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TANTISSIMI ANNI FA (PARTE 61)

 

Stavo vivendo in prima persona il mio passato, come in un film e mi trovavo di fronte ad una situazione molto particolare anzi, oserei dire unica ed irripetibile. Ero proprio a strettissimo contatto con tutta quella gente di fiume che era abituata a lottare, a tirare avanti a fatica ma a non perdere mai il coraggio e la speranza. Mi trovato alla fine del ‘500, un’epoca in cui quel territorio era piuttosto malsano, umido, paludoso e le condizioni di vita erano molto critiche. Sopravviveva il più forte, il più sano, il più predisposto e molti bambini volavano in cielo per banali malattie o malanni che oggi sarebbero “di stagione” ma che una volta potevano erano fatali.

Come un presagio che purtroppo sapevo, il 4 aprile 1594, il piccolo Giovanni muore (“infans ad Dominus evolavit” verrà annotato nel suo atto di morte cioè “bambino volato a Dio”). Lo sconforto di papà Antonio e di mamma Margherita è grande. Ma non vedo rassegnazione nei loro volti e i due poveri genitori, confortati dagli altri 5 figli, vanno avanti con dignità.

Oltre a sentirmi un pesce fuor d’acqua, fuori epoca e molto privilegiato rispetto a tutte le persone con cui sto vivendo – tenendo ben conto che io non dovrei esistere – le vicissitudini di Borgofranco proseguono e la gente, umile e praticamente priva di tutto, sopravvive al suo destino giorno per giorno. L’epoca in cui sono costretti a vivere Antonio e la sua famiglia non è delle più rosee, la Lomellina sarà una terra quasi senza identità per un paio di secoli, in cui le dominazioni straniere si susseguiranno fino alla fine del ‘600. Terre dimenticate, lasciate “andare a male” come alcune cronache di ambasciatori sul posto dicono: “tra Vercelli e Pavia per cinquanta miglia tutto è deserto, i campi sono tornati selvaggi. Vigevano è un deserto, Pavia fa pietà”.

Antonio e Margherita fanno i contadini, lavorano una terra che fa sudare e rende poco. Ma quel “poc” a loro basta per sopravvivere e tirare avanti. Ambrogio e Jacopo, i figli maggiori si danno da fare, sono grandi, maturi (rispettivamente già di 21 e 16 anni) e sono lavoratori infaticabili. Elisabetta ha 14 anni, è adolescente (non so se in quell’epoca esisteva questa parola) ma non ha grilli per la testa, non esce di certo con le amiche per andare a ballare: è sempre in casa a fare faccende, ad aiutare la mamma e a mandare avanti l’economia famigliare con i suoi servigi. Camilla e Pietro sono ancora piccoli ma di certo non stanno con le mani in mano perché contribuiscono anche loro, e non poco, a mandare avanti tutto.

Intanto i giorni passano, tutti uguali. Quello che sto vivendo io, in questa specie di film, a volte è bello ed entusiasmante e talvolta ha poco senso; per il fatto che oggi è un giorno vissuto pienamente dall’inizio alla fine e magari poi, come in un battito di ciglia, il giorno dopo ci si può trovare catapultato in avanti di anni, come se tutto quello spazio temporale non dovesse essere vissuto. Probabilmente, il destino che conosco perché l’ho ricercato e l’ho scritto, mi vuole far rivivere soltanto i momenti più importanti e particolari di ogni famiglia? É molto probabile mi sa, perché oggi, ad esempio, mi sono svegliato e ho trovato grossi cambiamenti, Ambrogio è più vecchio come pure Jacopo e i due bambini non sono più tanto bambini. Elisabetta è ben pettinata, in ordine e ha 21 anni. Ho capito tutto, siamo appena entrati nel nuovo secolo, il XVII° e precisamente è il 1601, anno in cui Elisabetta prende marito. Viene verso di me un giovanotto di bell’aspetto e si presenta: “buongiorno messere, mi chiamo Giovanni Malaterra, sono lo sposo di Elisabetta”. Giornata di festa per la nostra famiglia. E dopo questo evento ne seguiranno altri; nel 1607 si sposa Jacopo, nel 1608 Camilla, nel 1610 Pietro. Mamma e papà sono sempre presenti fin quando nel 1617, al matrimonio di Ambrogio, papà non lo vedo più e ci sarà solo mamma Margherita. Ambrogio si sposa che è già vecchiotto, 44 anni per l’epoca sono tantissimi ma la sua sposa è una bella giovane di 22 anni, Barbara Cavezzali, di una famiglia di contadini come la nostra, sempre del Borgofranco. Mi trovo di fronte ad un passato che sta andando come dovrebbe e, grazie a Dio, non ho la possibilità di modificarlo, sono soltanto un inerme spettatore che può interagire con loro senza manipolare alcunché. Prendo il mio quaderno di appunti, l’unico oggetto della mia epoca che mi trovo appresso e, come un osservatore scrupoloso, faccio la spunta di quello che è accaduto, consapevole del fatto che quello che accadrà ancora sarà in parte bello ma in parte anche triste.

In questi anni ho visto Margherita e Antonio diventare nonni e i loro figli diventare genitori. Ambrogio si era sposato con Barbara, questo me lo ero segnato come “importante” in quanto il destino della mia famiglia stava andando “come doveva andare”.

Vero è che, interferire sul passato sarebbe assolutamente pericoloso, anche di un solo secondo avanti o indietro. La storia della mia famiglia è scritta ed io l’ho semplicemente trovata e ricostruita. Ora, in un clima magico e surreale, mi viene concesso il privilegio di viverla in prima persona, insieme a loro.

Intorno agli anni ’30 e ’40 del’600 succederanno molti cambiamenti dovuti al salto generazionale: nel 1638 morirà Jacopo, nel 1639 Elisabetta, nel 1643 toccherà ad Ambrogio e nel 1647 a Camilla per finire nel 1653 con la morte di Pietro. La generazione di Antonio e Margherita è giunta al termine e da qui in poi partirà quella dei loro figli. Da ambasciatore del futuro, anche se loro – i miei antenati – non ne sanno assolutamente nulla (nonostante sia arrivato nella loro vita all’improvviso), vedrò sempre cose nuove; pochi anni prima, ad Ambrogio e a Barbara erano nati diversi figli tra i quali Angelo Francesco nel 1633, ottavo dei nove che hanno avuto. Tra il 1618 e il 1637 mamma Barbara darà alla luce i suoi figli. Ancora piuttosto lontano dal mio tempo, ero li con loro e tutte le volte che avveniva un fatto, tanto bello quanto brutto, ero li con loro. Io, nato circa 350 anni dopo, ero li con loro. Forse ho speso così tanti anni della mia vita a fare ricerche sui miei antenati che la mia immaginazione ha pensato bene di farmi visita, prendendomi per mano ed accompagnandomi in un passato che ormai conosco a memoria. E intanto mi appare un calendario che si sfoglia da solo e si ferma sul 1643, mi sento toccare la spalla, mi volto ed è Angelo Francesco, un bambino di 10 anni, un ragazzino come tanti ma per me molto importante.

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TANTISSIMI ANNI FA (PARTE 62)

 

Un giorno di quel lontano 1643 mi trovavo seduto su di uno sgabello di legno, fatto a mano e sulle mie ginocchia portavo un bambino di nome Angelo Francesco, di 10 anni. Papà Ambrogio me lo aveva lasciato per tutta la giornata perché era andato a coricarsi in quello scomodo letto sgangherato (beh, aveva solo quello) mentre mamma Barbara era intenta nelle faccende di tutti i giorni; proprio in quel momento in cui stavo giocando con il piccolo Angelo, lei era andata in riva al fiume, in quella baracchetta con un piccolo pollaio, a dar da mangiare alle galline e a raccogliere un po’ di uova fresche.

Ambrogio si sentiva qualcosa, non era una giornata come le altre ma piuttosto strana perché diceva: “A gh’ö päghürä dä cumbinàlä grosä stävoltä”. Il senso della sua frase non l’aveva capito nessuno tranne me, protagonista inerme del mio passato e custode attento del mio futuro. Oggi era il 19 marzo e sarebbe stato un brutto giorno per la famiglia Degiorgi. Cercai di distrarre Angelo da quello che sarebbe successo e, tenendo solo per me questo avvenimento molto prossimo, lo portai lungo il fiume a lanciare sassi nella corrente. Borgofranco non offriva chissà quali svaghi ed i bambini giocavano con quello che l’ambiente circostante metteva a disposizione: praticamente si divertivano con “niente”, armati solo della loro fantasia. Ambrogio era stanco, affaticato, aveva 70 anni, aveva lavorato tanto e aveva visto soccombere davanti ai suoi occhi 5 figli dei 9 che ha avuto. Un mese prima, il 2 febbraio, si era sposata la figlia maggiore Giovanna Margherita (di 21 anni) con un certo Grossi Pietro Martire, originario di Bassignana, paese dirimpettaio al Bùrg. Oltre a lei e ad Angelo erano rimasti Domenica Francesca di 17 anni e la piccola Antonia di 6 anni. Gli altri erano mancati tutti tra il 1618 e il 1630. La piccola Antonia raggiunse me e Angelo al fiume e giocammo tutto il giorno. Verso sera, insieme ai ragazzi tornai a casa e vidi mamma Barbara piangere. Ambrogio, con un filo di voce, nel suo letto mi disse: “Carlo, va ä ciämà Don Gàspär, fa präst”. Il Rettore venne subito e fece “quello che si doveva fare” prima che il vecchio Ambrogio chiudesse gli occhi, per sempre. Erano le 8 di sera e Ambrogio Degiorgi si spense dolcemente all’età di 70 anni. Barbara ne aveva 48, non era più una donna giovane con progetti e grilli per la testa. Aveva ancora 2 bambini piuttosto piccoli e bisognosi di attenzioni. Suo marito era morto e doveva rimboccarsi le maniche. Al funerale di Ambrogio quel giorno c’era tanta gente e tutti i suoi compagni della Confraternita di Santa Maria della Misericordia, per la quale ricopriva la carica di tesoriere. Della sua famiglia, oltre a Barbara e ai suoi figli (oltre a me che ero lì per chissà quale curioso mistero) la sorella Camilla, attorniata dai suoi nipoti che tanto adorava.

