteva far altro che   alleviarle il dolore con le erbe medicamentose che Felice si era procurato dallo speziale. Francesca prese la mano del medico e le chiese: “Dutùr, cäm disä lä vrità, son drè murì?” (Dottore, mi dica la verità, sto morendo?). Il dottore gliela strinse forte e le accarezzò il volto. Lei comprese e, sfiduciata ma serena, chiese: “Cäm ciàmä i mé om” (chiami i miei uomini). 

Lui li chiamò e li accompagnò dalla donna che, distesa a letto sembrava volersi ormai abbandonare alla sorte.

“Gnì chi dä mi, tüti dü!” (Venite qui da me, tutti e due!) sussurrò mamma Francesca con voce flebile. I due uomini, apparentemente così forti, sembravano impreparati a quanto sarebbe potuto accadere da un momento all’altro, ma le si avvicinarono. Erano quasi le tre del pomeriggio del 10 ottobre e gli ultimi istanti di vita della donna si stavano compiendo, davanti agli occhi increduli, impreparati e pieni di lacrime dei suoi cari. Francesca sembrò quasi sorridere: “Piänsä no Felice, piänsä no Severino, lä mort lä fa part äd lä vita e duumä äcetàlä, sensä gni mat” (non piangere Felice, non piangere Severino, la morte fa parte della vita e dobbiamo accettarla, senza diventare matti). E accarezzando prima il volto di uno e poi dell’altro, si spense serenamente pronunciando le sue ultime parole: “mamä, papä, ä rivi!” (Mamma, papà, arrivo!).  Volse il capo verso il crocifisso alla parete e si addormentò per sempre, lasciando tutti nello sgomento.

Francesca Maria Guarnaschelli se ne andò il 10 ottobre 1840, alle tre del pomeriggio in punto e i rintocchi della campana che suonò “a morto”, raccomandarono ai contadini di levarsi il cappello in segno di rispetto e di raccogliersi in preghiera, pur non sapendo ancora chi della loro piccola comunità fosse morto.

La tristezza e la disperazione ghermirono la famiglia Degiorgi e tutta Cairo si strinse attorno a loro, offrendogli il conforto e le preghiere necessarie. La voce di quella disgrazia circolò velocemente tra le contrade del borgo e le anziane donne mormoravano tra loro: “Lä särà dürä pär cui dü om, sensä unä donä in cà” (sarà dura per quei due uomini, senza una donna in casa). Severino si inginocchiò e si fece il segno della croce, Felice pensò alla sua Rosetta, l’avrebbe voluta accanto a sé per consolarlo del grande dolore. Si inginocchiò vicino al padre, facendo a sua volta il segno della croce e insieme si misero a pregare raccomandando a Dio l’anima di Francesca, che per l’uno era stata una sposa premurosa e per l’altro una madre amorevole. Aveva 57 anni spesi tutti per la famiglia e per il lavoro. Non ebbe modo di conoscere suo padre, mancato nel 1785 quando aveva 2 anni pur avendolo sempre ricordato come un grande esempio per la famiglia.

Felice, preso dallo sconforto, corse fino a Gambarana, passando per i campi e arrivò da Rosetta. Le disse, piangendo: Mamma è morta!”. La ragazza lo guardò amorevolmente e se lo strinse al petto, sussurrandole parole di consolazione. Aggiunse “Adesso cosa faremo? Dovrai badare a tuo padre, aiutarlo di più e d’ora in avanti ci vedremo molto meno”. I due ragazzi, ora, erano nella stessa situazione perché Felice aveva perso mamma Francesca e Rosetta, anche lei, aveva perso alcuni anni prima mamma Teresa. Ad entrambi mancava un pezzo di cuore ma si scambiarono una promessa: costi quel che costi si sarebbero sposati.

Lui aveva compiuto vent’anni a settembre, lei non ne aveva ancora diciannove. Erano due giovani con la testa sulle spalle e grandi lavoratori pieni di speranze per un futuro migliore. Perché non coronare tutto questo sigillando il loro amore con la una promessa di matrimonio? Non avevano una casa tutta loro ma Rosetta era fiduciosa e Felice non sarebbe stato da meno. Avevano entrambi un lavoro, erano forti ed, in piena salute. E il resto? Beh, il destino e il buon Dio avrebbero fatto il tutto l’occorrente. Felice guardò il cielo e le disse: “Tesoro, ci siamo conosciuti in un giorno di primavera e ti prometto che il prossimo anno, a maggio, ti sposerò e saremo felici”. Aggiunse: “I nostri nomi, Rosa Ferrante e Felice Degiorgi, saranno scritti nel libro della vita. Ti amo”

Era successo tutto in pochi mesi ma Felice era certo che Rosetta fosse la persona giusta. Solo il tempo gli avrebbe dato ragione.



[1] L’inverno 1840-1841, dagli annali conservati negli archivi, fu un inverno molto rigido e un’ondata di freddo colpì la totalità dell’Europa Occidentale.

 

IO TI PRENDO COME MIA SPOSA

 

Felice aveva compiuto vent’anni in settembre, il lavoro andava bene e papà Severino, ripresosi dopo la morte della moglie, stava discretamente. Le loro giornate erano scandite sempre allo stesso modo: messa dell’alba, lavoro nei campi, messa del vespro, casa. Ma a quella routine quotidiana si era aggiunto un appuntamento necessario a entrambi: fare visita al cimitero alla tomba di mamma Francesca. Senza quella tappa, nessuno dei due sarebbe tornato a casa sereno. Un pensiero, un requiem aeternam, uno sguardo al cielo, un piccolo fiore e un bacio rivolto a lei. Ogni sera, tornando a casa, avrebbero così avuto il cuore più sereno.

Severino era contento della relazione tra Felice e Rosetta e vedeva di buon occhio quei giovani che non nascondevano il proposito di metter su famiglia. Si rivedeva giovane quando, nel 1805, a soli diciannove anni, aveva sposato Francesca a Cambiò[1]. L’età era quella e la situazione pressoché analoga. Sperava, in cuor suo, che questa coppia non soffrisse come avevano sofferto loro durante i primi anni di matrimonio e che la buona sorte gli sorridesse. Voleva molto bene a Rosetta e vedeva in lei la donna giusta per il figlio, quella che lo avrebbe accompagnato per il resto della vita.

Rosa, chiamata Rosetta, era una fanciulla decisamente graziosa, con i capelli biondi dai riflessi dorati raccolti sopra la nuca con un “ciuròn” e gli occhi verdi. Era di statura media e vestita in modo sobrio, senza fronzoli. Aveva un viso acqua e sapone da ragazzina buona e ben educata. Le sue mani, piccole avevano dita lunghe e affusolate, proprie di una tessitrice.  Un lavoro che le aveva insegnato mamma Teresa. Fin da bambina le piaceva mettere insieme rimasugli di stoffa per guarnire la sua unica bambola di pezza (lä bigòtä). Da quando era morta la mamma di Felice, frequentava più assiduamente la casa dei Degiorgi, facendo la spola tra Gambarana e Cairo. Il suo modo di fare era sempre quello di una ragazza “affaccendata” (sidià), attenta, premurosa. Credeva in tutto quello che faceva, senza lasciare nulla al caso e ogni azione compiuta aveva uno scopo preciso. Ma su tutto ciò c’era un sogno che dominava su ogni altra cosa: sposare il suo Felice ed essere “felice” con lui.

Felice, detto Filicìn, era un ragazzo tranquillo, pacato, sia nel modo di fare che nel pensare. Un uomo dall’atteggiamento fiero e un po’ orgoglioso, non sprovveduto. Era piccolo di statura, capelli ramati, occhi scurissimi, già con qualche rughetta sulla fronte, nonostante i vent’anni. Sul volto, i suoi lineamenti erano grossolani, grezzi. Il naso un pochino schiacciato, labbra sottili e due elegantissimi baffetti (tipici proprio dei ragazzi di quell’epoca) che curava maniacalmente pettinandoli all’insù. Al contrario, dei baffi di Severino che erano folti ma poco curati e guardavano in basso coprendogli la bocca. Perfettamente inserito nel suo tempo, Felice era il ragazzo che ogni donna sognava come marito perché molto gentile, galante, premuroso e un po’ "sornione" e Dongiovanni. La sua bontà era conosciuta sin da quando era bambino a Borgofranco e poi da ragazzino ed adolescente a Cairo. Severino diceva sempre: “L’è un pcà vureg no ben äl mé fiö” (è un peccato non voler bene a mio figlio). La sensazione era quella che, ovunque lo portasse la vita, tutti gli avrebbero voluto bene poiché quel giovane si spendeva per gli altri.

I due ragazzi erano sereni e soddisfatti della condizione in cui vivevano: poveri ma contenti. Non vivevano nell’indigenza pur non avendo troppi soldi da spendere. Quello che guadagnavano, lei come tessitrice, lui come contadino, sarebbero serviti per il futuro. Avevano poco, sia l’una che l’altro. Rosetta aveva una piccola “dote” che mamma Teresa le aveva preparato senza tuttavia poter terminare (a causa di un malore improvviso che l’aveva colta mentre ci lavorava): un lenzuolo matrimoniale, due federe ricamate ed una grossa coperta. Per Rosa era sufficiente e dato che era brava nel suo lavoro, l’aveva ultimata, riprendendo proprio dal punto in cui la sua mamma l’aveva lasciata. Lui aveva ben poco del genere ma Severino, che oltre ad essere un contadino era anche un discreto falegname, gli aveva costruito – quando era ancora piccolo – delle posate in legno, due bicchieri, due ciotole piccole e due grandi. Le aveva riposte in un armadio senza mai usarle sapendo che un giorno gli sarebbero servite. Insieme a quelle stoviglie, Felice aveva trovato un foglio piegato in due con dentro un trifoglio seccato (fiur säc) che i genitori gli avevano custodito in segno di felicità e di fortuna (proprio come il nome che portava)[2].

Due doti diverse, quella di Rosetta più femminile, quella di Felice più maschile. Due corredi che, uniti insieme, significavano “casa”, focolare domestico, condivisione, famiglia. I ragazzi si frequentavano da circa un anno e si sentivano pronti a sposarsi. I preparativi non erano sicuramente quelli di oggi, anzi, allora non   si pensava certo ai regali, agli invitati e al ristorante. Intanto c’era bisogno di stabilire una data e, non necessariamente doveva essere di sabato o domenica. Ogni giorno, a quei tempi, era considerato lavorativo, si celebravano i santi e si vivevano intensamente le stagioni e la vita di campagna scorreva lenta e inesorabile. Le persone della loro condizione sociale non conoscevano molto del mondo.  Si guardava al proprio “orticello” e si viveva in pace con tutti.

Rosetta, quel giorno, era in compagnia del padre Michele, venuto ad aiutare Severino a sistemare un attrezzo agricolo piuttosto pesante. La ragazza gli chiese se avesse preferenze sulla data ma lui rispose: “Mé carä fiölä, pär ti färis quälsiäsi robä e bastä che ällä sapiä äncä äl dì prima” (mia cara figlia, per te farei qualsiasi cosa e basta che lo sappia anche il giorno prima). La risposta di Michele trapelava la sua felicità per quell’evento. In questo clima semplice e sereno, i ragazzi decisero di programmare il loro matrimonio per l’11 maggio del 1841, martedì. Il solenne rito si sarebbe celebrato a Gambarana, nella chiesa parrocchiale dedicata ai santi Pietro e Biagio.

 Il giorno in cui i ragazzi pensarono ad una data per il matrimonio non era un giorno qualsiasi ma domenica 11 aprile, Pasqua del Signore del 1841. Il matrimonio si sarebbe celebrato esattamente un mese dopo, in maggio, nel mese dedicato alla Madonna. Sia i Ferrante che i Degiorgi erano due famiglie molto credenti, accomunate da un grande fervore cristiano.

La vita dei due ragazzi e delle loro famiglie, proseguì regolarmente senza problemi fino al giorno fatidico. Il martedì 11 maggio era finalmente arrivato, su Cairo splendeva il sole così come sull’intera Lomellina: era proprio la giornata ideale per sposarsi.

I due promessi si stavano preparando, ognuno a casa sua. Nel frattempo, la famiglia Degiorgi aveva cambiato casa e da Cairo si era spostata a Pieve del Cairo non compiendo di fatto tanta strada ma semplicemente attraversando una “roggia”[3]. Dall’11 di Novembre (festività di San Martino) Severino aveva trovato lavoro presso un facoltoso agricoltore pievese e la famiglia si era trasferita lì[4] stabilendo la propria residenza in Contrada del Po[5]. Quel breve spostamento permise loro di non allontanarsi   più di tanto dai parenti di Gambarana e di Borgofranco, dove ancora risiedevano le sorelle di Severino e i fratelli di Rosetta.

Felice era bellissimo con indosso il suo vestito nuovo, di un bel marrone scuro e portava un foulard al collo, come si usava in quel periodo. Severino, anche lui elegante con un vecchio vestito, era visibilmente emozionato e aveva gli occhi lucidi. 

Per gioco, il ragazzo disse a suo padre: “Alurä Pedär, t’è pront?” (Allora Pietro, sei pronto?). Succedeva raramente che Felice chiamasse Pietro suo padre ma, ridendo e scherzando, gli ricordò che il suo primo nome era proprio Pietro, che non usava quasi mai e – come da regolare atto di battesimo del 1786 – Francesco, oltre al nome che usava quotidianamente e con il quale lo conoscevano tutti: Severino[6]. Lui però non era affatto “severo” perché era buono come il pane. 

I due si incamminarono alla volta di Gambarana.   Nessuno li accompagnò perché erano rimasti soli e chissà quanto mancava quel giorno mamma Francesca. Molti sapevano dell’evento del giorno mentre la gente che non ne era a conoscenza, vedendoli per strada così eleganti, li aveva fermati domandando loro: “In duä andè insì elegänt?” (Dove andate così eleganti?). Felice rispondeva semplicemente: “Incö ä mä spùsi” (oggi mi sposo).

In quel di Gambarana invece, li attendeva la bella Rosetta, vestita d'un abito bianco screziato, realizzato e ricamato con le sue mani. Non era un vestito da sposa come lo immaginiamo oggi ma, semplicemente, un abito più elaborato del solito. Rosetta era longilinea, magra e molto bella, pertanto qualsiasi cosa indossasse, avrebbe impreziosito la sua figura. In quel momento le mancava mamma Teresa ma la percepì presente nell’improvvisa folata di vento che le sfiorò i capelli che, per l'occasione, non teneva raccolti ma sciolti. Papà Michele era terribilmente agitato, indossava una camicia un po’ consunta ma impreziosita da un gilet elegante di maglina, pantaloni neri con la riga e le scarpe tirate a specchio, che non sarebbero rimaste lucide per molto a causa del polveroso cortile pieno di gallinelle in libertà.

D’un tratto, intravide due figure avvicinarsi dalla campagna. Erano Felice e suo padre, in arrivo a piedi da Pieve. Il ragazzo ci avrebbe messo molto meno fosse stato solo, ma con il padre al seguito, doveva per necessità mantenere il passo più lento. La sposa ed il padre li videro dirigersi verso la chiesa, dove l’avrebbero aspettata per la cerimonia.

Erano le 9 del mattino, Rosetta decise di indugiare ancora una decina di minuti prima di recarsi alla parrocchia. Come dicevano i vecchi: “Lä spusä lä devä ves in ritärd!” (La sposa deve essere in ritardo). Pertanto, oltre a quei dieci minuti che intendeva prendersi, se ne regalò altri dieci prima di avviarsi accompagnata dal padre e dai tre fratelli. Nel frattempo erano arrivate anche le sorelle di Severino da Borgofranco.  Marianna, Cristina e Margherita erano presenti con le loro rispettive famiglie. Gambarana era in festa, c’erano tutti: mancava soltanto la sposa.

Rosetta arrivò, elegantissima e splendente più del sole, a braccetto di papà Michele. Il sogno dei due giovani si stava realizzando. Felice era già sul sagrato della chiesa ad attenderla mentre, all’altare, don Giovanni Cervi, il padre Severino e tutti i parenti, aspettavano impazienti. Felice, quando la vide arrivare, si commosse.  Poi Michele gli affidò la figlia e si fece da parte, andando ad occupare il suo posto in prima fila accanto al consuocero e a tutti i parenti, (quelli della sposa da una parte, quelli dello sposo dall’altra). Intanto i ragazzi, percorsa l’intera navata centrale, si erano fermati ad un passo dall’altare, accompagnati dal suono dell’harmonium.