La vita di Ambrogio Degiorgi (1573-1643) si era conclusa alla vigilia di una fresca primavera che stava per arrivare.

La famiglia prosegue le sue vicissitudini, nel ricordo di Ambrogio che non c’è più e con tanta dignità. Intanto osservo le vicende senza intromettermi più di tanto perché la vita sarebbe continuata nel modo più naturale possibile, senza interferenza alcuna (almeno, da parte mia).

Tant’è vero che il nuovo giorno in cui mi sveglio non è più nel 1643 ma esattamente l’anno dopo, il 1644. In questo anno, secondo i miei appunti, succederanno tante cose, tante nel giro di poco tempo (sia piacevoli che spiacevoli). Nasce il figlio di Giovanna Margherita, Pietro Antonio, un bellissimo bambino che porterà di nuovo il sole in quella casa ma solo per pochi giorni in quanto il marito di Giovanna morirà a soli 25 anni, ritrovato nei pressi del fiume, probabilmente per un malore improvviso (“ob morbus repentinus”). Il tutto succede intorno alla metà di aprile del 1644.

Giovanna non sembra così tanto dispiaciuta, almeno, osservandone i suoi comportamenti in quei giorni, la vedevo molto serena, assorta nei pensieri di una 22enne, vedova ma ancora troppo giovane per vivere di ricordi.

Mi chiedo: “Succederà qualcosa?”. Controllo i miei appunti e sfogliando il prezioso quaderno che mi stava guidando alla “conferma” del mio passato, mi fermo sul 1644 e capisco il perché di questo atteggiamento di Giovanna.

Sapevo a cosa sarebbe andata incontro ma, nel mio totale atteggiamento da spettatore, non potevo far altro che prendere atto di quello che sarebbe avvenuto. Giovanna era molto bella e molti ragazzi le facevano la corte e le “ronzavano” attorno in modo piuttosto insistente. Tant’è che il 1° maggio 1644 Giovanna si sposa con un certo Battista Tabelotti e, nemmeno il tempo di assaporare queste nozze che il giorno successivo il marito muore (nei miei appunti c’era scritto ma non la causa). Nella vita di Giovanna, probabilmente già lo conosceva, fa capolino Giacomo Abbondio Cavezzali che speserà soltanto alcuni giorni dopo, il 5 maggio 1644. 2 matrimoni ed un decesso in solo 5 giorni: curioso e alquanto bizzarro!

La vita apparentemente vivace e turbolenta di Giovanna, si placherà con questo ultimo fatto e da qui in poi sarà una totale dedizione alla famiglia, alla casa e ai figli che verranno. Ne avrà 5, 4 maschi e una femmina.

La vita sarà dura ma entrambi moriranno anziani, lei a 70 anni, lui addirittura ad 85 e vedendo il nuovo secolo, il ‘700.

Ed io? Io seguirò gli avvenimenti, vivendoli uno per uno, tra nascite, matrimoni e morti di tutti i miei predecessori.

E intanto, quel bambino che all’inizio del racconto, portavo a cavalcioni sulle mie ginocchia, era diventato un uomo e camminava al mio fianco come a proteggermi. Al mio risveglio, il giorno dopo, mentre stropiccio gli occhi per togliermi il sonno, osservo il mio calendario e mi trovo nel 1665.

Nel mio quaderno di appunti avevo annotato un avvenimento piuttosto sconvolgente: “A Londra, un’epidemia di peste bubbonica causò la morte di 68.000 persone”. Tremendo!!!

Alzo la testa, sento delle voci e in lontananza vedo un po’ di gente che sta arrivando con alcuni doni. E’ il 18 gennaio, una data importante per la mia famiglia e quindi anche per me. Tutto procede secondo le logiche del destino perché Angelo Degiorgi, il “quadrisavolo del mio trisavolo” (parentela che neanche lontanamente una persona si sognerebbe di nominare) si stava per sposare ed io, non so come e nemmeno perché, ero lì con lui.

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TANTISSIMI ANNI FA (PARTE 63)

 

Una mattina piuttosto fredda quella domenica di gennaio del 1665, a Borgofranco era giorno di festa perché la comunità avrebbe vissuto con immensa gioia e grande partecipazione le nozze di due giovani che si sarebbero uniti in matrimonio per sempre. Ma facendo due calcoli Angelo non era tanto giovane e nemmeno la sua sposa perché lui aveva 32 anni, lei ne aveva già 30 e per il periodo in cui mi trovavo, ci si sposava molto giovani, la maggior parte delle volte ci voleva il consenso dei genitori.

Per la metà del ‘600, due trentenni erano già due adulti maturi e responsabili, non due ragazzi alle prime armi. A 30 anni, in un periodo storico così duro, erano sicuramente “giämò strac äd läurà”.

Appena alzato dal mio letto non certo comodissimo, Angelo mi viene incontro e mi dice: “Carlo, sbrigati, sono già le 8 e tra un’ora mi sposo”. Ero contento di essere lì e di conoscere quella che sarebbe stata la “quadrisavola del mio trisavolo”. La piccola ed umile casetta dei Degiorgi era già gremita di gente, chi in casa, chi nel cortile e tutti mi salutavano come se fossi uno di loro, uno della famiglia (in effetti lo ero, eccome se lo ero).

Nell’armadio trovai un vestito che mi sembrava elegante, lo indossai ma non avevo uno specchio per potermi vedere. Angelo mi dice: “Stai benissimo Carlo ma ti manca una cosa”. Una volta tutti gli uomini lo portavano: il cappello. “Tieni questo, era di papà”. Era il cappello “della festa” che usava Ambrogio Degiorgi nelle particolari occasioni. Mi stava alla perfezione, come se fosse mio, come se Ambrogio avesse le mie stesse misure perché, anche il vestito che avevo indosso era suo.

Angelo era emozionato e felice ma nei suoi occhi c’era velo di tristezza perché non c’erano più mamma e papà, e della sua numerosa famiglia (erano in 9 figli) gli erano rimaste solo le due sorelle, Giovanna e Domenica che sono lì con lui. Angelo le prende per mano incamminandosi verso “San Bärtulämè”. Io ero dietro di loro e mi guardavo intorno, fregando le mie mani una contro l’altra per scaldarmi da quel freddo pungente di gennaio.

Arrivati davanti alla parrocchiale, Angelo mi dice: “Entra in chiesa, io aspetto Caterina”. Allora scambio due parole con il parroco Don Angelo Corti con i due chierichetti al seguito. L’interno della chiesa è adornato di fiori e l’aria profuma di cera ed incenso, quello buono.

La sposa è Caterina Trotti, classe 1635, una bellissima ragazza nata e cresciuta a Borgofranco, come il padre Francesco, come il nonno Pietro. Angelo le prende il braccio portandolo a se ed insieme si dirigono verso Don Angelo che li sta aspettando, pronto ad iniziare la celebrazione.

“In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti” recita a gran voce il prelato dando inizio alla Santa Messa. Io cerco di seguire la funzione, con quel poco bagaglio di latino che mi porto appresso, trovandomi ad un certo punto, come in un batter di ciglia, al termine della messa e con Angelo e Caterina finalmente sposi. La festa finisce in quel momento e all’uscita dalla chiesa, si ritorna a casa perché c’è da fare “i misté” (le faccende). Angelo e Caterina non vanno in viaggio di nozze, non sanno nemmeno cosa voglia dire quella parola tantomeno se lo potevano permettere.

La giornata della famiglia Degiorgi prosegue come se nulla fosse successo, come se quello che era accaduto al mattino non riguardasse più nessuno. Angelo e Caterina erano marito e moglie, i festeggiamenti erano terminati e tutto doveva proseguire come prima, senza cambiamenti. Avrebbero meritato almeno questo giorno di riposo ma anche se era domenica le cose da fare erano tante e non ci si poteva fermare.

Avviene un salto temporale di oltre un anno perché il mattino seguente, come se fosse passata soltanto una notte, mi trovo al 25 aprile 1666. Sento suonare le campane della chiesa e dal cortile delle voci: “Ciàplä, se no lä scàpä”. Ma con chi ce l’avevano? Caterina diceva ad Angelo di prendere quella gallina e “tiràg äl col” per poi “mätlä in täl pügnätòn” e mangiarla a pranzo: era il giorno di Pasqua (una pasqua molto “alta” il 25 aprile). Salutai e vidi Caterina con un grosso “pancione”, stava in piedi a fatica e si teneva la schiena come se dovesse succedere da un momento all’altro. Guardai il mio taccuino con gli appunti e capii tutto: tra due giorni sarebbe nato il loro primo figlio (pensate … il trisavolo del mio trisavolo). “Caterina ce la fai?” le chiesi cortesemente e lei mi tranquillizzò: “Si Carlo, Giulio scalpita un po’ ma ce la faccio”. Come faceva a sapere che era un maschio? Non aveva mica fatto l’ecografia, nessuno glielo aveva detto. Glielo chiesi e lei mi rispose in un modo che non capii assolutamente (saranno state quelle convinzioni che avevano un tempo) ma non le dissi nulla. Passato il giorno di Pasqua e il Lunedì dell’Angelo arriva il 27 e, come volevasi dimostrare, nasce un maschietto. E’ mattina presto, mamma Caterina ha appena partorito, è stanca, provata e si addormenta raccomandando Angelo di svegliarla verso sera che sarebbero andati a battezzare il nascituro. Così fecero e verso il calar del sole li accompagnai in chiesa da Don Angelo. “Come chiamate il vostro bambino?” chiese Don Angelo. “Giulio Giuseppe Degiorgi” risposero. Era un momento importante per noi, anche per me perché tutto stava avvenendo regolarmente, senza nessun problema, senza nessun cambiamento inatteso.