Don Giovanni li accolse, i loro padri sorrisero e i due testimoni, si unirono a loro. Per la sposa c’era il fratello Siro Ferrante, di 23 anni celibe, mentre per lo sposo c’era l’amico di suo padre, Giuseppe Sozzi[7] (Pipìn Sus), un contadino di 44 anni nativo di Borgofranco ma residente a Gambarana. Quest’ultimo, accompagnato dalla moglie, aveva portato con sé la figlia, Maria Santina, di 21 anni, molto bella e desiderosa di seguire lo svolgersi del matrimonio. La celebrazione ebbe inizio alle 9.30, alla presenza di moltissima gente accorsa dai paesi e dalle cascine circostanti. Felice e Rosetta vennero interrogati dal parroco il quale, dopo una breve omelia, fece loro recitare la formula di rito:

“Rosa, io ti prendo come mia sposa” disse Felice.

 

“Felice, io ti prendo come mio sposo” disse Rosetta. 

E la gioia fu grande in quel momento. Un coro di preghiere salì dalla chiesa come una lode al Signore al pari di una ventata di speranza per quella coppia che da quel momento in poi costituiva una nuova famiglia cristiana. Rosetta baciò suo marito promettendogli una lunga vita insieme. Poi si voltò e abbracciò forte papà Michele. Felice fece la stessa cosa e ne fu compiaciuto. Uscirono dalla chiesa, gremita di parenti e conoscenti così come di fedeli e di curiosi. Un fragoroso applauso avvolse gli sposi. Tutti volevano congratularsi con loro e molti dei ragazzi presenti, volevano baciare la sposa. Felice, tra la confusione di quel momento, venne raggiunto da Santina, la figlia del Sozzi, suo testimone. La giovane lo salutò timidamente e lui si ricordò di lei quando da piccoli, a Borgofranco, giocavano insieme.  Il ricordo congelò quell’istante. Felice le disse: “Grazie Santina per essere venuta, ti auguro buona fortuna!”. Lei gli rispose: “Di nulla, è stato un piacere!”. E fuggì via, scomparendo tra la folla. 

Era l’11 maggio 1841, Felice e Rosetta erano marito e moglie. Il ragazzo però si domandò per quale ragione l’istante passato con Santina fosse durato così tanto. Un segno del destino? Un incontro casuale o “scritto” da qualche parte, nel libro della vita?

Auguri agli sposi!!!



[1] Loci Campi Beati et Sparvara, nome annotato nei registri parrocchiali di questa chiesa, oggi dedicata alla Vergine Assunta.

 

[2] La simbologia del trifoglio, oltre che al portare fortuna, buon auspicio, riguarda proprio il numero 3 (tre) che nella vita di Felice comparirà spesso, in molte situazioni e sotto diverse forme: sarà interessante scoprirlo.

[3] Una roggia (rusä) è un canale artificiale di portata moderata, proveniente generalmente da un corso d'acqua più ampio; è utilizzato prevalentemente per l'irrigazione e per alimentare mulini ad acqua. Nello specifico caso, questa “roggia” divideva l’abitato di Pieve a quello di Cairo.

[4] Pieve del Cairo sarebbe stata l’ultima tappa del ramo diretto della mia famiglia e d’ora in poi, per questa linea generazionale, tutto avrebbe avuto luogo nei territori di Pieve, Gallia, Mezzana Bigli. Ma… non voglio anticipare troppo.

[5] Contrada del Po, poi Contrada dei Mulini oggi è la Via Antonio Angeleri;

[6] Nella sua ascendenza, Francesco era il nonno materno (Carlo Francesco Biancardi 1729-1788) e proprio Pietro Francesco era il nome del nonno paterno (Pietro Francesco Degiorgi 1708-1782). Non conobbe nessuno dei due.

[7] Giuseppe Sozzi, amico di Severino, nasce a Borgofranco nel 1786, stesso anno di Severino. Sono proprio amici d’infanzia. Nel 1808 sposa Caterina Trabella dalla quale avrà 5 figli. Si spegnerà a Borgofranco nel 1847.

 

SOLTANTO QUATTRO MESI

 

Felice e Rosa erano felici, la loro casa a Pieve nella Contrada del Po si prestava a tanti progetti per il futuro. Severino viveva anche lui in quella casa ma separatamente, lasciando ai due ragazzi lo spazio necessario fatto di confidenze, di intimità e di amore. Appena si fossero sistemati definitivamente, avrebbero pensato di mettere al mondo dei figli: ne volevano molti, a Rosetta piacevano i bambini. 

Passata una mite primavera, quella che arrivò fu un’estate veramente torrida, di quelle umide e calde da togliere il fiato. Felice e suo padre erano in campagna mentre Rosetta era dedita al suo lavoro di tessitrice. Improvvisamente arrivò un temporale. I due uomini riuscirono ad evitarlo, tornando a casa in tempo. Rosetta aveva tardato un po’ ed invitata dalla padrona a rimanere da lei finché la pioggia non fosse cessata, rifiutò perché il suo unico desiderio era di correre a casa il più presto dal suo Felice. La folle corsa sotto l’acquazzone durò più del previsto perché durante il tragitto dovette fermarsi per riprendersi. Si ricordò di quando le dicevano che quando c'è il temporale, è pericoloso fermarsi sotto le piante e, prendendo alla lettera quella raccomandazione corse e si fermò più e più volte sotto il diluvio, senza mai ripararsi. Arrivò a casa completamente fradicia e per poco non svenne. Felice la prese in braccio e cercò di scaldarla. Era luglio, non faceva certamente freddo ma lei, fradicia dalla testa ai piedi, aveva i brividi. Si spogliò e si asciugò, si mise addosso una coperta mentre Felice le preparava qualcosa di caldo che, sicuramente, le avrebbe fatto bene. “Rusetä, t’è risĉià fort, con cul temp chi” (Rosetta, hai rischiato forte con questo tempo). Il temporale cessò, ed in lontananza, verso la strada che portava al Po, apparve un coloratissimo arcobaleno che riempì il cielo di una sfolgorante bellezza. Lo spettacolo della natura invadeva ogni angolo di quel panorama. Felice lo ammirò con stupore accanto a Rosetta che si era addormentata dalla stanchezza. La lasciò riposare fino al mattino seguente.

Il sole era già alto in cielo quando lei si svegliò mentre il marito era già sceso di sotto. Quando scese, trovò una gradita sorpresa ad attenderla: una abbondante colazione con latte appena munto e del buon pane secco da inzuppare. Severino aveva già mangiato, erano le 6 del mattino e tra non molto si sarebbe dovuto recare al lavoro. Rosetta, che quel giorno aveva chiesto di restare a casa dal lavoro, salutò Felice con un bacio e gli diede appuntamento per la sera, quando sarebbero riusciti a stare insieme. Restò sola, era felice ma non si sentiva affatto bene: le era venuta una brutta tosse ma dava la colpa al giorno precedente e a quella folle corsa sotto la pioggia. Decise così di non preoccuparsene eccessivamente e occuparsi viceversa delle sue faccende.

Rosetta si stancò molto e alcuni giorni dopo iniziarono a manifestarsi le prime avvisaglie di una malattia più grave di quel che sembrava. Cercò comunque di nasconderle per non preoccupare troppo sia il marito che il suocero. Questo suo malessere durò quasi un mese. Tuttavia Felice e Severino erano confortati dal fatto che lei, nonostante tutto, dimostrava di star bene e continuava a dire loro di non preoccuparsi. Una leggera ma persistente tosse che non aveva mai avuto prima, fece sorgere un dubbio al marito che insistette per farla visitare dal medico di Pieve del Cairo, il dottor Giuseppe Beccari[1].

Nel frattempo la ragazza non aveva perso un giorno di lavoro e continuava a svolgere regolarmente le sue attività quotidiane. Finché una mattina, a sua insaputa, si presentò in casa il dottor Beccari chiamato per una visita. Alla vista del medico, Rosetta, agitata, si spazientì: “Ston bèn dutur, l’è gnintä, g’hö ämmà un po’ äd tus” (sto bene dottore, non è nulla, ho soltanto un po’ di tosse). Lui la guardò negli occhi e le disse: “Rosetta, stai tranquilla, soltanto dopo averti visitato ti saprò dire se stai bene oppure no quindi, permettimi di farlo, per favore!”. Rosetta si calmò e, come le aveva richiesto il medico, scoprì la camicia mostrandogli il petto e poi la schiena. Beccari dopo averla auscultata[2] restò per un istante ammutolito, avendo intuito, semplicemente utilizzando quello strumento, le reali condizioni di salute di Rosetta. La conferma arrivò quando, nel fazzoletto in cui l’aveva fatta tossire, riscontrò alcune macchie di sangue rosso vivo. “Dutur, né che ä son sänä?” (Dottore, vero che sono sana?). Il medico le diede una carezza sul viso e chiamò Felice, fuori dalla stanza.

Il povero ragazzo interpretò immediatamente nell’espressione del medico la gravità della situazione.

Beccari si sedette dicendo: “Felice, vieni qui che ne dobbiamo parlare”.Il giovane si mise a piangere: “Dutur, si cä sücedä? Sé clä gä lä mé Rusétä?” (Dottore, cosa succede? Cos’ha la mia Rosetta?). Il medico fece un respiro profondo prima di parlare e guardando negli occhi Felice gli comunicò dispiaciuto:” Felicìn, la tua Rosetta ha una forma di tubercolosi dovuta sicuramente ad una polmonite trascurata”. Felice pensò subito al maledetto giorno in cui Rosetta aveva sfidato il temporale per tornare da lui. Non si diede pace quando realizzò che il suo grande amore, nel giro di poco tempo, l’avrebbe lasciato per sempre. 

Era il 31 agosto 1841 e Felice si prese cura della sua Rosetta per quei dieci giorni, finché il 10 Settembre, alle quattro del mattino, la ragazza con un ultimo colpo di tosse, stremata dalla fatica, chiuse gli occhi per sempre tenendogli la mano. Rosetta aveva soltanto vent’anni e il povero Felice, che 10 giorni dopo ne avrebbe compiuti ventuno, era già vedovo, dopo soli quattro mesi di matrimonio. 

Preso dallo sgomento, a Felice apparvero scenari desolanti ed improvvisamente sentì che per lui, la vita non aveva più alcun senso. Severino assistette, in disparte, alla tragedia e si rassegnò a quel destino sapendo bene che talvolta sa essere impietoso.  Negli occhi gli apparve la sua adorata Francesca ma si arrabbiò ad una morte così prematura, con un’intera vita davanti e, per giunta, appena sposata. Felice la prese, la avvolse in un lenzuolo del corredo di mamma Teresa, che non avevano ancora usato. La sua Rosetta non c’era più e lui si sentiva perduto senza saper cosa fare. Severino prese coraggio, andò a Gambarana ad avvisare papà Michele, dandogli la brutta notizia che sua figlia, la sua unica figlia, era morta. L’indomani, le esequie funebri vennero celebrate da don Giovanni Cerra[3], parroco di Pieve del Cairo.

Il giovane Felice Degiorgi, vide così chiudersi quel futuro di speranza e di sogni che si erano dati. Con la morte della sua Rosetta il mondo gli era inaspettatamente crollato addosso e si sentì precipitato nel pozzo della disperazione. 



[1] Giuseppe Beccari (Mede 1807- Pieve del Cairo 1884) era il dottore di Pieve del Cairo, un giovane medico che aveva appena preso servizio al paese. La famiglia, originaria di Mortara, era media borghese. Anche suo padre Luigi fu medico e lo sarà anche suo figlio, Luigi come il nonno, che diventerà anche chirurgo.

[2] L'auscultazione dei polmoni è, di fatto, l'ascolto del rumore generato dal flusso d'aria all'interno dei polmoni; quando il flusso d'aria nei polmoni è normale, esso produce un rumore caratteristico, che è nettamente diverso da quando incontra qualcosa che lo ostacola (es: muco, eccesso di liquido, pleura infiammata

 

[3] Don Giovanni Cerra, parroco di Pieve del Cairo dal 1824 al 1864 (40 anni), Nato a Valle Lomellina nel 1797, morto all’età di 67 anni a Pieve del Cairo. Fu un sacerdote e teologo molto dotto, molto appassionato di statistica.

UNA SECONDA POSSIBILITÀ

 

Se penso che il primo matrimonio di Felice Degiorgi è durato un arco di soli quattro mesi (dall’11 Maggio al 10 Settembre del 1841) non dando alla giovane coppia nemmeno il tempo di assaporarne le gioie, quasi non ci credo.

 

Sono cose che, a quei tempi, accadevano frequentemente e a molti capitava di perdere troppo presto una persona cara. Succedeva a tutti di perdere un figlio, un marito, una moglie, un fratello, una sorella, senza contare poi la scomparsa naturale di genitori e nonni.

Fu sicuramente faticoso riprendersi ma nella sua vita ben presto avrebbe fatto capolino una persona già apparsa per qualche istante, il giorno del suo matrimonio. Erano passati due mesi esatti dalla morte di sua moglie, era il 10 novembre 1841 e quel mattino arrivò nei campi dove lavorava col padre, l’amico di famiglia Giuseppe Sozzi per aiutarli a svolgere alcuni lavori più pesanti del solito. 

L’uomo che, per indole era piuttosto indiscreto, si avvide del comportamento taciturno di Felice e si incuriosì: “Felicìn, séc tä ghé stämätinä?” (Felicin, che cos’hai stamattina?).

E lui, con il viso rigato dalle lacrime: “Lasäm ä stà, son drè pinsà ä lä mé Rusétä” (Lasciami stare, sto pensando alla mia Rosetta). Si sentiva un uomo finito, sconfitto da quella tragedia che lo aveva colpito così duramente. Ogni tanto imprecava – e non era da lui – il cielo, la terra, Dio e i santi. Suo padre lo rimproverava a gran voce (äg vusàvä ä drèrä) intimandogli di non farlo più, perché mai si sarebbe sognato di sentir uscire, dalla bocca di un Degiorgi, frasi così ingiuriose contro chi pregavano in modo fervente. “Se ät senti äncurä nä voltä ät lä don mi äl täbàc däl Moru” (se ti sento ancora una volta te lo do io il tabacco del Moro)[1] intimava Severino al figlio. Il ragazzo, pentito per quanto appena detto, si era scusato cercando in ogni caso di far capire al padre la triste situazione in cui versava. Certamente non per colpa di nessuno ma … perché era capitata proprio a lui una disgrazia simile? Perché ad un giovane di 20 anni?

Giuseppe Sozzi sembrava avere una soluzione in tasca perché, da come gli diceva sempre sua figlia, Felice era un ragazzo bello, buono, dolce, gentile e le sarebbe piaciuto conoscerlo un po’ meglio. Certamente, da ragazza educata e di sani principi, non si era più fatta avanti sapendolo sposato ma, probabilmente in cuor suo celava per quell’uomo un sentimento più importante di un’amicizia. Sozzi osservò il ragazzo e gli disse: “Sentä un po’, tä ghé dä fa ädmän dä sirä?” (senti un po’, hai da fare domani sera?). Felice lo fissò con un’aria sorniona, facendogli intendere che non aveva proprio niente in programma se non stare seduto a guardare le stelle. Era certo che quell’uomo intendesse “combinare” qualcosa e ne ebbe certezza quando Giuseppe lo invitò a casa sua: “Penä ät finisi dä läurà, ät veni ä senä ä ca miä” (appena finisci di lavorare, viene a cena a casa mia). Felice, inizialmente, non disse nulla e continuò il suo lavoro come se nulla fosse ma Severino, vedendolo sempre ombroso e scontroso in quel modo si infastidì e saltò su: “Sentä, i trägedi i sücedän e i sücedärän sempär. T’è né äl prim e ät särè näncä l’ültim. Tirät sü pärchè son stuf dä vädät insì” (Senti, le tragedie succedono e succederanno sempre. Non sei né il primo e non sarai nemmeno l’ultimo. Tirati su perché sono stufo di vederti così). 

Le parole di suo padre sembravano averlo spronato a reagire. Volse lo sguardo verso Giuseppe e assentì con la testa. Felice avrebbe accettato l’invito (così suo padre sarebbe stato contento) ancora inconsapevole del vero “fine” dell’uomo. Severino invece aveva inteso perfettamente quali erano le intenzioni di Sozzi e assestò una sonora pacca sulla spalla del figlio dicendogli: “Ät vé ämmà ti, néh…” (vai solo tu eh…). Giuseppe (Pipìn), terminato il lavoro con Severino, se ne tornò al Burg convinto che la sua attività di “sensale[2] avrebbe dato frutto. La giornata volgeva al termine e Severino e Felice, stanchi morti, si sarebbero sognati un letto comodo dove andare a dormire. 

Felice pensava continuamente a Rosetta, avrebbe passato notte a contare le stelle? Quella sera certamente no perché, nel frattempo, il cielo si era annuvolato e gli avrebbe consigliato di addormentarsi in fretta.