Mi siedo, metto la mia testa tra le mani per qualche minuto cercando, a volte ancora incredulo, di capire perché mi stava succedendo tutto questo. Prendo il quaderno dei miei appunti ed inizio a leggere dove sono arrivato: le pagine da sfogliare sono molte e mancano ancora 350 lunghi anni prima di arrivare a leggere il mio nome. Le pagine erano pesanti come macigni, ne riuscivo a sfogliare una per volta e non sempre, come se il tempo che passava sbloccasse un livello per volta (come in un videogame).

Caterina viene da me e mi chiede: “lo vuoi prendere in braccio il tuo Giulio?”. Senza nemmeno pensarci un istante, afferro dolcemente quel “fägutìn” (sembrava una piccola mummia perché era tutto fasciato) che si addormenta profondamente tra le mie braccia facendomi un cenno di sorriso. Che momento commovente! Che piacevole sensazione stavo provando!

Che strano! Avevo in braccio Giulio Giuseppe Degiorgi. E prima di lui avevo visto crescere suo padre Angelo, suo nonno Ambrogio e avevo addirittura conosciuto i suoi bisnonni Antonio e Margherita. Non stavo sognando, gli episodi stavano scorrendo inesorabili davanti ai miei occhi facendomi percorrere passo dopo passo una storia senza tempo.

Stavo proprio vivendo nel pieno del mio passato e tenevo in mano le chiavi del mio destino.

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TANTISSIMI ANNI FA (PARTE 64)

 

Anno Domini Millesimo Sexcentesimo Sexagesimo Sesto, die 27 aprilis Rector DeCurtis baptezavi Julio Josepho nato ex Angelo Francisco et Catha Trotti coniugibus ex famiglia Degiorgi. Patrimi fuerunt Jo Ant° Arpiani et Clara Abbove”.Emozionante fu il momento in cui il rettore Angelo Corti scrisse l’atto di battesimo di Giulio Giuseppe Degiorgi, il trisavolo del mio trisavolo. Ero lì con mamma Caterina, con papà Angelo e nessun altro. Giulio era nato la mattina presto e al “vespero” della giornata è stato reso “figlio di Dio” con questo sacramento.

I miei antenati temevano la morte dei loro bambini, “imminens mortis periculum” si scriveva negli atti in latino ma questo, per il piccolo Giulio, non accadde.

Angelo e Caterina proseguono la loro vita in modo tranquillo ed io con loro mi trovo a percorrerne i momenti principali. Mentre Giulio cresce, 3 anni dopo nasce Angela Ludovica il 19 agosto 1669 ma il destino di questa bambina non è dei più rosei. Una mattina di gennaio del 1670, vengo improvvisamente svegliato da un grido. Scendo le scale quasi di getto e trovo mamma Caterina che piange disperata davanti alla sua piccola, priva di vita nel suo lettino. Purtroppo succedeva spesso in quegli anni. Il piccolo Giulio ha solo 3 anni e non si rende conto di quello che è appena successo. Lo porto con me, lo distraggo con qualche smorfia e lo induco a farmi un bellissimo sorriso. Il tempo scorre e dopo 3 anni, mentre Giulio continua a crescere e diventa un bellissimo bambino, vivace e giocherellone, nasce Paolo Antonio, il 13 aprile 1672. A differenza della piccola sorellina morta 2 anni prima, il bambino cresce, diventa grande ed aiuta, da bravo figlio, il padre Angelo nel lavoro dei campi. Quanti giorni ho passato con loro in mezzo a quei terreni che coltivavano, a ridosso del fiume Po, di quel fiume a volte amico, a volte nemico delle loro vite. Ma negli anni più belli della sua vita, succede un fatto che – ancora una volta – mi toccherà assistere: la morte, improvvisa e dolorosa.

Paolo Antonio morirà nel febbraio del 1690, a soli 18 anni. Nell’atto di morte, Don Bernardino Arpiani (parroco di Borgofranco) scriverà “ob morbus repentinus”. Il giovane si era sentito male, un dolore improvviso al petto e la morte poco dopo. Povero Paolo, frequentava una ragazza, si sarebbe dovuto sposare, stava facendo progetti per il suo futuro ma non ne ha avuto il tempo.

Continuando a peregrinare nel mio passato, saltellando di anno in anno, arrivo ad un altro momento importante che fa scorrere e fermare il mio calendario all’anno 1693. Dal mio quaderno di appunti fa capolino un foglio sul quale è annotata una triste notizia, una catastrofe fortunatamente lontana da Borgofranco: “un terribile terremoto colpisce la valle di Noto, allora Regno di Sicilia che causa oltre 60.o00 morti”. Come un’altalena, la storia locale si fonde con la storia più ampia e più lontana dando vita a cronache che restano impresse nella mia memoria.

Giulio, che mi ha visto così assorto nei pensieri, mi mette una mano sulla spalla sincerandosi che non mi fosse successo nulla. Gli dico: “No, tranquillo, ho soltanto letto una cosa che mi ha lasciato un po’ scosso”.

E’ la mattina del 7 settembre, è un lunedì ed è una bella giornata di sole. La mia famiglia si prepara “a festa” perché Giulio si sta per sposare. Gli chiedo se è contento, se sta bene, se è emozionato per questo momento così importante. Mi dice: “Si, sono contento Carlo e lo sono anche perché tu sei qui con me”. Un po’ sorpreso dalle parole che Giulio mi ha appena rivolto, rimango a pensare: “Perché mi avrà detto queste cose? E perché proprio a me e non a suo padre o a sua madre?”

Era proprio vero allora, vero quanto strano il motivo che io fossi lì e che loro, i miei antenati, percepivano in me qualcosa che era “fuori dalla loro portata” ma che stavano vivendo in modo del tutto naturale; come io stavo attraversando il passato con loro, essi stavano vivendo una parte del loro futuro con me.

Chiedo a Giulio: “Come si chiama la tua futura moglie?” E lui: “Si chiama Domenica, come il giorno più bello della settimana, come il giorno consacrato a Dio”. Domenica era una giovane di Borgofranco con il più classico e popolare cognome del luogo: Trabella. Certi suoi antenati erano detti Oltrabella, come il padre Bartolomeo, il nonno Giovanni Maria e il bisnonno Pietro, un nome antico quanto “la notte dei tempi” che a Borgofranco c’è sempre stato.

Giulio ha 27 anni, Domenica invece 21. A celebrare il matrimonio è il parroco Don Bernardino Arpiani che benedice gli sposi, augurando loro ogni bene, a vivere in pienezza e grazia.

Al termine di questo importante momento, ci incamminiamo verso casa e passeggiando tranquillo scambio due parole con Giovanna, la sorella di Giulio (che aveva 13 anni) la quale mi dice: “Carlo, hai visto Giulio e Domenica come sono belli? La prossima sarò io e voglio che tu ci sia”. Quanta premura nei miei confronti aveva questa famiglia, come se per loro fossi un tassello fondamentale che andava protetto, preservato e custodito. Giovanna, si sarebbe sposata alcuni anni più tardi ma, ovviamente, non le dissi nulla perché non avrei assolutamente potuto far trapelare alcuna notizia sul loro futuro. Il mio quaderno tra l’altro, mi permetteva di constatare solo pochi elementi per volta.

Giulio e Domenica erano felici e facevano già progetti per il loro futuro. Al punto da chiedermi consigli su come sistemare la loro casa che volevano costruire ingrandendo quella esistente che era la casa dei loro antenati (e anche dei miei ovviamente). Di certo non ero un muratore, un costruttore, un esperto in quel settore ma cercavo in tutti i modi di dar loro dei consigli, pur non essendone affatto capace. Il bello è che tutto quello che accadeva girava anche attorno a me e seppur non avendo voce in capitolo sul destino delle storie, le vivevo tutte, intensamente e in modo molto diretto.

Domenica mi disse: “Carlo, perché la famiglia sia felice occorrono tanti figli ed io da Giulio ne vorrei almeno otto”. Improvvisamente il quaderno si sfogliò di una sola pagina e apparve una scritta: “Carlo, tieni per te questa notizia: di figli, nel avranno ben undici”.

Guardando i due giovani in modo curioso e compiaciuto, metto una mano sulla spalla di Giulio e gli dico: “Pero!!!”. Giulio non capisce e chiede spiegazioni. Gli rispondo: “Niente! Pensavo soltanto ad alta voce”

Lasciai loro un messaggio: “Ragazzi, state tranquilli, la vostra famiglia sarà sicuramente numerosa e felice”. Certo che i tempi in cui ero capitato erano duri, le condizioni di vita non erano delle migliori quindi, sul destino dei loro figli non potevo promettere nulla in quanto il mio quaderno mi aveva detto che sarebbero stati undici ma non mi aveva ancora menzionato quanto le loro vite sarebbero durate. Prima di chiudersi ermeticamente come un sigillo, da quel quaderno cade a terra un foglio strappato. Lo raccolgo, lo porto al petto quasi a volerlo nascondere e lo leggo: “Il tuo destino dipenderà dall’ultimo!!!”.

Era un enigma? Una soluzione? O era semplicemente un messaggio che mi diceva come sarebbero andate le cose?

CONTINUA…

 

TANTISSIMI ANNI FA (PARTE 65)

 

Il buio pervade la stanza, è notte fonda e, seduto sul mio letto scomodo e scricchiolante, osservo quella frase scritta su quel pezzetto di carta. L’odore dell’inchiostro è persistente, quel messaggio è appena stato scritto. Lo leggo e lo rileggo più volte: “Il tuo destino dipenderà dall’ultimo!!!”. Cerco di capire cosa voglia dire questa frase scritta dal destino per me come un segno tangibile di quello che, probabilmente, sarebbe accaduto.