Intanto, Pipìn Sus, tornato a casa dalla figlia Santina, la informò della buona riuscita della sua operazione: convincere Felice ad andare a cena da loro. La ragazza si mostrò sorpresa ma contenta. Suo padre le fece intendere che non doveva decidere nulla e quell’incontro altro non era che la cordiale accoglienza in segno di rispetto e gratitudine verso la famiglia Degiorgi oltre che di solidarietà per il giovane vedovo. Che Santina si sentisse parte del “complotto” organizzato dal padre (che sapeva bene cosa voleva ottenere) era fuori discussione ma tuttavia, nutriva la speranza che anche Felice provasse interesse per lei.  Quel ragazzo le era sempre piaciuto, ma la timidezza non le aveva mai permesso di manifestare i suoi sentimenti. Ma in ogni caso, comunque fossero andate le cose, Santina l’avrebbe presa con “filosofia” (anche se non sapeva di preciso cosa fosse). Mamma Caterina[3] la invitò a calmarsi e a comportarsi con naturalezza, senza preoccuparsi di chi aveva davanti. Doveva immaginare di trovarsi di fronte un buon amico e un bel ragazzo (e non un giovane vedovo) cercando di farlo sentire a proprio agio in casa Sozzi: gli stessi Severino e Pipìn erano grandi amici d’infanzia, avevano la stessa età, si erano sempre frequentati vivendo insieme molte esperienze fin dalla tenera età.   Nella vita di entrambi non erano mai capitati episodi eclatanti, ma si erano divisi e ritrovati più volte.

La differenza tra i genitori di Santina stava tutta nelle finalità dell’invito: per mamma Caterina doveva essere una normale cena tra famiglie, per Giuseppe, invece, l’intenzione era quella di fare in modo che i due ragazzi si frequentassero. Il pomeriggio fu denso di preparativi, mamma Caterina preparò anche una deliziosa torta che sarebbe servita a rendere perfetta la serata. Santina raccolse dei fiori che mise in un vaso, rassettò casa da cima a fondo e rammendò una vecchia tovaglia da mettere in tavola. Infine si sedette: “Mi hö fai tüt” (io ho fatto tutto) esclamò rivolta a mamma e papà rimasti entrambi per tutto il giorno in casa a tenerle compagnia. 

Mentre aspettava l’arrivo di Felice, Santina si preparò, indossando un vestito elegante. Mamma Caterina le spazzolò i capelli raccogliendoglieli dietro la nuca con una spilla. La ragazza era pronta e intanto il giovane era arrivato: “L’è pärmés?” (È permesso?). Mamma Caterina e papà Giuseppe accolsero il ragazzo come un figlio che torna da un lungo viaggio, abbracciandolo calorosamente e mostrandogli la loro vicinanza invitandolo a togliersi la giacca e ad accomodarsi. Il ragazzo rimase lì, immobile, non sapendo né cosa dire né come fare mostrandosi un po’ spaesato e distratto. Giuseppe, gli batté sulla spalla e disse: “At lä von ä ciämà” (te la vado a chiamare). Felice assorto nei suoi pensieri, non si era nemmeno accorto dell’assenza di Santina dando l’impressione di non interessarsene. Almeno fin quando Santina non entrò nella stanza adiacente folgorandolo con la sua bellezza. Il ragazzo stropicciò il cappello che stringeva tra le mani che all’improvviso sentì sudate e strabuzzò gli occhi come se gli fosse apparsa la Madonna[4]. Si sentì quasi svenire. La ragazza gli si avvicinò dicendo: “Buonasera Felice, sono contenta che tu sia venuto a casa nostra; che tu sia il benvenuto!”. Lui, ripresosi dallo stupore, le rispose titubante: “Buo-buo-nasera Sa-Santina, il piacere è tu-tutto mio!”. Giuseppe strizzò l’occhio a Caterina rallegrandosi tra sé di come Santina fosse riuscita in un batter d’occhio a distogliere Felice dal suo torpore.

Mentre mamma Caterina finiva di preparare la cena, Santina ne approfittò per invitare Felice ad uscire fuori per prendere un po' d’aria fresca. Uscirono a sedersi sul muretto, vicino alla roggia.

“Ci conoscevamo da bambini ma tu non sai nulla di me, vero?” gli domandò Santina. E riprese: “Mi dispiace veramente tanto per quello che ti è successo, conoscevo bene Rosetta, era una ragazza buona, generosa e bella”. Felice le rispose:” Cara Santina, hai ragione, era veramente come hai detto tu. Anch’io ricordo poco di te, eravamo troppo piccoli quando partii per Cairo”. Santina si scusò: Rosetta doveva essere ancora una ferita aperta per Felice. Le loro mani si incrociarono e Santina gli disse: “Basta parlare del passato, quello fa male ma se ti va potrei starti vicino, esserti amica, aiutarti, me lo permetti?”.

Felice, preso da pensieri contrastanti, avrebbe voluto sparire quasi per una sorta di rispetto nei confronti della moglie appena defunta, ma permettere a Santina di stargli vicino sarebbe servito a vincere il proprio passato: era troppo giovane per gettare la vita al vento, sentiva il bisogno di cullarsi nei ricordi ma provava pure la necessità di stimoli nuovi.

Con questi pensieri si convinse: “Certo che lo voglio, Santina, ti ringrazio tanto per la premura nei miei confronti”. Felice mise un dito sotto il mento di Santina, le alzò il capo e guardandola negli occhi le diede due baci: uno sulla guancia e l’altro sulla fronte. Poi la strinse forte a sé piangendo. “Che succede?” gli domandò Santina: “Perché piangi?”. Se il bisogno del giovane era di non sentirsi più solo, il distacco dal suo recente passato risultava ancora doloroso. Nonostante ciò le disse: “Santina, vorrei essere di nuovo felice ma ho paura”. I loro sentimenti stavano fuoriuscendo e mentre si trattenevano dallo scambiarsi un passionale bacio, dalla casa si udì forte: “L’è pront!” (É pronto!). 

La magica atmosfera che si era creata intorno a loro svanì, come d’incanto. “Mamma, arriviamo!”rispose leggermente irritata Santina.

Quando i ragazzi rincasarono, i genitori si accorsero subito del cambio di atteggiamento del giovane mentre Santina non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. Giuseppe li osservò e disse: “Mängè che lä venä frädä!” (Mangiate che si fredda!) riferendosi al buon minestrone che Caterina aveva preparato per tutti. Se il piatto si stava raffreddando, di certo l’atmosfera creatasi tra i due ragazzi era ancora discretamente bollente. Si erano promessi qualcosa di importante sopra quel muretto, magari con poche parole ma con molti sguardi. Felice prese la parola e domandò: “Siur Giüsép, siurä Cätärinä, vuris – cul vos pärmés – cugnäs mei lä vosä Säntinä” (signor Giuseppe, signora Caterina, vorrei – con il vostro permesso – conoscere meglio la vostra Santina). Mamma Caterina si mostrò contenta ma pur desiderando il bene di sua figlia si preoccupò anche della serenità del ragazzo. Papà Giuseppe, senza farsi notare, fece un gesto di “vittoria”, soddisfatto che la sua trama fosse andata a buon fine. I due giovani gustarono sia con il palato che col cuore quelle semplici pietanze di tutti i giorni che però data l’occasione, sembravano decisamente più buone del solito, così conditi dall’amore che stava sbocciando tra loro.

“Felicìn, tä ghé incurä fam?” (Felicin, hai ancora fame?) gli domandò Caterina indicando la padella sulla stufa. Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte e osservando Santina che gli fece cenno con gli occhi, di servirsi pure, si fece versare ancora un po’ di quella gustosa minestra, in attesa della fetta di torta che gli venne offerta poco dopo.

Che sirä hö päsà!(Che sera ho passato!) esclamò contento il giovane. Aveva tutto quello che un uomo potesse desiderare a ventidue anni: una famiglia, una ragazza speciale e tanti ricordi belli che non avrebbe mai dimenticato. Si commosse per l’emozione. “Vi ringrazio tutti per la stupenda serata, vado a casa da papà” disse. Salutò calorosamente Caterina e Pipìn ed uscì.

Santina lo accompagnò fuori, gli diede un bacio appassionato, come quello che si scambiano gli innamorati.

 

“Buona notte caro” gli sussurrò Santina.

“Buona notte cara” gli rispose Felice.

I due ragazzi si sarebbero dati appuntamento all’indomani, sempre di sera, dopo una faticosa giornata di lavoro.



[1] Modo di dire molto vecchio, lomellino ma non solo. Semplicemente come dire “te la faccio vedere io, non te la faccio passare liscia”. Il riferimento al Moro, cioè al popolo turco, considerato per antonomasia, un popolo cattivo ed opprimente.

 

[2] Il sensale (“sensàl” in dialetto) è il mediatore di contratti agricoli ma in quel caso è inteso come “combinatore di matrimoni”.

[3] Caterina Trabella, moglie di Giuseppe Sozzi, nata a Borgofranco nel 1791. Si sposa nel 1808, a 17 anni. La famiglia di Caterina era proprio originaria del Borgofranco. Questo cognome, oltre ad essere presente ancora oggi, è riscontrabile già dalla fine del ‘500: Oltrabella, Trabellis, De Trabellis sono le varianti che ho scoperto durante le ricerche. Caterina muore a Borgofranco nel 1871.

[4] I fatti di Massabielle avrebbero avuto luogo solo nel febbraio 1858.

1° FEBBRAIO 1842

Era una fredda mattinata di sole sia a Pieve del Cairo che a Borgofranco. Un gran giorno per Felice e suo padre, sempre presente nella vita del figlio[1] e un giorno speciale anche per Santina e per la sua bella famiglia[2]. I due paesi, per l’occasione, sarebbero sembrati meno distanti grazie all’unione dei due ragazzi. La parentesi triste del primo matrimonio del giovane aveva trovato un termine con l’incontro e il successivo innamoramento con Santina Sozzi, di quasi un anno più vecchia di lui[3]. I due ragazzi si conoscevano sin da bambini ma Felice, per ragioni familiari, era traslocato in un altro borgo già nel 1823.

Quel giorno, Felice e suo padre partirono da Pieve per la volta del Burg, rigorosamente a piedi. I vestiti erano gli stessi che avevano indossato allo sposalizio dell'anno precedente: i soldi, dopotutto, erano sempre pochi. “Sarà la volta buona?” pensò il ragazzo mentre si incamminava lungo il polveroso sentiero. Nel tragitto, attraversarono insieme tutti i luoghi della loro vita: Cairo, Gambarana passando per San Martino la Mandria, in lontananza si vedeva Cambiò (luogo delle nozze di Severino con Francesca nel lontano 1805) e infine Borgofranco. Prima di recarsi in chiesa raggiunsero la via maestra dove le sorelle di Severino, le zie Cristina, Veneranda e Marianna, con le loro rispettive famiglie, erano già lì ad attenderli. Poi, tutti insieme, come in processione, si avviarono verso la chiesa parrocchiale dedicata a San Bartolomeo Apostolo.  

Il sagrato davanti alla canonica era già gremito di gente e dalla chiesa uscivano un intenso profumo di incenso ed il suono leggero dell’organo. Erano le 10 del mattino, lo scenario era identico a quello di un anno prima: mancava soltanto la sposa. La cara Rosa era arrivata con mezz’ora di ritardo a differenza di Santina che arrivò appena cessato il rintocco delle campane. Felice la vide in lontananza e mentre attendeva, ascoltava i commenti dei presenti, soprattutto delle vecchie del paese che dicevano tra loro: “Chi lé clé cul lì, che l’è vìduv näncä dä un an e sä spusä giämò?” (Chi è quello lì che è vedovo neanche da un anno e si sposa già?). Chi lo conosceva rispondeva: “L’è äl fiö äd Severino äd Giüli(è il figlio di Severino di Giulio[4]).

La cosa buffa del pettegolezzo stava tutta nel non conoscere il nome dello sposo ma sapere esattamente le traversie della sua vita privata. Felice si voltò verso di loro e sorrise: “I finì dä ciäciärà?” (Avete finito di chiacchierare?). E quelle, come se nulla fosse accaduto: “Tanti auguri brav fiö!” (Tanti auguri, bravo ragazzo).

Santina nel frattempo arrivò e lui lasciò perdere quelle quattro galline parlanti per correrle incontro. Era bellissima con quell’abitino lungo grigio chiaro e il viso, illuminato dal sole, appariva incantevole. “Ciao tesoro” le disse e allo stesso modo rispose lei. Erano visibilmente emozionati, ognuno per le sue ragioni. Papà Giuseppe era meravigliato alla vista dei due sposi e Felice gli promise che avrebbe tenuto sua figlia stretta per tutta la vita.

I ragazzi entrarono in chiesa, don Francesco era pronto ad accoglierli per unirli in matrimonio.  Quel parroco, che per una strana coincidenza era lo stesso sacerdote che aveva battezzato Santina il 31 ottobre 1819 e Felice il 21 settembre 1820, era tuttora reggente della parrocchia, dopo 23 anni[5]. Don Francesco ebbe per loro parole di conforto e di profondo affetto perché li aveva visti crescere. Recitò le formule di rito, fece una breve omelia e benedisse gli sposi. I testimoni del matrimonio erano Giacinto Bellisoni e Giovanni Grossi, entrambi residenti al Borgofranco.

Usciti di chiesa, i presenti si diressero ognuno alla propria residenza lasciando sul sagrato soltanto gli sposi, il parroco, i genitori ed i parenti stretti. Santina, insieme ai suoi genitori, invitò tutti a casa sua per un piccolo momento conviviale e festoso. Sotto la pergola (lä topiä) era stato preparato un tavolino con qualche biscotto secco, dolci, del pane fresco e del buon vino. Felice, di nome e di fatto, dall’alto del suo metro e cinquantatré, salì su di un robusto sgabello, si tolse la giacca e si rimboccò le maniche della camicia. Fatto ciò si schiarì la voce con un colpo di tosse e cominciò a parlare: 

“Oggi è una giornata bellissima, mi sposo per la seconda volta e mia moglie Santina è una donna meravigliosa. Sono circondato dall’affetto della mia famiglia, l’età è tutta dalla mia parte. Sono pronto ad affrontare ogni situazione che saprà offrirmi la vita e sono sicuro che insieme a te, amore mio, riuscirò a farcela”.

Al breve discorso di Felice seguì un grande applauso da parte dei presenti che gli fecero i complimenti, notando nei suoi occhi la commozione. Scese da quello sgabello, si avvicinò a Santina e la riempì di abbracci e di baci. Le promise che non l’avrebbe mai delusa, che sarebbe stata molto fiera di lui e che si sarebbe sempre comportato bene, con lei e con tutti. Ringraziò i presenti con un brindisi ben augurale: 

“Brindo alla mia sposa, brindo a me, alle nostre famiglie che ci amano e a tutti voi presenti, grazie infinite a tutti coloro che hanno partecipato alla nostra gioia”. 

Non si può escludere che in quel momento fosse un pochino brillo perché, come a tutti gli uomini di campagna, piaceva il vino e nelle occasioni in cui era sulla tavola ne approfittava. (äl mätivä vulinterä lä buteliä äl col).

Il destino gli aveva dato una seconda possibilità, non per rinnegare il passato ma per valorizzarlo con questo nuovo inizio. Lui e la sposa erano l’immagine della serenità. I tempi erano veramente duri, la vita in Lomellina non offriva grandi speranze ed opportunità, ma quei due avevano la testa sulle spalle e avevano ben chiara l’immagine del loro futuro: desideravano avere dei figli, come tutti e – a Dio piacendo – sognavano di diventare vecchi, vedendosi circondati anche da nipoti e chissà quante altre cose. Nelle aspettative di ogni famiglia dell’epoca, i canoni erano piuttosto semplici e nei ceti medio-bassi come i loro non si aveva necessità di grandi cose.

E il destino, che dà e toglie, sarebbe stato benevolo.



[1] Severino, fino al termine della sua vita, non abbandonò mai suo figlio perché, dopo la morte della moglie avvenuta nel 1840, non si risposò più fino al 1867, anno della sua morte.

[2] La famiglia di Giuseppe Sozzi formatasi con il matrimonio celebrato nel 1808, in quell’anno è composta da papà Giuseppe (1786-1847), mamma Caterina Trabella (1791-1871) e da 5 figli. Santina è la secondogenita. Prima di lei Francesco (1809-1883), dopo di lei Gaspare (1820-1883), Carlo (1826-1904), Rosa (1829-1896). Tutta la famiglia di Santina darà origine a molte famiglie ancora oggi presenti a Suardi (Borgofranco).

[3] Maria Santina Sozzi, di uqasi un anno più vecchia di lui, nata a Borgofranco la notte del 31 ottobre 1819; fu battezzata da Don Francesco Bosio, lo stesso sacerdote che la sposerà.