Ma cos’era questo “ultimo”? Una cosa, un avvenimento, una persona? Di certo il mio futuro sarebbe dipeso da qualcosa o da qualcuno, sicuramente. Mi domandavo: “Se il destino mi ha sempre dato un indizio, me lo darà anche questa volta quindi, non mi resta che attendere fiducioso e speranzoso”. Intorno a me c’era un silenzio “assordante”, devastante, fastidioso, come se tutto intorno fosse stato inghiottito da un enorme buco nero. La mia preoccupazione era molto forte ma, vivendo in quell’epoca, avevo assunto anche tutte quelle caratteristiche e quei convincimenti propri delle persone di quel periodo che nutrivano, anche nei momenti più duri e sconfortanti, fede, fiducia e speranza. Mamma Caterina, ogni volta che mi trovavo in una situazione che non era propriamente ideale mi diceva sempre: “Forsä e curàg Carlo, abi fèd”. Rimanevo in attesa di un segno, un qualcosa che mi avrebbe permesso di proseguire il viaggio. Ed ero sicuro che sarebbe arrivato. E arrivò, come pensavo. Il buio della stanza si ruppe dal fioco lume di una candela che, improvvisamente, si accese.

Mi sento una mano sulla spalla, mi volto ma non c’è nessuno, dalla stanza accanto sento un vagito, il pianto di un neonato: che bello il suono di una vita che nasce. D’improvviso il mio quaderno di appunti si apre ed inizia a tremare ed una penna d’oca inizia a scrivere un nome: Caterina, 4 novembre 1693. Guardo il calendario, è proprio questo il giorno in cui nasce la prima figlia di Giulio Giuseppe e di Maria Domenica. E’ mattino, la bambina sta bene, la famiglia è felice. Verso sera vado dal parroco Don Bernardino, a riferirgli che doveva battezzare la primogenita di Giulio. “Disäg dä gnì chi sübit” mi dice, così vado a riferirlo.

Il mio quaderno si richiude e si riapre dopo qualche istante con una notizia brutta: la gioia della famiglia sarebbe durata pochissimo perché il giorno successivo, il 5 novembre, la piccola muore improvvisamente. Quanta forza e, nel contempo, quanta precarietà racchiudeva la vita in se, in quel periodo. Per la famiglia Degiorgi ricomincia tutto da capo ma in loro non c’è resa, disperazione ma tanta fierezza e rispetto nei confronti di un destino che, spesso, sarebbe stato avverso.

E anno dopo anno, secondo le aspettative dettate dal destino in quel messaggio (“Carlo, di figli ne avranno ben undici”) arrivarono, in un susseguirsi durato 15 anni, tutti i figli di Giulio e Domenica molti dei quali non durarono a lungo purtroppo: su 11 figli, 4 moriranno infanti, 5 in giovane età e soltanto 2 riusciranno ad avere una vita normalmente lunga e degna di nota. Anna Rosanna, nata nel 1696 si sposerà e se ne andrà da Borgofranco. Il mio quaderno di appunti che chiamavo “libro del destino” mi aveva anticipato tutte queste cose, era stato piuttosto generoso stavolta, a differenza di tutte passate volte in cui le notizie mi arrivavano “con il contagocce”. Ora era tutto chiaro, avevo capito il significato di quel foglietto che diceva “Il tuo destino dipenderà dall’ultimo!!!”. Ero nel 1708, era il 10 gennaio, un inverno particolarmente rigido quello.

Giulio e Domenica non sono più due freschi giovincelli, lui ha 42 anni, lei 36 e, alla sua età, dà alla luce il suo undicesimo figlio: Pietro Francesco Degiorgi. Facendo due rapidi conti, considerando che tutti gli altri figli sono prematuramente scomparsi e le altre sono tutte femmine, è lui “l’ultimo”, quello da cui dipenderà il mio destino.

Domenica mi guarda e mi dice: “Pìäl in bràsä”, come se si sapesse sempre nel momento giusto l’importanza di quel gesto. Ho sempre tenuto in braccio colui che avrebbe dato un senso al mio futuro. A questo bambino sarebbe toccato il compito di continuare la discendenza? Probabilmente si perché tutti i bambini che ho tenuto in braccio sono stati quelli più importanti: Ambrogio, poi Angelo Francesco, poi ancora Giulio Giuseppe e adesso Pietro Francesco. Era il 1708 e, considerando il fatto che io non dovevo neanche essere li perché sarei nato 263 anni dopo, era straordinario poter vivere ogni periodo storico della mia famiglia. Stavo vivendo da spettatore protagonista questa vicenda straordinaria e da quella mattina del 1593, in cui mi svegliai in quel modo strano in quell’epoca così lontana dalla mia, erano già passati 115 anni. La cosa molto controversa era solo che io non invecchiavo, ero spuntato improvvisamente fuori dal nulla, come un fungo, invadendo la vita di queste persone senza saperne il motivo e senza averlo chiesto a nessuno.

Nel frattempo inizio a preoccuparmi perché il piccolo Pietro Francesco che avevo appena riconsegnato a mamma Domenica, improvvisamente, sembrava avesse perso i sensi. Ad assistere al parto c’era una certa Maria Pavesi, l’ostetrica (lä levätrice) che si era trattenuta con Domenica per controllare le prime ore di vita del bambino. Dall’alto della sua esperienza (“probata ostetrice” c’era scritto nei documenti) si era accorta che qualcosa non andava e per paura di imminente pericolo di morte decide di battezzarlo (per necessità le ostetriche potevano impartire il sacramento immediatamente dopo il parto). Io ero preoccupato, il destino mi stava dando “forfait”? Non capivo ma, improvvisamente, ecco che un raggio di luce colpisce il piccolo che riprende a piangere come un forsennato. C’era una convinzione nella gente di allora che recitava testuali parole: “Se äl fiulìn äl piänsä, äl vö di che l’è no mòrt” (concetto semplice, banale ma molto molto chiaro). La levatrice si volta verso di me con una faccia piuttosto rassicurante e, convinta che il peggio sia passato, dice: “Cul fiulìn chi l’è fòrt mé un cänòn e ännä cumbinärà dä vènd”. La guardo, mi metto a ridere perché inizio ad immaginare cosa farà questo bambino nel corso della sua vita. Pietro Francesco sopravvive e la famiglia, il giorno dopo lo porta in Sän Bärtulämè da Don Crosio che completa il sacro rito iniziato dalla levätrice.

Memore di quanto mi aveva detto Maria su quel bambino, osservo il mio quaderno di appunti e non vedo scritto ancora nulla ma, mentre mi domando cosa potrà accadere, ecco che l’inchiostro inizia a lasciar giù una frase in latino accanto al nome di Pietro Francesco: “Petrus Franciscus plures uxores quam liberos habebit” (praticamente “Avrà più mogli che figli”). Inizio a formulare qualche ipotesi, cercando di capire il significato di quelle parole ma poi chiudo gli occhi e cerco di addormentarmi, lasciando che il destino faccia il suo corso, rassicurato dal fatto che le cose che sarebbero successe non si sarebbero potute assolutamente cambiare.

CONTINUA…

 

 

 

 

TANTISSIMI ANNI FA (PARTE 66)

 

Dopo essermi fatto diverse domande riguardo a quella frase che avevo trovato scritta su di un foglio del mio quaderno di appunti, scritta in latino “plures uxores quam liberos habebit” ho formulato un’ipotesi piuttosto plausibile e abbastanza sicura: Pietro Francesco Degiorgi, il bisnonno del mio trisavolo, avrebbe superato mille avversità e sarebbe vissuto abbastanza a lungo da lasciare un segno tangibile del suo passaggio.

Intanto me lo trovavo di fronte, piccolo, indifeso, bisognoso di qualunque cosa la vita gli offrisse.

Ho il quaderno tra le mani ed improvvisamente avverto una scossa, tanto forte da farmelo cadere dalle mani. Quel quaderno si ferma su quel polveroso pavimento di legno e rimanendo aperto, mi fa intravedere una pagina con scritta un’altra frase, quasi a volermi dare un indizio sul destino del piccolo Pietro Francesco (e di conseguenza anche sul mio): “Molto presto solo ed indifeso!”.

La scritta su quella pagina questa volta non era così enigmatica come quella precedente, era chiara e allo stesso tempo sconvolgente, tanto da nascondere e allo stesso tempo mostrare una verità che si sarebbe svelata da lì a poco.

Cosa stava per succedere? So soltanto che eravamo nel 1708, che fino all’anno prima il territorio di Borgofranco era sotto la dominazione spagnola e che era appena stata aggregata al Piemonte. “Cosa sarebbe successo?” ancora me lo domandavo ma non mi rimaneva che attendere, fiducioso o meno, di un qualcosa che sarebbe accaduto e che, purtroppo, non era bello. Un’altra guerra? Beh, una più, una meno non ci facevo nemmeno più caso perché era un continuo susseguirsi di eventi. La nostra casa, come del resto tutto il villaggio, si trovava vicino al fiume e quale poteva essere il luogo di passaggio più frequentato se non il Po? Da lì passavano tutti, da chi aveva buone intenzioni a chi le aveva cattive e bellicose. Ma il destino avverso della famiglia Degiorgi non sarebbe stato caratterizzato da vicissitudini territoriali ma sostanzialmente da carenze affettive. La numerosa famiglia di Giulio Giuseppe Degiorgi e di Domenica Trabella, già decimata dalla prematura scomparsa di alcuni dei loro figli, stava per ricevere un “colpo di grazia”. Siamo al 14 novembre del 1710 quando una campana suona “a morto” per la scomparsa di mamma Domenica e mi trovo, giusto il tempo necessario per metabolizzare questa notizia, a dover sentire ancora una campana suonare, il novembre successivo 1711, per la scomparsa anche di Giulio Giuseppe; per la nostra famiglia e, soprattutto per la numerosa prole in tenera età, è un duro colpo che spiazza e destabilizza a tal punto da trovarmi insieme a tanti bambini piccoli ed indifesi. Domenica ha solo 37 anni, Giulio Giuseppe invece 45: due adulti ma nel pieno delle loro forze, che avrebbero potuto offrire ancora un contributo notevole verso la vita ma soprattutto verso i loro bambini.

I figli di Domenica e Giulio hanno tutti bisogno di aiuto, è mancato un punto di riferimento troppo presto: Anna Rosanna ha 15 anni, Anna Caterina ne ha 10, Anastasia 9, Angela Francesca 7, Angela Maria 5 e il piccolo Pietro Francesco soltanto 3.

Mi metto in disparte, quasi mi viene da piangere perché vedo tutti i bambini attorno alla più grande, ad Anna Rosanna, costretta a fare da mamma a tutti gli altri. Della loro famiglia sono rimasti in 6 ma nonostante questa enorme disgrazia, vedo in loro molta maturità, nonostante siano piccoli.

Esco di casa a prendere una boccata d’aria e in lontananza, nella nebbia fitta di quel giorno, intravedo una figura di donna che sta per avvicinarsi alla nostra casa. Si tratta di Giovanna Caterina Degiorgi, la zia dei bambini, l’unica sorella rimasta di Giulio Giuseppe. E’ venuta a vedere i ragazzi offrendo loro un appoggio e un aiuto. Le voglio chiedere una cosa importante: “Giovanna, questi ragazzi sono stati sfortunati, hanno perso la mamma e il papà molto presto, ora si dovranno dar molto da fare ma tu, se lo vorrai, potrai essere per loro una mamma premurosa”. Giovanna aveva 31 anni, si era sposata un decennio prima con Domenico Gabba (un giovane della vicina Bassignana) ma era rimasta vedova, non aveva figli e da quel giorno poteva averne addirittura 6. “Giovanna, pensaci”: le dissi e lei sorridendo mi rispose: “Carlo, farò come dici. Vado a parlare con i ragazzi”. Decido di lasciare loro tutto il tempo per decidere e mi dirigo verso il paese di Borgofranco a cercare aiuto e sostentamento per quei ragazzi orfani. L’Ospedale di carità “Opera Pia San Giacomo” fa al caso mio, è un centro di accoglienza per poveri, malati, bisognosi e porta assistenza e sostentamento economico a chi ha più bisogno. Spiego la situazione al parroco Don Stefanone che, con comprensione, mi aiuta dandomi un piccolo contributo in denaro per le prime necessità di questi poveri indigenti. La mia più grande gioia, quando torno, è vedere il sorriso nei volti di quei ragazzini e di quei bambini che felici, abbracciano zia Giovanna che si trasferirà da loro per l’inizio di una nuova vita. Non sarà più sola e nemmeno i ragazzi soffriranno più la solitudine. Negli occhi del piccolo Pietro Francesco c’è lo stupore, la meraviglia e quella indiscutibili incoscienza di un bambino di 3 anni che non sta assolutamente capendo cosa stia succedendo e quale sarà il suo destino (la sua mamma non se la ricorderà, purtroppo).

Quell’indizio “solo ed indifeso” che avevo trovato, voleva dire semplicemente questo, che le perdite delle persone care condizionano molto chi resta, soprattutto se a farne le spese è un bambino di 3 anni.

Ciò che mi metteva i pensieri al sicuro era quella pagina di quaderno con su scritto: “il tuo destino dipenderà dall’ultimo”. Ero consapevole che il piccolo Pietro Francesco, l’ultimo di tutti i figli di Giulio e Domenica, avrebbe costruito un futuro bello ed interessante, avrebbe percorso una strada che, seppur tortuosa, avrebbe portato alla gioia e alla felicità. La famiglia avrebbe trovato una partenza per nuove generazioni. E mentre il terzo indizio “Avrà più mogli che figli” mi faceva pensare ad una sua vita non così tranquilla, un po’ turbolenta e non monotona, in quel momento mi sono messo a disposizione di quella famiglia, di Giovanna, dei 6 ragazzi che mi consideravano a volte un compagno di giochi, di confidenze, un fratello maggiore al quale appoggiarsi.

Ognuno di loro era speciale, Pietro Francesco lo era ancora di più ed osservando tutto quello che il destino mi stava mettendo davanti, aspettavo che tutti gli eventi si susseguissero uno dopo l’altro, senza fretta.

Lo sguardo di quel bambino mi rassicurava, i suoi bellissimi occhi mi facevano tanta tenerezza. Il piccolo Pietro Francesco mi afferra la mano ed io gliela stringo forte portandola al petto. Lui mi viene vicino e mi dà un bacio sulla fronte. Quei simbolici gesti così affettuosi, così importanti e solenni si erano fermati su di lui. In quella coltre di nebbia di quel triste giorno di novembre, un raggio di sole rompe il cielo e ci illumina; il presente incontra nuovamente il suo passato.

CONTINUA…

TANTISSIMI ANNI FA (PARTE 67)

 

In questo strano viaggio che sto intraprendendo, in un mondo che non mi appartiene ma che, ugualmente, sto vivendo come se fosse il mio tempo, mi sento un po’ come un’ufficiale dell’esercito che passa in rassegna le sue truppe, tutte schierate, ordinate e pronte ad ogni suo comando. Una mattina mi sono svegliato nel 1593 senza saperne il motivo, senza che lo avessi chiesto, come in un sogno senza spazio e tempo e ho già ripercorso oltre un secolo di vita, ho incontrato persone, ho vissuto storie incredibili e mi trovo in questo momento a vivere l’inverno del 1711. Tante persone sono nate e altrettante sono mancate e in mezzo a tutto questo andirivieni di predecessori, non mi sento fuori luogo. Consapevole di essere ad oltre 300 anni di distanza dal mio tempo, mi sento bene, fisicamente e moralmente, in pace con me stesso, in un ambiente duro, privo di tutto ma ricco di tanta umanità. Come Dante Alighieri che nel Paradiso incontra il suo trisnonno Cacciaguida e si “gloria” della sua discendenza perché era un cavaliere della Seconda Crociata, anche io, nel mio peregrinare di epoca in epoca, incontro uno per uno i miei antenati che non erano cavalieri ma soltanto umili bifolchi o contadini. Nonostante questo, mi glorio lo stesso perché sono coloro i quali hanno permesso che io esistessi, che camminassi in questa vita, in questa epoca, in questo tempo.

Pietro Francesco Degiorgi non era di certo un “valoroso”, era ancora piccolo ma destinato a far grandi cose. Ed il tempo corre veloce in questa dimensione in cui mi trovo e se ieri era il 1711 e il piccolo Pietro Francesco aveva 3 anni, oggi, leggendo il calendario segna l’anno 1728 e colui che era un bimbo, oggi ha 20 anni ed è pronto per affrontare la vita non più da solo ma con una dolcissima fanciulla di nome Giovanna Caterina Torre. E’ il giorno del loro matrimonio, il 20 gennaio del 1728 ed io non potrei essere più contento perché questa sarà la coppia chiave per il mio futuro. Vengono sposati da Don Domizio Marziani che li benedice e li proclama marito e moglie, una “nuova famiglia cristiana”. Ma succede qualcosa di inaspettato e il calendario va ad aprirsi sul 1730, anno in cui la sua giovane sposa viene a mancare all’età di 22 anni. Anche Pietro Francesco ha 22 anni ed è già vedovo. La disperazione lo pervade e sembra che il mondo gli stia crollando addosso. Si confida con me e piange: “Carlo, i miei sogni sono svaniti, sono preoccupato per te”. Pietro Francesco sentiva la preoccupazione, forse quella di non riuscire a farsi una famiglia e di non assicurare un futuro. Cerco di rincuorarlo, gli spiego che è ancora troppo giovane per mollare così e, ad un tratto, di colpo passa un anno e arriva il 1731. E’ il 30 gennaio, una giornata in cui la neve sta cadendo abbondante e ricopre la natura circostante come a proteggerla, come a proteggere anche la vita di Pietro Francesco che ha conosciuto Maria, una giovane donna di 20 anni che ha già passato un grande dispiacere, già vedova anch’ella di un certo Gerolamo Dall’Occhio. La loro vedovanza in così giovane età li aveva fatti incontrare e avevano pensato entrambi che la vita potesse e dovesse continuare. Pietro e Maria si sposano il 30 gennaio e, per la seconda volta non posso essere che contento per loro. Sarà la volta buona? Lo spero tanto e anche Pietro lo spera, lo spera per lui e lo spera per me. Il matrimonio non ha intoppi, tutto andrà bene, la loro vita scorrerà felice, passeranno i giorni e le notti ma una cosa li rattrista: la mancanza di un figlio. Gli anni trascorrono e intanto che sono lì con loro e partecipo alla loro vita, vedo passare 27 lunghi anni ma senza figli, nemmeno uno. E mi trovo proprio in quel giorno di primavera del 1758 e Maria Arrigoni, muore a 47 anni. Qui le cose iniziano a cambiare per Pietro Francesco che, a differenza della prima volta, non ha 22 anni ma ne ha 50 ed è di nuovo completamente solo.

Vale di certo poco la mia consolazione ma cerco ugualmente di stargli vicino, di confortarlo e di fargli capire che per lui ci sarò sempre.

Non mi capacitavo, era vedovo per la seconda volta, aveva 50 anni, non aveva figli ma io ero con lui, ero presente quindi, per forza di cosa doveva succedere qualcosa. Era rimasto solo lui delle sua famiglia e soltanto lui avrebbe potuto darmi un futuro. Ma in che modo? A quell’età poi?

Ricordavo quella frase su quel foglio: “plures uxores quam liberos habebit” (più mogli che figli). Fino ad ora di mogli ne ha avute due ma di figli nessuno. Quella scritta iniziava ad avere un senso ma quello che sarebbe dovuto accadere, probabilmente, non era ancora successo.

Mancava qualcosa, un tassello, un fatto importante. Con pazienza avrei dovuto attendere ed è quello che ho fatto. Sono rimasto completamente impassibile aspettando che il destino desse un cenno.