[4] Difatti il padre di Severino si chiamava Giulio Degiorgi (1762-1800). 

 

[5] Don Francesco Bosio resse la parrocchia di Borgofranco dal 1817 al 1849 ricoprendo l’incarico per 32 anni. Teologo, colto e puntiglioso. È a lui che si deve il preziosissimo indice dei nati e dei matrimoni dal 1580 e continuato per suo volere dai suoi successori. Questo volume, ancora ben conservato, è stata una fonte preziosissima per ricercatori in erba come me.

 

BENVENUTO GIOVANNI

Trascorse senza troppe preoccupazioni il 1842 portando con sé la “buona novella”: Santina in attesa di un bambino. Nessuno di loro sapeva se si trattasse di un maschio o di una femmina ma, secondo i calcoli fatti da Caterina, la mamma di Santina e in base a quelle - come diceva lei - “rob dä don(cose da donne) e alla luna[1], il termine per dare alla luce il nascituro era stimato per l’inizio di marzo dell’anno successivo, 1843.

Felice, da quando aveva saputo della gravidanza, era l’uomo più eccitato del mondo, al punto tale che, ad ogni minima occasione sgattaiolava a casa per vedere come stavano Santina e la creatura che portava grembo. Anche solo per pochi minuti, il tempo di controllare, dare un bacio sulla pancia della moglie e ritornare di nuovo nei campi. Avrebbe voluto un maschietto, per tanti motivi, ma il sesso del nascituro non era una cosa prioritaria perché, ricordandosi quello che diceva sempre sua mamma e anche nonna Maria: “L’impurtänt l’è che äl siä sän (l’importante è che sia sano) e con questa prospettiva attendeva con una certa trepidazione che si concludesse la gravidanza.

L’alba del 9 marzo 1843 sorprese Santina già sveglia e in preda a forti dolori: il momento che tanto attendeva, era evidente, stava arrivando. Mamma Caterina, provvidenzialmente (perché secondo lei “l’erä quasi urä (era quasi ora), si era fermata a Pieve per alcuni giorni e grazie a Dio, sapeva “quello che c’era da fare”. Chiamò Felice dicendogli: “äg sumä quasi neh… (ci siamo quasi) e lo invitò a preparare una grande tinozza con molta acqua calda. Purtroppo non c’era nessuno che potesse aiutarla ad assistere Santina ma, il dottor Beccari, per una fortuita coincidenza, era stato in visita ad un’anziana accanto all’abitazione dei Degiorgi e, mentre stava per andarsene, si ricordò che Santina era quasi giunta al termine e si avvicinò.

“Severino, Felice, è il momento? Intanto che sono qui, posso fare qualcosa per voi?” chiese. Quei due uomini, sentendosi quasi “miracolati” dalla visita, lo fecero accomodare: “Catärinä, ghè chi äl siur dutur” (Caterina, c’è qui il signor dottore). La donna, comunque preparata all’evento, sorrise e tirò un sospiro di sollievo: “Siur dutur, son cuntentä che äl’siä chi” (signor dottore, sono contenta che sia qui). Beccari la aiutò nei preparativi, il travaglio continuava ma era controllato da persone sapienti: le conoscenze di un medico capace e l'esperienza di una vecchia madre costituivano un'accoppiata vincente.

Alle undici del mattino, un fortissimo vagito echeggiò nella casa. Erano 23 anni che Severino non sentiva più piangere qualcuno. Il dottor Beccari uscì dalla stanza e raggiunse i due uomini dando loro la notizia che si aspettavano: Felice era diventato padre e Severino nonno. Le loro lacrime di gioia testimoniarono che una “lieta novella” era arrivata. Mentre il giovane correva in casa a vedere come stavano Santina e il bambino, Severino si recò da don Cerra per dargli la notizia: “Siur prevost, l’ha näsü” (signor prevosto, è nato). Il sacerdote, accogliendo l’annuncio con gioia, fissò il battesimo al vespro[2].

Il dottor Beccari se ne tornò al lavoro avendo molte visite da fare. “Dutur, dutur, äl so distürb?” (Dottore, dottore, il suo disturbo?) lo fermò Caterina. Beccari le rispose tranquillizzandola: “Caterina, non preoccuparti, siamo a posto così … anzi, facciamo che la prossima volta mi dai una gallina”. Caterina allora, rasserenata disse: “Brau siur dutur, unä bélä gälinä pär lä vosä sciura Rusetä[3] (Bravo signor dottore, una bella gallina per la vostra signora Rosetta). E se ne andò senza ricevere alcun compenso.

Intanto, nella casa, si respirava una serenità incredibile e le urla “belle” del neonato riempivano la stanza. Santina aveva il viso emaciato, era provata perché minuta di costituzione ed al suo primo parto, ma si stava riprendendo. Mamma Caterina diceva: “L’è äl mal däl smintiòn” (è il male di chi si dimentica).

Santina chiamò il marito vicino al letto e gli disse: “Amore, hai visto quant’è bello?” e aggiunse: “Come lo chiamiamo?”. Felice aveva un piccolo calendario dentro la Bibbia che aveva conservato da quando era ragazzino e verificò a quale Santo era dedicato quel giorno: era San Giovanni di Dio. “Giuàn” (Giovanni): rispose ad alta voce e Santina aggiunse “Antonio” perché era il secondo nome con il quale era stato battezzato suo padre. Il bambino era Giovanni Antonio Degiorgi[4]. Severino, di ritorno dalla chiesa, disse loro che il battesimo sarebbe stato officiato la sera stessa per le sei. “Nonno Severino, vuoi vedere quanto sono bello?” disse Santina al suocero, come se fosse il bambino a domandarglielo. Severino, alla vista del suo primo nipotino scoppiò di gioia.

La mattina passò in un baleno così come il pomeriggio. Mentre fuori il cielo imbruniva, la famiglia era pronta per il battesimo del piccolo Giovanni Antonio. Incamminandosi per il sentiero, arrivarono in chiesa. Il prevosto e due chierichetti erano ad attenderli sulla porta. La messa del vespro era molto frequentata, soprattutto da chi tornava dal lavoro nei campi ma anche da tanti fanciulli. Santina e Felice, accompagnati da Severino, Giuseppe e Caterina, portarono il bimbo al fonte battesimale. In quell’occasione, mancando un padrino e una madrina, decisero di chiedere il favore ad un amico di Felice, Francesco Ferrari, sarto, il quale accettò senza riserve. Don Giovanni celebrò il rito battesimale, benedisse il bambino ed i genitori aspergendoli con l’acqua santa. Era il 9 marzo 1843 e Giovanni Antonio fu battezzato alle ore 18. In quell’anno era già ventisettesimobambino a ricevere il sacramento, nella chiesa della Beata Vergine della Consolazione di Pieve del Cairo[5]

Il piccolo Giovanni si addormentò tra le braccia della mamma, la famiglia si incamminò verso casa salutando e ringraziando tutti coloro che avevano condiviso la loro gioia. Non festeggiarono l’evento perché erano stanchi e Santina era esausta, considerando che solo sei ore prima era ancora sdraiata sul letto con le doglie del parto. Mamma Caterina preparò per tutti un brodo caldo e Santina attaccò al seno Giovanni per un’ultima poppata.

Severino e Giuseppe arrotolarono del tabacco ed uscirono in cortile a fumare. Nonna Caterina prese in braccio il piccolo e lo adagiò nel lettino pronto da tempo.

Santina si addormentò, la candela sul tavolo si spense e il buio della notte si posò su ogni cosa.



[1] Come conoscevano le stagioni le persone di quel tempo era difficile che sbagliassero i calcoli. La Luna ed il Sole poi regolavano tutto: le stagioni, le piogge, le carestie, i raccolti, la vita e … anche la morte.

[2] Momento della giornata intorno all’ora del tramonto. Nella liturgia cattolica, la penultima delle ore canoniche, tra nona e compieta e la parte dell’Uffizio che in essa si recita o si canta. Il vespro è la sacra funzione pomeridiana. Era l’ora tarda del giorno verso il tramonto, cioè il crepuscolo serale.

[3] Rosa Magnani, di famiglia benestante, moglie del dottor Giuseppe Beccari.

[4] Il mio bisnonno Giovanni Antonio Degiorgi (9 marzo 1843) … scopriremo la sua vita poco per volta, durante il racconto. Sarà sempre chiamato soltanto Giovanni, in ogni documento che parla di lui.

[5] Nel 1843 sarebbero stati battezzati 100 bambini; circa la metà di loro morì entro l’anno di vita. Succedeva spesso, per tantissimi motivi, dal più banale al più serio.