Pietro Francesco, nel frattempo lavora la terra, fatica, sacrifica le sue giornate sotto il sole cocente per poter vivere, sopravvivere e tirare avanti. Nel 1760, Pietro Francesco va a lavorare nella vicina Gambarana, a poco più di un chilometro di cammino dal Borgofranco. E qui incontra una persona, più giovane di lui di 18 anni; lei è Margherita Cigalino, una donna di 34 anni, lui è un adulto (diciamo pure un vecchio, per quell’epoca) di 52 anni. Un giorno la porta a casa nostra e me la presenta. E’ veramente una donna molto bella, gentile, premurosa ed amorevole. Passiamo la giornata insieme e verso sera lui l’accompagna a casa. Torna e mi confida una cosa: “Carlo, ho 52 anni ma sono innamorato di lei, la vorrei sposare, cosa ne dici?”. Pensando che se lo avesse fatto, la mia vita sarebbe stata, forse, al sicuro gli dissi: “E’ una notizia magnifica, sono contento per te” (e anche per me). Non che fossi io a dover consentire l’evento ma, ecco che arriva il fatidico giorno e il 2 ottobre 1760, Pietro Francesco e Margherita si sposano. Per lui è la terza volta. Li sposa il Rettore Don Carlo Antonio Nebbiola in “Parochiali Ecclesia Burgi Franchi” scriverà in quell’atto in solenne latino che si usava, secondo le regole di Santa Romana Chiesa. Alla celebrazione ci sono i genitori di Margherita e per Pietro Francesco non c’è più nessuno dei suoi parenti: mamma, papà, fratelli e sorelle li aveva persi tutti, lungo la strada tortuosa della vita.

Ma quel giorno era bello, pieno di gioia, luminoso. La mia permanenza nelle varie epoche era costante, gli anni continuavano a passare ed io passavo con loro. E adesso? A questa nuova famiglia doveva succedere ancora qualcosa perché quell’iscrizione latina avesse un senso, fino in fondo: dovevano arrivare dei figli.

Se i figli dovevano essere meno di 3 (che erano i matrimoni di Pietro) sarebbero dovuti arrivare almeno 2 figli, anche soltanto uno, almeno uno: quello giusto! Fiducioso del mio destino, che fino ad ora si era comportato in maniera impeccabile, mi siedo e aspetto che qualcosa accada.

Lascio soli i due sposi e me ne vado. Il torpore mi assale, ho bisogno di un letto per riposare, ho solo voglia di fare una cosa: dormire. Quando sopraggiungono in me questi stati d’animo, sono quasi sicuro che il destino mi sta preparando qualcosa. Prima che i miei occhi si chiudano, sul quaderno appare una frase che dice: “Si chiamerà come il nonno”.

E cado in un sonno profondissimo!

CONTINUA…

TANTISSIMI ANNI FA (PARTE 68)

 

Nel sonno, una voce insistente mi ripeteva le parole del quaderno: “Si chiamerà come il nonno”. Parole lievi, leggere, sussurrate ma continue. Il destino probabilmente mi stava mandando dei segnali confortanti.

Il mio stato dormiente viene interrotto improvvisamente da uno strillante vagito. Mi sveglio, stropiccio gli occhi e mi accorgo di essere al 1°luglio del 1762: ma quanto ho dormito? Considerando che l’ultimo fatto vissuto risaliva al 1760, avevo dormito praticamente 2 anni.

Sono le 10 del mattino e vedo Pietro Francesco letteralmente nel panico, come un ragazzino impacciato che non capisce cosa sta succedendo.

In effetti, un po’ di emozione “ci stava” perché dall’alto dei suoi 54 anni era appena diventato padre. Preoccupato, porgo il mio sguardo verso Margherita che, fortunatamente, è sveglia e sta bene. Tiene tra le braccia un frugoletto (un “fagutìn”) tutto fasciato con fuori solo la testa. L’ostetrica che aveva assistito mamma Margherita al parto, lo aveva appena lavato e sistemato. Il bambino era molto bello, il suo visino era disteso e il peggio - perché in quel periodo era anche rischioso venire al mondo - era passato. Margherita è stanca, affaticata (ha già 36 anni) e l’ostetrica mi chiama: “Carlo, aiutami, tieni in braccio un momento Giulio”. Ecco che la scritta su quel foglio del mio quaderno era confermata: Giulio era il nonno, e Giulio è il nipote, primogenito di Pietro Francesco e di Margherita. Il gesto ricorrente della “presa in braccio” del neonato mi fa capire che questo bambino sarebbe stato quello giusto, il punto di riferimento della mia generazione. “Lo hanno chiamato Giulio Paolo”: mi dice la “levatrice” che nel frattempo sta appoggiando un panno d’acqua fresca sulla fronte di mamma Margherita. Il piccolo sta bene, urla come un forsennato.

Ma Pietro Francesco dov’è? Non lo so, è sparito, vado a vedere fuori in cortile. Esco, osservo in ogni angolo della proprietà e non lo trovo, non c’è da nessuna parte. Poi mi viene in mente una cosa che lui stesso mi aveva detto tempo fa: “Affida i tuoi sentimenti alla corrente del Po, lui ti ascolta”.

Ero sicuro di trovarlo là. Mi incammino pian piano e lo trovo proprio dove pensavo che fosse. Gli vado incontro e una volta arrivatogli ad un tiro di sasso lo guardo e lo vedo piangere come un bambino. “Cosa succede Pietro?” gli domando. Lui, terrorizzato, mi risponde: “Sei venuto qui per darmi la brutta notizia, è andato storto qualcosa?”. Lo tranquillizzo e lo abbraccio forte dicendogli: “Pietro, è andato tutto bene, Margherita e il piccolo Giulio stanno tutti bene”. Il suo pianto disperato si trasforma improvvisamente in un pianto di gioia. Preso da non so cosa, solo il tempo di levarsi le scarpe ed il cappello, si tuffa nel fiume vestito, come se quel bagno rinfrescante e liberatorio fossero in grado di lavar via ogni suo dubbio e preoccupazione.

In un periodo difficile come quello in cui stavamo vivendo, la nascita di un figlio non può che manifestare sentimenti discordanti: dolori e gioie allo stesso tempo. Nei suoi 54 anni sente quella risvegliata sensazione di vitalità, di rinnovata speranza, avverte un’emozione difficile da descrivere perché a quell’età, in quell’epoca, o si diventa nonni o si è già nella tomba. Preso da una gioia incalcolabile, mi afferra la mano e mi dice: “Carlo, presto, dobbiamo andare, la nostra famiglia ci sta aspettando”.

E di corsa, lui tutto bagnato dalla nuotata che ha appena fatto, io dietro di lui perché correva più veloce di me, ci dirigiamo verso casa. Le speranze che sembrava avesse perso per sempre (e non conosco il motivo di questa sua disperazione) lasciavano il posto da una ventata di ottimismo, ad una luce nuova. Quella nuova vita che era sbocciata sembrava avesse fatto sbocciare anche lui.

Arriviamo a casa e Margherita è in piedi con il bambino in braccio. Ormai è quasi sera e, la gioia è tale che passano ogni istante con il piccolo Giulio Paolo. Prima di andare a letto, Pietro mi guarda e, passandomi il bambino, mi dice: “Tienilo un po’ tu perché ti vuole bene”. Osservando quella creatura innocente, penso a quanto sia importante quel gesto che sto facendo, così importante, semplice e premuroso.

Giulio Paolo è il nonno del mio trisavolo, un individuo distante da me ben 6 generazioni che tenevo in braccio, come se fosse del tutto normale tutto quello che mi stava accadendo.

Sorrido, abbasso gli occhi e lui mi sorride, i suoi piccoli occhietti si chiudono e Giulio si addormenta profondamente tra le mie braccia. Lo tengo ancora un po’ prima di posarlo dolcemente sulla sua culla di legno. Il giorno successivo, al mattino presto, Giulio viene battezzato in San Bartolomeo dal rettore Don Carlo Antonio Nebbiola. Dopo il sacramento e la sua benedizione, si torna a casa riprendendo le normali attività fino a sera. La notte passa tranquilla, tanto tranquilla da sembrare eterna. Il giorno dopo, al mio risveglio avverto un cambiamento. Intanto non è più il 1762 ma 3 anni più tardi, esattamente il 14 aprile 1765, la domenica successiva alla Pasqua. I vagiti di Bartolomeo rompono il silenzio di quella mattina fresca e soleggiata. Gli viene dato il nome del Santo Patrono di Borgofranco. Giulio ha 3 anni ed incuriosito dal suo fratellino, vorrebbe prenderlo in braccio. Mamma Margherita non acconsente, è troppo piccolo, è appena venuto al mondo e ha bisogno di dormire. A differenza di Giulio, il piccolo Bartolomeo viene battezzato poche ore dopo la nascita. Il parroco è sempre Don Nebbiola.

Pietro Francesco non ci poteva credere, aveva 57 anni ed era diventato di nuovo papà di un bellissimo bambino. Mamma Margherita invece aveva 39 anni. Aveva dato alla luce 2 maschi, due continuatori della discendenza attraverso i quali il cognome non sarebbe andato perduto.

A Borgofranco intanto cala la sera, il buio ricopre ogni cosa circostante mentre noi, nella nostra casetta, siamo al sicuro, con la convinzione che il futuro sarà assicurato da questi due bambini.

Nell’aria c’è calma e pace, in lontananza il rumore del fiume è attutito da un’atmosfera del tutto insolita mentre una lieve brezza di vento muove le foglie degli alberi che sembrano salutare il cielo. La luna, dietro una nuvola, nasconde timidamente il suo chiarore.

Sul mio quaderno non ci sono ancora indizi, il destino non ha ancora rivelato nulla ma sono sicuro che presto lo farà.

Nemmeno il tempo di terminare il mio pensiero che appare una scritta su di un foglio: “Dovrà fare in fretta ma il suo seme darà molto frutto!”

Un messaggio positivo? O negativo? Sicuramente un po’ contrastante ma tra presagi e speranze, l’inesorabile passare del tempo scandisce i suoi rintocchi e i bambini, presto diventeranno uomini.

CONTINUA…

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TANTISSIMI ANNI FA (PARTE 69)

 

“Dovrà fare in fretta ma il suo seme darà molto frutto!”

Questa frase compare all’improvviso su uno dei fogli bianchi del mio quaderno e mi fa chiaramente capire che succederà qualcosa nella vita di Giulio Paolo. Mi trovo nell’anno 1765, in una casetta sulla riva del fiume, abitata da una famiglia con due bambini. Pietro Francesco ha 57 anni, la moglie Margherita ne ha 39 e i due bambini sono molti piccoli perché Giulio Paolo ha 3 anni mentre Bartolomeo è appena venuto al mondo.

Leggo attentamente: “Dovrà fare in fretta” e mi faccio tante domande su quanto durerà la vita di Giulio Paolo perché, dato il messaggio chiaro, durerà poco, sarà breve, non avrà tutto quel tempo per fare chissà cosa. E’ una comunicazione, di primo impatto, negativa, non bella, che fa presagire momenti assai dolorosi. A questo primo pensiero se ne contrappone un secondo: “il suo seme darà molto frutto!”, frase del tutto diversa dalla precedente, che lascia pensare a quello che Giulio riuscirà a fare, nonostante la sua vita non così lunga.

Ma le mie sono soltanto ipotesi, presupposti dati da quei pochi indizi che mi si sono presentati davanti fino a questo momento.

Soltanto il mio quaderno parlava e mi dava delle tracce che sarebbero state utili e necessarie per poter andare avanti.

L’epoca in cui mi trovo è ancora molto lontana, in piena dominazione austriaca. A Borgofranco, la maggior parte della gente era povera e faticava a sopravvivere: lavoro duro, condizioni di vita non proprio consone ed ideali. Giulio Paolo è un bambino di 3 anni con tanta voglia di vivere, apparentemente felice, spensierato, ancora privo di tutte quelle ideologie, di tutti quei convincimenti che gli sarebbero entrati in testa più avanti con gli anni. L’immagine bella che ho di loro è quella che sto osservando in questo momento: Giulio, che ha 3 anni, tiene in braccio il suo fratellino Bartolomeo (chiamato come il santo patrono di Borgofranco) che dorme tranquillo e beato. Che epoca brutta quella, così dura che era difficile anche essere bambini. Superata quella fase piuttosto ostile, non è che i bambini fossero fuori pericolo, anzi, ogni fase della vita era dura, faticosa, le condizioni di vita era tali per cui anche una banale malattia, un’influenza, un malanno anche piuttosto banale, potevano considerarsi fatali, per chiunque. La mortalità infantile era altissima e ho assistito, in questo mio girovagare di epoca in epoca, a tante campane che suonavano a morto, proprio per bambini, per creature innocenti che non arrivavano, spesso, all’anno di vita. Nel comune di Borgofranco, nascevano circa 45-50 bambini l’anno ma oltre la metà non sopravviveva e non diventava grande. Dopo aver giocato tutto il giorno con Giulio era tempo di andare a dormire, la giornata era stata piuttosto lunga ma non ero stanco, avevo soltanto meditato molto sul futuro, su     quello che sarebbe potuto accadere. Giulio era un bellissimo bambino ma quella frase “dovrà fare in fretta” mi inquietava un po’ e mi preoccupava.

Chiudo gli occhi, cerco di dormire ma non riesco subito, sento ogni tipo di rumore, il vento fuori, lo scroscio delle acque del Po, poco distante dalla nostra casa, dal nostro borgo. Poi più nulla.

Apro gli occhi ed è mattina, sento molto movimento in casa Degiorgi, mamma Margherita e papà Francesco sono vestiti con abiti più eleganti del solito, l’unico abito bello che hanno: è il primo febbraio del 1780, Giulio non ha ancora compiuto 18 anni e sta per sposarsi con una stupenda fanciulla che ha 2 anni in più di lui, Maria Domenica Biancardi, del Borgofranco. La ragazza, molto bella, si ferma a parlare con me e mi racconta, come se mi conoscesse da sempre, che le sue origini sono di questo luogo e che un suo antenato, Francesco Biancardi, nel 1660 arriva al Burg dalla vicina Bassignana, probabilmente attraversando il Po in barca. Sul mio quaderno miracoloso non ho appunti su di lui ma ho una nota a margine in cui c’è scritto “Biancardi 1660 ex loci Bassignanam”.

E il mio giovane eroe Giulio Paolo Degiorgi era pronto per intraprendere una vita dedita alla famiglia, alla sua Maria che stava per sposare: il suo gran giorno era arrivato ed io ero lì con lui, con loro, fuori dal mio tempo ed immerso in una dimensione totalmente distante ma assolutamente vicina e famigliare.

Intanto, il rintocco della campana della Chiesa di San Bartolomeo, chiamava i due sposi alla loro unione. “Ragazzi, andiamo, don Eusebio vi sta aspettando” dicevo loro ad alta voce, tra il frastuono della folla che era arrivata alla piccola casetta in riva al fiume. Don Eusebio era al Borgo da un paio d’anni, prima era stato Parroco a Cairo per un decennio. Il vecchio padre Pietro Francesco era stanco, provato dalla fatica del suo lavoro ma contento di vedere il suo figliolo sposarsi. Lo aveva avuto in età avanzata, mi prende per mano e mi dice: “Carlo, pensavo di non arrivare in tempo, ho 72 anni, sono nato nell’8” (si riferiva ovviamente al 1708). E ancora: “Invece il mio Giulio si sposa e a me manca poco”.

Come faceva a sapere questo? Come riusciva a capire cosa gli sarebbe successo? Quel “poco” che pensava, quanto poco poteva essere?

Aveva certamente un’età sufficientemente avanzata per l’epoca in cui ci trovavamo ma non per questo tutti gli individui dovevano soccombere prima. L’età media era di 45 anni, anche meno e la sua età era già piuttosto ragguardevole. Nel mio quaderno di appunti non mi compare nulla su Pietro Francesco ma è sicuro che a 72 anni non avrà più né figli né un’aspettativa di vita lunga. Era felice, lo vedevo perché aveva due figli giovani, il 18enne sposo Giulio e il 15enne Bartolomeo, ancora un ragazzino. Lui invece era vecchio, si sentiva un nonno ma era solo un tenero e premuroso papà che amava disperatamente i suoi figli e sua moglie, la sua Margherita, di 18 anni più giovane di lui. Non gli rimaneva molto da vivere, probabilmente aveva ragione lui, ma la sua famiglia era tutto, l’unica ragione che valeva la pena di continuare a lottare per vivere ancora qualche anno. Giulio Paolo e Maria Domenica erano sposi, per loro iniziava una vita nuova. Devo sempre ricordare quella frase letta sul mio quaderno: “Dovrà fare in fretta ma il suo seme darà molto frutto!”

Come dovevo aspettarmi da Giulio? Cioè dal nonno del mio trisavolo che quel giorno aveva 18 anni e lo vedevo sposarsi?

Già quello che stava accadendo era strano ma so soltanto che stava accadendo, tutto qui!

Continua …

TANTISSIMI ANNI FA (PARTE 70)

 

A piccoli passi continua il mio cammino in un mondo praticamente sconosciuto, in un periodo storico che non è il mio, fuori dal mio tempo, dal mio spazio, lontano da tutti i da tutto. Cosa dovrei fare? Mi trovo lontano da casa ma, peggio ancora, le distanze che sto cercando di affrontare non sono fatte di spazio ma di tempo. E’ una lontananza temporale. Siamo nel 1780 e capirete che, trovandomi sbalzato di 242 anni rispetto al mio periodo storico, non è sicuramente poco.

Le mie giornate sono scandite da ogni tipo di situazione, di sensazione ed il mio umore passa da “gioia” a “tristezza” nel giro di poco tempo. Le condizioni di vita in questo periodo non sono di certo rosee, le comodità non ci sono, non c’è proprio nulla di nulla: ci sono solo le persone, diverse tra loro, con storie differenti e molte lacrime da asciugare. Si passa da nascite, a matrimoni e anche morti improvvise, per un nonnulla, una banalità, una semplice complicazione di poco conto.

In questi anni, dal 1593 fino al momento in cui mi trovo adesso, sono passati quasi 200 anni ed in questo arco di tempo piuttosto lungo ho visto tante situazioni, ho visto il meraviglioso miracolo della vita e il misterioso disegno della morte. Quello che succede non lascia molto spazio all’immaginazione e il destino non guarda assolutamente in faccia a nessuno. Il Borgofranco poi è un paese che ogni volta che il Po si ingrossa, rischia di andare sott’acqua o, addirittura, di essere spazzato via. Questo secolo, il ‘700, in cui mi trovo, ha visto almeno 6, 7 alluvioni disastrose e li paese si è sempre salvato ma con non pochi danni. I miei antenati, qui a Borgofranco, ne hanno viste di giornate in cui l’acqua ha devastato le loro terre. Nel 1705, nel 1719, 1729, 1733, nel 1755 e ancora nel 1772. E chissà quante ne verranno ancora! Il borgo, circondato da spesse mura, sembrerebbe al sicuro ma la sua posizione, fin troppo vicina a questo grande compagno, a volte benevolo ma talvolta malevolo, lo mettono sempre in pericolo, sempre e comunque.

Le mie considerazioni sono puramente storiche, per ora, che siamo nel 1782, Borgofranco è ancora lì, fermo, immobile, con la sua gente con gli occhi rossi e stanchi, affaticata dal lavoro dei campi, umile nel modo di essere e fiera nel modo di reagire.

Ed è proprio oggi, 13 febbraio 1782 che Pietro Francesco Degiorgi, termina la sua vite terrena all’età di 74 anni, circondato dall’affetto dei suoi due figli Giulio di 20 anni e Bartolomeo di 17. Lui vecchio, con una vita non facile, tre matrimoni a cui hanno fatto seguito due vedovanze. Con la terza moglie Margherita, di 18 anni più giovane di lui, ha condiviso gli ultimi 22 anni della sua vita fino ad oggi. Un’esistenza piuttosto lunga la sua, per il periodo in cui siamo (dato che la vita media è piuttosto bassa). Sono contento però perché ho avuto la fortuna di conoscere un uomo veramente buono, generoso, dal cuore d’oro. Ora la vita prosegue con mamma Margherita, con i figli e Giulio, il primogenito dei due, sta per diventare padre perché vedo che Maria Domenica è in stato interessante.