 

LA CREDENZA DI MARZIANO

“Äm piäsäris äveg un bél mòbil e un lët növ” (mi piacerebbe avere un bel mobile e un letto nuovo) aveva sempre detto Felice da quando si era sposato con Santina. Riuscì a coronare il suo desiderio grazie alle sapienti mani di un amico falegname al quale commissionò la realizzazione di una credenza e di un letto matrimoniale. Si trattava di Märsiän Betàli (Marziano Bettaglio)[1], falegname e amico di famiglia, già sulla quarantina, maestro d’arte nell’allestimento di mobili, lavorazioni in legno e tutto quanto aveva a che fare con il legname[2]. Il progetto dei novelli sposi era di avere qualcosa di nuovo per la loro casa ma Marziano non era riuscito ad accontentarli per quell’anno, il 1842, perché esattamente il 26 agosto, gli era nato un altro figlio. 

La moglie, Maddalena Angeleri, gli aveva regalato il sogno di diventare padre per l’ennesima volta. Era il decimo e lo avevano chiamato Melchisedech[3]. Un nome piuttosto originale, altisonante e biblico assegnatogli da genitori molto credenti e timorati di Dio, dopo averlo ascoltato più di una volta nelle prediche di don Cerra. Nella narrazione biblica veniva venerato dalla chiesa come un sacerdote eterno. “Tu sarai sacerdote per sempre, a modo di Melchisedech” diceva la Bibbia così come ripeteva don Cerra durante le sue omelie. Quel nome, che piaceva tantissimo alla madre, avrebbe sicuramente stupito tutti.

Dopo la nascita di Melchidesech, Marziano[4] si mise all’opera e costruì per Felice e Santina, un armadio con tre ante e un solidissimo letto matrimoniale in legno di rovere. Glieli consegnò sul finire del 1843, quando le prime nebbie novembrine iniziavano a fare capolino sulle terre lomelline. Felice glielo pagò poco alla volta con la fatica del suo lavoro, intensificando le ore in campagna. Marziano, che lo conosceva bene, si fidava e avrebbe aspettato, anche a lungo ben sapendo che non avrebbe perso nemmeno un centesimo della somma pattuita. Quel mobilio indispensabile per la casa avrebbe reso felice la giovane Santina che, avrebbe riposto le stoviglie, le tovaglie che le aveva dato in dote la madre Caterina e le cose di casa. L’odore buono del legno della nuova credenza e del letto permearono ogni angolo della casa per molto tempo. 

Santina ringraziò il marito per il bellissimo regalo davvero utile per una famiglia che stava crescendo.



[1] Marziano Antonio Maria Bettaglio (1803-1890), figlio di Giacomo Antonio (1777-1831) e di Epifania Balduzzi (1770-1834), falegname di Pieve del Cairo insieme a Brunoldi e Magenta (nel periodo di metà ottocento). Per un gioco del destino, la famiglia Bettaglio si imparenterà con i Degiorgi. La moglie era Maddalena Angeleri (1803-1860). Sposati nel 1824, ebbero 10 figli.

[2] Per lo più, i falegnami in quell’epoca erano impiegati nelle riparazioni e nella costruzione di ruote per carri e carretti

[3] Melchisedech Bettaglio (1842-1930): Il suo atto di battesimo riporta il nome tradotto in italiano: Melchisedecco

[4] Portava il nome di un grande santo della chiesa, primo vescovo di Tortona

 

MARIA DOMENICA

 Erano trascorsi due anni e Giovanni cresceva sano come un pesce. Il piccolo era un bambino meraviglioso, vivace, con i capelli castani piuttosto lunghi, dai riflessi ramati come quelli di papà Felice. Nonno Severino invecchiava bene: aveva quasi sessant’anni ma si sentiva ancora in forma e pieno di energie grazie al nipote. Si era intorno alla fine di febbraio del 1845 e Severino aveva perso da poco la sorella Margherita[1] defunta il 19 gennaio (lo stesso giorno in cui era nata 61 anni prima): una perdita che bruciava ancora parecchio nel cuore di Severino seppur alleviata dalla presenza di quel meraviglioso nipotino e da Santina, nuovamente incinta di un nuovo ospite per casa Degiorgi.

Così il tempo del parto arrivò e la storia ebbe modo di ripetersi, come quando era nato Giovanni. Mamma Caterina si era stabilita da lei già da qualche giorno (seguendo i suoi calcoli affidati al ciclo lunare) e in un’atmosfera serena e naturale, la giovane era entrata in travaglio assistita dalla sola madre (questa volta l’aiuto del dottor Beccari, sarebbe stato superfluo). Alle cinque del mattino dell’8 Maggio 1845, insieme al canto del gallo, venne alla luce una bambina. I primi vagiti fecero intendere come godesse di buona salute con le due manine già agitate in aria. Fu un parto naturale, Santina era stata bravissima e ai soliti due “pov’r òm(poveri uomini) di Severino e Felice era toccata, come per la prima volta, la preparazione dell’acqua calda mentre Caterina aveva già provveduto ad approntare i panni, le stoffe e le pezze pulite per avvolgere la bambina.

Stavolta c’era uno spettatore in più, il piccolo Giovanni che, con la curiosità di un bimbo, si era avvicinato timoroso alla mamma, mandandole un bacio con la manina. Guardò la piccola con uno sguardo talmente dolce che tutti si commossero. “È la tua sorellina tesoro” gli disse la mamma. Giovanni arrossì e accennò con la testolina un timido “si”. Stavolta non ci fu bisogno del calendario per decidere il nome perché entrambi erano propensi a dare il nome della nonna (dalla nonna cara al cuore di Felice, Maria Domenica). Decisero così di chiamare la piccola Maria Domenica Degiorgi[2]. Era una bellissima bambina, pronta per essere battezzata. Nonno Severino, che venne incaricato di riferire al parroco dell’evento, si mise d’accordo con lui per le sette di sera[3] e, tornando, riferì l’orario a suo figlio. 

La mattina ed il pomeriggio passarono in fretta, il piccolo Giovanni giocò quasi tutto il giorno in cortile, rincorrendo galline e oche. Erano i divertimenti di allora che tutti i bambini amavano fare. Non era ancora il momento ma ben presto, Giovanni avrebbe avuto una nuova compagna di giochi.

La famiglia intanto si preparò: mamma con la piccola, papà, nonno Severino e nonna Caterina con il piccolo Giovanni in braccio. Nel frattempo li raggiunse nonno Giuseppe, in arrivo da Borgofranco dal lavoro nei campi. Si diressero verso la chiesa parrocchiale, dove ad aspettarli stavolta c'era il curato don Giovanni Gambarana al posto di don Cerra; quest'ultimo, infatti, doveva portare a termine un'estrema unzione improvvisa. All'epoca, nascite e morti erano spesso concomitanti e toccava ai poveri preti di campagna prendersi carico di ogni tramite ultraterreno. Il curato battezzò la bimba, la benedisse insieme alla famiglia. “Che nome date alla vostra bambina?”: chiese don Giovanni. “Maria Domenica”: risposero all’unisono mamma e papà, orgogliosi di aver scelto quel nome. Come padrino, venne scelto il signor Giovanni Battista Piazza (di Marcantonio), agricoltore. Nel frattempo, terminato il battesimo, arrivò il parroco, in tempo per compilare e firmare il registro. Era l’8 maggio 1845 e, alle sette “della sera”, la piccola Maria Domenica Degiorgi era stata battezzata ed il suo atto trascritto al n. 48 di quell’anno[4]

La famiglia se ne tornò tranquillamente verso la Contrada del Po mentre la sera calava dolcemente sul borgo di Pieve.



[1] Margherita Veneranda Degiorgi, nata a Borgofranco il 19 gennaio 1784 e morta il 19 gennaio 1845, giorno in cui aveva compiuto 61 anni. Si era sposata nel 1811 con Ferdinando Abbove di Bassignana e aveva avuto 6 figli.

[2]  Nella vita si sarebbe sempre chiamata, semplicemente, Maria.

[3] Come si può notare, sia per il battesimo di Giovanni che per quello di Maria Domenica, si usava battezzare subito i bambini, al massimo il giorno seguente, se il parto avveniva a tarda sera o nella notte.

[4] Nel 1845, nella chiesa parrocchiale di Pieve del Cairo, vennero battezzati 113 bambini. Se si pensa a questo numero, oggi, dobbiamo aspettarcelo in circa 10 anni.