Il mio quaderno di appunti non ha ancora evidenziato nulla di particolare e, per il momento, nessun dato saliente è emerso da quei fogli. Come un moderno cellulare, quando emerge qualcosa che devo leggere, il quaderno emette una vibrazione, aprendosi nella pagina sulla quale appare scritto quello che dovrei sapere ma, probabilmente, non è ancora il momento di conoscere quello che accadrà. Le vicende, al Borgofranco, scorrono senza particolari problemi ma ad un certo punto ecco un segnale e quel quaderno che qualche attimo prima era nelle mie mani, cade a terra, aprendosi su una scritta: “la metà di 6 avrà la sua importanza”.

Se la matematica non è un’opinione, la metà di 6 è 3 e questo numero cosa vorrebbe dire? Il terzo di qualcosa o meglio, il terzo di qualcuno? Non dimenticandomi l’indizio precedente che diceva: “Dovrà fare in fretta ma il suo seme darà molto frutto” potrei ipotizzare un numero sufficiente di discendenti di Giulio per cui ci sarà un futuro nella famiglia Degiorgi e il terzo potrebbe essere il “terzogenito” dei suoi figli.

Se così fosse non lo so ancora ma ciò che avviene in questo momento è la nascita della piccola Angela Maria, il 1°marzo 1782. Per la gioia di papà e mamma ecco venire al mondo la loro primogenita. Purtroppo nonno Pietro Francesco non ha fatto in tempo a vedere la sua prima nipotina ma la sua età anagraficamente avanzata non gli avrebbe permesso di osservare una lunga discendenza ma, il suo bellissimo ricordo, stava continuando a vivere attraverso i suoi figli Giulio e Bartolomeo e successivamente nei loro figli. Anche Bartolomeo troverà presto una compagna e metterà su famiglia, ne sono assolutamente certo.

Purtroppo la felicità di mamma e papà dura poco. La piccola Angela Maria muore improvvisamente a soli 5 giorni e, di colpo, tutto ricomincia da capo.

Mi trovo catapultato di 2 anni in avanti, siamo nel 1784, e il 19 gennaio nasce un’altra bambina che chiamano Margherita Veneranda (un bel nome). Sembra andare tutto bene e passa ancora un anno. Il 24 gennaio 1785 si sposa Bartolomeo. Il giovane 20enne sposa Giuseppa Bellisoni che ha 2 anni in più di lui. Festeggiamenti non ce ne sono, la famiglia non ha così tante possibilità ma la felicità è evidente, negli occhi di tutti.

Mamma Margherita ha 60 anni e le hanno detto che sta per diventare nonna. Viene da me e mi riferisce quello che accadrà: “Carlo, è un momento importante per la nostra famiglia e anche per te”. Facendo due rapidi conti, sarebbe arrivato il 3°figlio di Giulio e Maria Domenica: che sia lui a continuare la generazione che sarebbe arrivata lontano fino a me?

Ancora lontano dal mio tempo, osservo il mio quaderno di appunti e quella frase “la metà di 6 avrà la sua importanza” vedo che si sta sottolineando varie volte. A questo punto, pur non sapendolo ancora, non ho quasi più dubbi nel ritenere che colui che verrà al mondo tra qualche mese, sarà un maschio. Il 1785 sta per terminare ed io non vedo l’ora di conoscere colui che, secondo i miei appunti, sarà il “personaggio chiave” e da lui dipenderà anche la mia vita futura. Dico soltanto: “Caro il mio quadrisavolo, ti aspetto!”

Continua …

 

TANTISSIMI ANNI FA (PARTE 71)

 

E’ l’anno del Signore (Anno Domini) 1786 a Borgofranco e in casa Degiorgi fervono i preparativi per l’arrivo di qualcuno che tutti, me compreso, reputano importante, come se si sapesse – in anticipo – che questo lieto evento sarà uno dei punti fondamentali per la continuazione di tutto.

Nonna Margherita è emozionata, papà Giulio in trepidazione, mamma Maria Domenica è felice ma, mentre la osservo, vedo in lei la fatica perchè sono appena sopraggiunge le doglie del parto.

La giornata è molto fredda, è il 17 gennaio, il camino brucia la sua legna dura – quella trovata vicino al fiume – riscaldando l’ambiente circostante. Intanto è stata chiamata la “levatrice” e presto nascerà colui che tutti stanno attendendo. Secondo il mio quaderno di appunti, colui che verrà al mondo sarà di un’importanza fondamentale.

Tutti mi stanno guardando, come se dovessero dirmi “andrà tutto bene!”

Trovandomi in una situazione che non riesco del tutto a comprendere, aspetto fiducioso il susseguirsi degli eventi così come ho fatto fino ad ora.

Il destino, poco per volta, avrebbe mandato i suoi segnali e ho imparato una cosa da questo: non bisogna altro che attendere, aver fiducia e non interferire con ciò che accade. Esco di casa il tempo di accendere del tabacco e pensare (la domanda è: perché ora sto fumando che non l’ho mai fatto in vita mia?) quand’ecco che, da dentro, un pianto sommesso attira la mia attenzione. E gettando quel poco tabacco rimasto, entro in casa e vedo una creatura avvolta in un panno, in braccio a quella donna che lo ha fatto venire al mondo. Mamma Domenica, esausta, si è addormentata.

Senza dire una parola, rimango in disparte, in un angolo, seduto su quella panca di legno che ancora l’antenato Antonio (che faceva il falegname) aveva costruito con tanta pazienza ed amore. Un oggetto prezioso che le famiglie povere conservavano quasi come delle reliquie e che si tramandavano di generazione in generazione. Mentre sono seduto a pensare a quello che verrà, a quello che mi riserverà il destino, mi assopisco a tal punto da cadere in un sonno profondo.

Vengo svegliato da Giulio che mi dice: “E’ nato Severino ed è un bellissimo frugoletto. Lo vuoi vedere?”. Gli dico: “Si, certamente, arrivo subito”.

Intanto i suoi vagiti erano talmente forti, potenti, che il loro frastuono non riusciva a smorzarsi ed echeggiava per tutta la casa.

Un pianto talmente forte che mi preoccupava. “Sarà mica malato, avrà mica qualcosa che non va?”. E la levatrice mi disse: “Carlo, lascialo piangere, si farà i polmoni e diventerà grande”. Come per incanto, il bambino mi vide ed, improvvisamente, come se avesse visto una luce, smise di piangere e, con i suoi occhioni scuri ma velati da quelle poche ore di vita che avevano, mi guardò, come se fosse incuriosito. Non so se riconoscevano qualche figura chiara ma so che quello che stavano vedendo quei due occhioni, avevano qualcosa di allietante per lui, rilassandolo a tal punto da smettere di piangere, all’improvviso, come se qualcuno gli avesse tirato un pugno in testa. Le sue strilla si trasformarono in un gemito e quella bocca spalancata per il pianto, si dischiuse in una bellissima smorfia di dolcezza, un gesto come un sorriso. Giulio mi disse: “Carlo, prendilo in braccio”.

Con Severino, non so quanti bambini avevo preso in braccio fino ad ora. Da quel lontano 1593 erano passati quasi 200 anni ed io, anno dopo anno, stavo vivendo ogni singolo istante passando in rassegna tutti i miei antenati. Avevo conosciuto Antonio e Margherita, all’inizio di questo viaggio così strano e bellissimo, avevo visto Ambrogio piccolino, avevo tenuto in braccio Angelo, poi suo figlio Giulio Giuseppe, poi Pietro Francesco, poi Giulio Paolo ed ora era la volta di Severino.

Tutti coloro che avevo tenuto in braccio si sono rivelati importanti. E dal mio quaderno di appunti, Severino era sottolineato più volte, come se dovesse risaltare in qualche modo. Il suo nome era Pietro Francesco Severino, battezzato il giorno dopo da Don Alessandro Vallegiani.

Di fianco al suo nome comparve l’annotazione “spostamento famigliare”. Avrei voluto saperne di più ma la mia curiosità avrebbe dovuto attendere il normale corso degli eventi, aspettando pazientemente il susseguirsi dei ritmi lenti di una comunità lontana dallo spazio e dal tempo.

E’ l’anno del Signore (Anno Domini) 1786 a Borgofranco e in casa Degiorgi si fa festa per un bambino che avrebbe sicuramente portato bene a tutti e a me avrebbe garantito un futuro.

Eravamo di fronte ad una società che voleva cambiare, assolutamente priva di ogni tipo di comodità ma che, in questi 200 anni trascorsi, qualcosa è cambiato, sicuramente ed in meglio. La gente a Borgofranco era piuttosto semplice, la realtà era prevalentemente quella contadina, chi coltivava la terra, chi aveva l’orto (urtàiä) senza necessariamente una bottega. Tutti vivevano di quello che coltivavano, la terra offriva tutto il necessario. Di superfluo non c’era nulla, tutto era utile e necessario, non si buttava via nulla. La mia famiglia, da quel 1593, non si è mai spostata, il lavoro era regolarmente rinnovato, ogni anno, ogni 11 di novembre e per la famiglia Degiorgi è sempre andata bene. Questo “spostamento famigliare” vorrà dire qualcosa? La vita a Borgofranco non sarebbe stata più possibile? Qualche motivo particolarmente rilevante per dover andare via? Fino ad ora non era mai successo, non c’erano mai stati i presupposti per dover “fà sü arm e bägài” e cambiare luogo.

Dove si sarebbe spinta la famiglia Degiorgi, via da Borgofranco? Dato che mi tocca vivere questo tempo come se fosse il mio, non mi resta che viverlo, fino in fondo sperando di non scoprire qualcosa di poco piacevole.

E’ l’anno del Signore (Anno Domini) 1786 a Borgofranco e in casa Degiorgi si programmava il futuro.

Continua …